lunedì 18 maggio 2020

Publio Cornelio Tacito – De origine et situ Germanorum


Publio Cornelio Tacito – De origine et situ Germanorum




Di seguito propongo una ricostruzione compendiosa dell'opera di Tacito "Germania", segnalando i contenuti più importanti e le notizie ritenute a mio parere più rilevanti. Si procede in base ai singoli capitoli in cui è suddivisa l'opera. Nelle note di apparato si propongono rimandi ad altre opere la cui relazione è suggerita dal passo preso in esame. L’opera fu composta nel 98 d.C. (terminus post quem è la data del secondo consolato di Traiano, che cade il 1° gennaio dell’anno, citato nel cap. 37), ed ebbe risonanza quasi certamente nello spazio di tempo che separò la morte di Nerva, l’ispezione di Traiano alla frontiera sul Danubio (estate 98), e l’entrata a Roma (settembre/ottobre 99) del neo imperatore (cfr. Marziale, Epigrammi, X, 6 sul tema dell’attesa del Principe). Tacito redasse l’opera probabilmente come opuscolo a scopo informativo per i membri dell’élite dell’Urbe (lo stesso stile dell’opera è piuttosto mondano).


Publio Cornelio Tacito


1. I germani sono separati dai Sarmati (Iazigi) e dai Daci dalla paura reciproca e dai monti (mutuo metu aut montibus separatur),[1] dai fiumi Reno (che nasce dalla Alpi Retiche e si getta nell’oceano) e Danubio (che si sviluppa dalla catena dell’Abnoba e si riversa nel mar Pontico (Mar Nero)), - questi ultimi dividendo la loro terra dalla Gallia, dalla Rezia e dalla Pannonia -, nonché dall’oceano. [2] La grande massa d’acqua circonda le altre terre, abbracciando isole e penisole abitate da altri re e popoli, recentemente conosciuti. [3]

2. T. evidenzia il carattere “endogamico” delle genti germaniche, vissute incontaminate e non a contatto con altre genti “sia immigrati, sia colà residenti” (adventibus et hospitiis mixtos), dacché l’oceano che li isola dal resto del mondo, impedisce qualsiasi apporto di sangue allogeno.[4] In antichi carmi (carminibus antiquis) - riferisce T. la sola forma di tradizione storica che essi conservino – si attesta il culto da parte loro del dio Tuistone (nato dalla terra come il greco Cronos) e del figlio Manno (dal tedesco mann, uomo), antenato della nazione. A Manno attribuiscono tre figli, da cui discendono i principali gruppi del loro popolo, gli Ingevoni (abitanti dell’area di Cimbri, Teutoni e Chauci), gli Erminoni (Suebi, Ermunduri, Catti e Cherusci) e gli Istevoni (popolazioni del Reno).[5] Dai molti figli di Tuistone deriverebbero molte genti (Marsi,  Gambrivii, Suebi ecc). Il toponimo “Germania” deriverebbe invece da una tribù vittoriosa sui Galli (come gli Elleni furono una tribù della Tessaglia, i Greci una popolazione dell’Epiro e gli Itali un popolo del Bruzio, dunque la spiegazione dell’etnonimo da parte di T. può essere ritenuta attendibile).

3. T. mette in relazione Ercole con i germani, e sottolinea che questi usano glorificare “il primo fra gli eroi” con canti e carmi, tra cui il “bardito” (barditum),[6] attraverso il quale accendono gli animi dei soldati prima dello scontro. Questo canto (che essi praticano con lo scudo davanti alla bocca per echeggiarne il suono, obiectis ad os scutis) ha il potere di seminare il terrore tra le schiere nemiche, e nel peggiore dei casi può terrorizzare gli stessi germani. T. poi riferisce della leggenda per cui Ulisse sarebbe stato sbattuto sulle spiagge di questi luoghi dove avrebbe fondato una città chiamata Askipyrghion (Asciburgium), dove, riferisce T., furono ritrovati un altare dedicato a Ulisse e al padre Laerte e iscrizioni in lettere greche. L’autore precisa di non voler indagare la veridicità di queste informazioni, lasciando il giudizio al lettore.

4. T. ribadisce il carattere “endogamico” della razza germanica, rimasta incorrotta (infextos) e non mescolatasi nel tempo con altri popoli. Essa ha prodotto individui unici (che somigliano solo a se stessi, tantum sui similem) con caratteristiche somatiche dai tratti inconosciuti ai romani: occhi azzurri e sguardo minaccioso (caerulei et truces oculi), chiome rossicce (rutilae comae), corpi grandi (magna corpora),[7] ma forti solo nell’attacco (tantum ad impetum valida) e incapaci di sopportare le fatiche del lavoro;[8][9] inoltre il clima rigido li ha fatti insofferenti al caldo e alla sete e l’inclemenza del clima e il suolo improduttivo li hanno resi avvezzi al freddo e alla fame. [10]

5.Il suolo della Germania appare selvaggio per la presenza delle foreste e delle paludi, più umido per la parte che si affaccia sulla Gallia, più ventoso per quella orientata verso il Norico e la Pannonia. Appare più adatto ai seminati, che alla frutticultura, inoltre il bestiame che vi è allevato è di bassa statura. Gli dei privarono quella terra di argento e oro, anche se T. non sarebbe pronto a giurare che non ve fosse affatto, anche perché, si chiede, chi ha intrapreso ricerche per verificarne la presenza? (quis enim scrutatus est?) I germani non sembrano molto apprezzare, peraltro, la ricchezza dell’oro e dei metalli preziosi, visto che lasciano marcire il vasellame prezioso loro dato in dono, accanto ai vasi di creta. Solo quelli tra loro più adusi ai commerci sembrano tenere in conto l’oro, l’argento e nostrae pecuniae. Coloro che vivono nelle zone interne sembrano praticare una vita più primitiva, perché ancora legati a forme rozze di scambio come il baratto.

6. T. nega anche ce quella terra abbondi di ferro, dichiarando il proprio scetticismo riguardo alla resistenza e alla qualità del loro armamento. Pochi si servono di lance e spade, preferendo delle aste dette “framee” (frameas), facili ad essere usate come aste o giavellotti. Lo stesso per i cavalieri, che fanno uso dello scudo e di questo tipo di lancia, mentre i fanti scagliano proiettili, combattendo, privi di qualsivoglia armatura, nudi o al massimo coperti di una tunica (nudi aut sagulo leves). Non fanno uso di corazze o elmi e non usano addestrare adeguatamente i cavalli, facendoli piegare solo sul lato destro (la parte coperta dallo scudo). [11] I loro eserciti, disposti a cuneo (acies per cuneos componitur), fanno riferimento soprattutto sulla fanteria, anche se adottano un modello tattico integrato con la cavalleria (mixti praeliantur).[12] In battaglia si ritirano solo se necessario e reputano atto di viltà abbandonare lo scudo (come già nella cultura greca e anche romana), tanto che chi si macchia di questo è escluso dalle assemblee e dalle sacre cerimonie.

7. I loro re sono scelti in base alla nobiltà di sangue mentre i generali (duces) in base al valore.[13] I primi non godono di potere assoluto, mentre i comandanti sono portati a fondare la propria autorità sull’esempio, diventando modelli di virtù per i propri soldati. Non è loro usanza condannare a morte o ridurre in ceppi un uomo, essendo permesso solo ai sacerdoti in nome del dio della battaglia percuotere qualcuno.[14] Portano sul campo immagini e simulacri tolti ai boschi sacri. L’organizzazione e la disposizione delle truppe è regolata in base all’appartenenza familiare; le stesse famiglie seguono gli uomini in battaglia, tanto che odono le urla delle donne e i vagiti dei bambini (unde feminarum ululatus audiri, unde vagitus infantium).[15] Le cure dei feriti sono affidate alle stesse moglie e alle madri (testimoni più sacri, sanctissimi testes), che non temono di scrutarne le piaghe (nec illae numerare et exigere plagas pavent).

8. Il ruolo delle donne nelle loro società è molto rilevante; essi tengono in grande considerazione le mogli, tanto da arrestare le ritirate quando queste sono messe in pericolo e da essere più fedeli ai patti quando di mezzo ci sono fanciulle nobili (obsides puellae nobiles).[16] Veleda[17], ad esempio, sotto Vespasiano, fu quasi ritenuta una dea, e lo stesso Albrinia e molte altre, ma senza mai venire divinizzate o divenire oggetto di culto come invece avveniva a Roma.

9. Onorano Mercurio, Ercole e Marte, ai quali offrono sacrifici (a Mercurio anche umani (humanis hostiis)).[18] I Suebi sacrificano anche a Iside, culto probabilmente di importazione. Non li fanno oggetto di icone e non li ritraggono in forme umane, non ritenendolo degno.[19] Scrutano la presenza divina nei boschi e nelle foreste, consacrandole alle divinità.

10. Credono ai presagi e fanno ricorso alle divinazioni, usando il metodo del ramo ridotto in schegge, da cui traggono pezzi che il sacerdote cittadino o il capo famiglia interpretano a loro modo. Essi usano leggere anche i canti e il volo degli uccelli, nonché le profezie e gli ammonimenti dei cavalli, una volta legati al sacro carro e accompagnati dal sacerdote, dal re o dal primo fra i cittadini. Esercitano anche l’ordalia, facendo combattere un loro campione con un prigioniero, e interpretando la vittoria dell’uno o dell’altro.  

11. Le decisioni minori sono deliberate dai capi, mentre quelle di più grande rilevanza sono discusse dalla comunità nel giorno di novilunio o plenilunio, momento che si ritiene più adatto per prendere iniziative.[20] I germani non regolano il calendario in base ai giorni, ma in base alle notti, perché ritengono che sia la notte a guidare il giorno.[21] Prima delle adunate, aspettano che tutti siano presenti (perché ciascuno è libero a suo modo[22]) e, se è il caso, tengono con sé le armi. I discorsi sono tenuti dal re o dai capi, ciascuno secondo l’età, la nobiltà di sangue, il valore militare o l’eloquenza. Come atto di approvazione usano sbattere le armi (frameas concutiunt) tra loro (l’atto di consenso più nobile è la lode espressa per mezzo delle armi (armis laudare)), altrimenti in caso di contrarietà rumoreggiano. [23]

12. Le adunanze sono occasione anche per la celebrazione di processi capitali. In base ai delitti si distinguono le relative pene: i traditori e i disertori sono impiccati, i vili e i codardi, nonché coloro che compiono atti turpi, sono immersi nel fango, ricoperti per di più da una stuoia. Si praticano anche pene “pecuniarie” per i reati più blandi, con l’obbligo di fornire un certo numero di cavalli e capi di bestiame, che si consegnano una parte al re o alla tribù, una parte all’offeso o ai suoi parenti. Durante le assemblee si scelgono anche i capi (principes) a cui spetta di amministrare la giustizia nei distretti e nei villaggi (pagi e vici), ai quali si affiancano cento compagni (centeni).

13. L’uso e il possesso delle armi, per coloro che ne hanno ricevuto l’avallo all’utilizzo (probaberit[24]), è cosa comune, anche nelle cerimonie collettive; una persona autorevole provvede a conferire ufficialmente lancia e scudo al giovane a cui tale facoltà è riconosciuta, cerimonia che è accostabile a quella in voga presso i romani con cui il giovane indossa per la prima volta la toga (arma sumere accostato a sumere togam virilem). La consegna delle armi è l’atto di passaggio dalla famiglia allo stato. Anche i giovani possono avere autorevolezza, chi per nobili natali, chi per il valore personale. Nel gruppo (comitatus) si crea una gerarchia scelta dal membro più insigne, per stare accanto al quale i “gregari” gareggiano tra loro; anche i capi si mettono alla prova per aumentare il proprio seguito. In quest’ultimo si riconosce l’autorevolezza e il prestigio di un capo, nel numero di giovani seguaci che egli riesce ad attirare presso sé. [25]Un gruppo può assurgere a tale considerazione da essere influente presso altre popolazioni e da influire sull’esito stesso delle guerre.

14. E’ vergognoso per un capo lasciarsi superare in coraggio dagli inferiori, e ugualmente inaccettabile tentare di eguagliare l’abilità del comandante. Ritornare sani e salvi da un combattimento nel quale è perito il proprio capo (superstitem principi suo ex acie recessisse[26]) è ritenuto un marchio d’infamia per la vita, dal momento che si ritiene che non lo si sia difeso abbastanza alla pari (comites pro principe pugnant); difendere il capo è ritenuto compito sacro (sacramentum est). Nel caso in cui la pace si prolunghi oltremisura, i germani possono decidere di fornire aiuto ad altre popolazioni in conflitto affinché non siano logorati dalla lunga pace e dall’ozio (longa pace et otio), essendo essi insofferenti alla pace.[27] Solo con la guerra e la violenza è possibile ottenere la gloria e un grande seguito. In luogo dello stipendio essi ritengono sostitutivo il trattamento che il comandante loro riserva (largi apparatum pro stipendio cedunt): un cavallo atto alla guerra (bellatorem equum), una lancia bagnata del sangue (cruentam victricemque frameam). Non si aspetti che essi pratichino con tanta dedizione, quanta ne dedicano “a sfidare il nemico e conquistarsi l’onore delle ferite” (vocare hostem et vulnera mereri), il lavoro della terra o attendano al raccolto. Sarebbe anzi scandaloso procurarsi col sudore, ciò che invece è da prendere col sangue (sudore adquirere quod possis sanguine parare).

15. L’attività alternativa da loro preferita alla guerra sembra essere l’ozio, più che la caccia. Preferiscono mangiare o dormire, mentre i più forti stanno a non farsene nulla, affidando tutte le faccende alle donne, compresa la coltivazione dei campi.[28] Oltre ai doni che essi si scambiano tra loro e con le popolazioni confinanti, sono stati abituati dai Romani a ricevere anche il denaro (pecuniam accipere docuimus).

16. Le popolazioni germaniche non tollerano gli assembramenti urbani e financo la vicinanza di case tra loro.[29] Vivono in luoghi isolati, lì dove trovano una fonte d’acqua, un bosco o un campo. Usano circondare le abitazioni di spazi vuoti, non si sa se per evitare il propagarsi di incendi o perché ignorino l’arte di costruire. Non usano infatti pietre o tegole, ma solo legname greggio. Sogliono costruire depositi di letame in profondità, usandoli come rifugi per l’inverno (o per trovare scampo dal nemico) e come granai per le messi.

17. Si coprono al massimo di un mantellaccio fermato con una fibbia, se non ne possiedono, con una spina. Il resto del corpo è nudo e trovano tepore solo vicino ai focolari, dove passano intere giornate (totos dies). I più ricchi hanno una veste larga come quella dei Sarmati e dei Parti. Indossano anche pelli di animali, portate con maggiore eleganza da quelli che sono lontani dai contatti commerciali. Le donne non si distinguono dagli uomini per l’abbigliamento, se non per l’uso di mantelli di lino, privi di maniche (in manicas non extendunt) e che lasciano scoperta la parte superiore del petto.

18. I rapporti coniugali sono austeri (severa illic matromonia) e per di più gli uomini non praticano la poligamia, se non eccezionalmente e non come fatto di piacere, ma come segno di nobiltà.[30] Non è poi la moglie che conferisce la dote al marito, ma è quest’ultimo che la paga alla donna (una sorta di prezzo). La dote consiste in doni inadatti però alla donna, recando essa buoi, armi o cavalli (simboli dei doveri della coppia, per la donna come per l’uomo), che si trasmettono intatte e pure (inviolata ac digna) dalla madre ai figli. La donna ricambia quindi regalando qualche arma (armorum aliquid vito adfert). Lo scambio di doni nella coppia costituisce il contenuto più profondo del vincolo (hoc maximum vinculum); questi sono per loro i sacri misteri e le divinità delle nozze (haec arcana sacra, hos coniugalis deos arbitrantur). La donna è chiamata a contribuire alle fatiche e a sfidare i pericoli, in pace come in guerra, così nella vita, come nella morte.

19. Le donne germaniche vivono morigeratamente, senza partecipare a spettacoli, né a conviti, né intrattenendo corrispondenze segrete (litterarum secreta). Pochissimi sono i casi di adulterio tra le coppie, e nel caso raro in cui dovesse succedere la pena spetta al marito, che taglie la chioma della moglie e, denudatala, le fa compiere un tragitto per il villaggio sotto le sue percosse.[31] La colpevole, pur bella, pur giovane e ricca, non potrà più risposarsi (non forma, non aetate, non opibus maritum invenerit). La corruzione morale presso di loro non esiste, né la si chiama “spirito dei tempi” (nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur). Si provvede a far sposare le donne in giovane età, così che non vi sia in loro altro pensiero di matrimonio ed esse abbiano a cuore l’istituto matrimoniale, piuttosto che la persona con cui lo stringono (ne tamquam maritum sed tamquam matrimonium ament). La contraccezione e l’infanticidio dopo i primogeniti sono per loro un crimine (liberorum finire aut quemquam ex agnatis necare flagitium habetur):[32] presso i germani i buoni costumi valgono più delle prescrizioni legali.[33]

20. Da bambini crescono nudi e sudici, fino al raggiungimento della solidità del corpo, quella che colpisce maggiormente (in haec corpora quae miramur). L’allattamento non è affidato a balie, ma è curato dalla madri.[34] L’educazione impartita è comune per tutti, tanto che non distingueresti il servo dal padrone. Essi si distinguono non per nobiltà di nascita, ma per il valore e l’età. L’attività sessuale si manifesta tardivamente nei giovani, che per conseguenza godono di forte virilità. Anche le fanciulle non si sposano precocemente, se non solo quando riscuotono lo stesso grado di robustezza dei maschi, partorendo figli che li imitano nella solidità di membra. Lo zio materno dedica al nipote (avunculum) ugual cura che presta ai propri stessi figli.[35] Alcuni popoli ritengono che tale rapporto parentale sia più sacro, tanto che nell’accogliere ostaggi richiedono i figli delle sorelle, ritenendone il vincolo più profondo. Eredi rimangono ad ogni modo i figli naturali, senza che ci sia l’usanza di fare testamento (et nullum testamentum). Se mancano figli, allora si fanno successori in ordine i fratelli, gli zii paterni e gli zii materni. L’essere privi di figli inoltre non arreca loro alcun vantaggio.[36]

21. I padri e i figli condividono le stesse amicizie e le stesse inimicizie. Il crimine di omicidio è facilmente condonato, dacché basta pagare un’imposta in natura per riconciliarsi con la famiglia dell’ucciso.[37] L’ospitalità per i Germani è cosa onoratissima: ritengono ingiurioso escludere qualcuno dalla propria casa. [38]Qualora una famiglia non sia più in grado di sostenere l’ospite, il suo anfitrione lo accompagna presso un’altra abitazione, senza che siano necessariamente stati invitati. Lo scambio di doni è per loro fonte di gioia: non si sentono obbligati per i doni che ricevono, né ritengono di mettere a memoria quelli che hanno corrisposto.

22. Al risveglio, che è molto protratto nel giorno, si lavano con acqua calda.[39] Finite le abluzioni, consumano il pasto, seduto ciascuno al proprio posto a tavola. Armati di tutto punto sbrigano le loro faccende oppure non raramente riprendono a banchettare. Bere per loro è un fatto normale; le risse che derivano dall’ubriachezza, il più delle volte si risolvono in uccisioni e ferimenti, più raramente in semplici bisticci. Il banchetto è occasione di discussione pubblica: per dirimere controversie, per stringere accordi matrimoniali, per addivenire alla pace, per decidere una guerra.[40] Per gente né sagace, né callida,[41] il clima conviviale e di licenza, facendo emergere i segreti dell’animo (segreta pectoris), favorisce la sincerità e la chiarezza del pensiero (ergo detecta et nuda omnium mens).[42] Usano trattare infatti quando non sono in grado di nascondere un fatto, prendono decisioni quando sono dinnanzi all’obbligo di agire rettamente.

23. Bevono un liquido ricavato dall’orzo e dal frumentato e che fatto fermentare rassomiglia al vino. [43] Nelle regioni aperte ai commerci prospicenti il fiume Reno si fa consumo di vino. [44]Per il resto la loro alimentazione è fatta di frutti selvatici, cacciagione, latte cagliato, tutti cibi non raffinati ma anzi molto semplici.[45] Non appaiono altrettanto moderati nel bere, in cui troveranno soddisfazione fintantoché gli verrà stimolata. Se si incentiverà il loro vizio del bere, saranno più facili da sottomettere che attraverso le sole armi (si indulseris ebrietati suggerendo quantum concupiscunt, haud minus facile vitiis quam armis vincentur).[46]

24. Unica forma di spettacolo consiste in giovani nudi che tentano di evitare spade e lance puntate al loro indirizzo; con l’esercizio acquistano via via abilità senza mirare a fama o vantaggi, la sola gratificazione che ricevono è vedere divertito il pubblico. Forma di divertimento diffusa è il gioco dei dadi (aleam), nel quale arrivano ad accanirsi a tal punto da mettere in palio la propria stessa libertà pur di vincere. Il vinto accetta quindi di essere tratto in schiavitù (voluntariam servitutem adit) senza manifestare alcuna renitenza. I vincitori finiscono però per vendere come schiavo lo sconfitto, pur di liberarsi di tale ignominia.

25. Essi non danno in gestione allo schiavo la loro casa, bensì amministrarono autonomamente la loro proprietà e le proprie incombenze, affidandola alla moglie o ai figli. Il padrone può imporre a uno schiavo o a un colono di fornirgli una determinata quantità di frumento o altro, e a ciò è tenuto. Non accadono casi di sfruttamento plateale e non si usa percuotere lo schiavo; può capitare che il padrone lo uccida in un impeto d’ira, come contro un avversario, senza che ciò sia punito (occidere solent … sed impetu et ira, nisi quod impune est). Il liberto non è più libero di uno schiavo, e raramente questi ha una qualche influenza sulla famiglia o sugli affari. [47] Presso le popolazioni dotate di regimi autocratici (come era ormai a Roma, ndr), essi acquistano maggiore autorità dei liberi e dei nobili (super ingenuos et super nobilis ascendunt). Il fatto stesso che presso i barbari essi siano in una condizione di sudditanza, prova che sono popoli liberi (liberatatis argumentum sunt).
26. Il prestito di denaro e la pratica dell’usura sono sconosciute ai barbari germani. I campi sono suddivisi trai coltivatori della terra secondo il criterio del rango.[48] La vastità dei campi consente loro di dispensare i terreni, e la fertilità del suolo di evitare particolari pratiche di coltura, dal momento che ricavano da essa solo grano. Ne consegue che essi fanno a meno di ripartire l’anno in quattro stagioni, ma conoscono solo primavera, estate e inverno (hiems et ver et aestas).[49]

27. I loro funerali non sono particolarmente sfarzosi: essenziale è che il corpo sia cremato col giusto quantitativo di legna. Sulla pira funebre usano collocare le armi e eventualmente il cavallo, ma mai vesti e oggetti preziosi.[50] La sepoltura non è costituita da monumenti, che altrimenti gravano sul defunto (ut gravem defunctis aspernantur), ma da semplici tumuli terrosi. Lo strazio per la perdita non è ostentato, ma persistono nel tempo del lutto dolore e scoramento. Le donne di solito piangono, gli uomini ricordano. Si passa ora a trattare delle istituzioni e delle consuetudini delle singole popolazioni germaniche.

28. Il divo Giulio, massima autorità in materia (summus auctorum divus Iulius), tramanda che i galli furono in realtà più potenti. Non sarebbe infondato ritenere che i galli siano trasmigrati un tempo in Germania.[51] Un piccolo fiume poteva essere ben poco di ostacolo all’occupazione di un territorio privo ancora di regni potenti (regnorum potentia). Fra il Reno e il Meno e la foresta Ercinia si stabilì il popolo degli Elvezi, mentre di là di quel limite si stanziarono i Boi, come i primi di stirpe gallica. Non è chiaro se gli Aravisci si siano trasferiti in Pannonia separandosi dagli Osi, o se questi si siano trasferiti in Germania separandosi dagli Aravisci, considerando la comunanza di cultura trai due popoli. I Treviri e i Nervi vantano origine germanica, come se questa convinzione potesse evitargli di considerare la loro propria somiglianza ai Galli indolenti (inertia Gallorum). [52] Genti di stirpe germanica occupano la riva del Reno. Gli Ubii, pur di origine barbarica, si fanno chiamare Agrippinesi, dal nome del fondatore della colonia. Trasferitisi nel lato occidentale del Reno, una volta data prova di fedeltà a Roma, furono ivi entro lasciati perché proteggessero i confini dagli altri popoli loro affini.[53]
29. I Batavi superano in valore tutte queste genti. Un tempo appartenenti ai Catti, si trasferirono poi in quelle regioni dove furono soggiogati da Roma. Sono privilegiati dal fatto di conservare lo stesso patto militare di quell’epoca in cui dovettero piegarsi a noi: non sono sotto l’obbligo del tributo o sottoposti alle vessazioni dei pubblicani, ma vincolati a fornire il supporto di uomini come fossero dardi o armi (velut tela atque arma). Anche i Mattiaci sono sotto il giogo dell’impero, che si impose al di là degli antichi confini anche oltre Reno.[54] Per quanto viventi nello stesso clima e pur essendo della stessa natura dei Batavi, appaiono più improntati a fierezza di questi ultimi.[55] Non appartengono alla stirpe germanica invece coloro che lavorano negli Agri Decumates,[56] occupati dai Galli ma rientranti nella provincia romana (Germania superior).

30. La regione che comincia con la selva Ercinia è abitata dai Catti; essa appare non così vasta e palustre come le altre della Germania. Con corpo gagliardo e membra muscolose, sono di aspetto minaccioso e animo vigoroso. (duriora genti corporis, stricti artus, minax vultus et maior animi vigor). Sono intelligenti e abili (rationis ac sollertiae), hanno capi degni e mostrano loro riguardo, rispettano l’ordine delle schiere, sanno cogliere l’occasione, trattenersi da manovra azzardate, circondarsi di notte con difese efficaci (come i legionari), ritenendo certo il valore, più incerta la fortuna e riponendo addirittura la propria saldezza nella virtù del comando, piuttosto che nell’esercito. Tanto che fanno assegnamento sulle forze di fanteria e non sulla cavalleria, poiché la rapidità è tipica di chi ha timore, la lentezza di chi ha coraggio (velocitas iuxta formidinem, cunctatio propior constantiae est). Usano addirittura munire i soldati di utensili e viveri, tanto che si potrebbe dire: gli altri barbari li vedi andare alla battaglia, i Catti invece prepararsi alla guerra (alios ad proelium ire videas, Chattos ad bellum).

31. Comune è fra questi lasciarsi crescere barba e capelli (promessa in voto come pegno di valore, votivum obligatumque virtuti) fintantoché non abbiano ucciso un nemico.[57] Sono degni di diventare parte della famiglia e della comunità solo dopo essersi spogliati di quell’aspetto squallido, che rimane invece agli imbelli e ai pusillanimi (ignavit et imbellibus manet squalor), sulle spoglie stesse del nemico.[58] Alcuni, trai più valorosi, portano un anello di ferro, che è però segno di asservimento e se lo tolgono solo dopo aver adempiuto all’obbligo della prima uccisione. Moltissimi invece si compiacciono di tale aspetto e, alcuni col capo albino, questi costituiscono la prima linea dei loro eserciti. I Catti non hanno casa, non hanno occupazioni fisse, vivono da nomadi, munifici delle cose d’altri, indifferenti al possesso personale, fino a che non sopraggiunge la vecchiaia, che li rende obbligati a fare a meno del loro rigore di vita.

32. La regione confinante coi Catti è abitata da Usipi e Tencteri,[59] dove il Reno scorre con corso regolare. I secondi si distinguono per l’arte dell’equitazione (equestris disciplinae) e sono i migliori in questa, come i Catti lo sono per l’uso della fanteria. Usano tramandarsi le tradizioni degli antenati, e così fanno per gli schiavi, la casa e il resto del corredo; solo i cavalli passano dal padre ai figli più valorosi e non ai primogeniti.
33. A fianco dei Tencteri abitano i Brutteri, che pare siano stati scacciati dai Camavi e dagli Angrivari, che li avrebbero addirittura annientati del tutto, di concerto con altre genti vicine. Ciò non può che essere avvenuto innanzitutto per la discordia tra di loro, ma soprattutto per la benignità degli dei verso di noi (favore quodam erga nos deorum); i sacri numi non ci hanno risparmiato neanche lo spettacolo della battaglia, che fu incommensurabile spettacolo per noi: sessantamila di quelli morirono per divertire la nostra vista e senza che perdessimo uno solo dei nostri.[60] Che rimanga tra di loro un simile odio, se non c’è amore per noi, anche perché che cosa il fato può procurarci di più favorevole, sovrastando una tale minaccia, che la discordia sanguinaria trai nostri nemici?

34. Angrivari e Camavi hanno alle spalle i Dulgubini e Casuari, oltre ad altre popolazioni; di fronte si trovano i Frisii. Lungo il corso del Reno, queste genti si spingono fino all’oceano, che i romani hanno tentato di esplorare, dove si pensa che si trovino le colonne d’Ercole,[61] in quanto pare che Ercole stesso possa essere giunto fin là. Lo stesso Druso Germanico, nel tentativo di conoscere la massa d’acqua e la sede di Ercole, fallì lì dove l’oceano si oppose, dopodiché si smise di esplorare, credendosi opportuno aver fede nelle opere degli dei, più che il volerle conoscere a tutti i costi.

35. Terminata la parte occidentale, la Germania ripiega verso nord con una curva molto segnata (ingenti flexu). [62]La prima popolazione che si incontra sono i Cauci,[63] la quale cominciando dai Frisii raggiunge i Catti. Fra le più nobili fra le genti germaniche, essi occupano una regione vastissima riempiendola del tutto,[64] non esercitano saccheggi e razzie, ma cercano sempre di evitare l’azione della violenza (sine cupiditate, sine inpotentia). Per affermare la loro forza non usano i mezzi dell’offesa, anche se portano sempre armi con sé e sono pronti a usarle, possedendo un esercito temibile.

36. A fianco dei Cauci e dei Catti stanno i Cherusci. Questi un tempo buoni e giusti, oggi sono giudicati inerti e sciocchi (inertes ac stulti), essendo infiacchiti in una lunga pace, tanto da essere stati soggiogati dai Catti. Ugualmente sventurati sono i Fosi, addirittura più sfortunati degli stessi Cherusci.

37. I Cimbri sono ora popolo piccolo, ma che rimane grande per gloria, essendo ancora intatte le vestigia del loro passaggio sul Reno, quando erano moltitudine sterminata e temibile. Erano passati seicentotrentanove anni dalla fondazione di Roma (113 a.C.) quando essi compirono la loro grande impresa. Da quell’anno fino al secondo consolato dell’imperatore Traiano[65], se si calcola questo intervallo, si scopre che sono circa centodieci anni che i Germani sono vinti da Roma![66] E’ stato un periodo di alterne vittorie, ma nessun’altro nemico ci ha dato ammonimenti come i Germani (saepius admonuere), né i Sanniti, né i Cartaginesi, né la Spagna, né la Gallia, e né tantomeno i Parti, perché la libertà di quel popolo è più indomabile del Regno di Arsace.[67][68] Che altro dovremmo temere infatti dall’Oriente, sottomesso da un Ventidio qualsiasi, se escludiamo la sconfitta di Crasso,[69] compensata peraltro dalla morte di Pacoro?[70]I Germani, che imprigionarono di noi Carbone, Cassio, Aurelio Scauro, Servilio Cepione e Mallio Massimo,[71] furono capaci di annientare cinque armate del popolo di Roma e di sottrarre ad Augusto Varo con le sue tre legioni;[72] colpirono Caio Mario in Italia,[73] il Divo Giulio nella Gallia,[74] Druso, Nerone[75] e Germanico nelle loro stesse terre. Le recenti minacce di Caligola, si conclusero in una farsa (ludibrium). [76] Dopo un periodo di quiete, colta l’occasione delle nostre lotte interne, ci attaccarono,[77] ma furono subito ricacciati. Negli ultimi tempi infine furono celebrati più trionfi che vittorie sui germani in verità (triumphati magis quam victi sunt). [78]
38. E’ bene ora che si parli dei Suebi, che non sono un popolo solo, come avviene per Catti e Tencteri, occupando infatti gran parte della Germania, essendo divisi in varie popolazioni. Loro usanza è chiudere in una crocchia in capelli su un solo lato (obliquare crinem nodoque substringere);[79] ciò serve a distinguere soprattutto gli schiavi dai Suebi liberi e gli stessi Suebi dal resto dei Germani. Le altre popolazioni germaniche tengono in serbo questa usanza per i giovani, abbandonandolo una volta adulti, mentre i Suebi continuano a tenere unita la chioma in un nodo fino alla vecchiaia. Questa usanza è usata soprattutto per spaventare il nemico (ut hostium oculis) e non per pavoneggiarsi all’amore e per ragioni futili. 

39. I Senoni sono ritenuti i più antichi e nobili fra gli Svevi. Essi praticano un rito religioso a testimonianza di questa loro nobiltà. Si raccolgono popoli di medesima stirpe in una foresta in periodi determinati per celebrare gli avi, oltre che per una atavica paura (auguriis patrum et prisca formidine sacram) e praticano un rito orrendo e brutale (barbari ritus horrenda primordia), immolando una vita umana.[80] Il loro culto per i boschi si manifesta anche con la prescrizione che nessuno vi si possa addentrare se non è legato in corde, in modo da dimostrare la propria sottomissione alla divinità. Se qualcuno cade, non è aiutato a risollevarsi e deve rigirarsi nel terreno. Questa superstizione serve a mostrare la loro reverenza e devozione verso un luogo da cui essi ritengono aver preso origine e nel quale alberga il dio supremo[81] cui tutto ubbidisce. I Senoni sono gente prospera, che vive in molte città e si ritiene superiore agli altri popoli.

40. La piccola gente dei Longobardi pur circondata da molte e prospere nazioni,[82] acquista sicurezza non con la sottomissione ma con la lotta. Dopo di loro i Reudigni, gli Avioni, gli Angli, i Varini, gli Eudosi, i Suardoni, i Nuitoni, che hanno confini naturali.[83] Di questi c’è da dire poco, tranne che adorano la madre terra Nerto, che credono intervenga nelle vicende umane ed è trasportata sopra un cocchio. In un’isola dell’oceano è presente un bosco al cui interno c’è un carro votivo ricoperto di un drappo, che è concesso toccare solo al sacerdote; solo questi riesce a percepirne la presenza e la segue, mentre è trasportata da giovenche.[84] Il giorno del passaggio della dea è festa grande e gli abitanti non prendono armi. Solo questa è occasione per loro di riporre le armi, fino a che la dea non fa ritorno al santuario. Più tardi il carro, il drappo e la statua vengono immersi in un lago nascosto per essere purificati e si dice che gli stessi schiavi che presiedono all’immersione vi rimangano inghiottiti. Il misterioso timore e la devota ignoranza che derivano da questo rituale possono riguardare solo uomini destinati a perire.

41. La prima gente che si incontra seguendo il Danubio sono gli Ermunduri, fedeli a Roma. Sono gli unici a praticare i commerci coi romani attraverso la provincia della Raetia e nella sua splendida colonia (Augusta Vindelicorum), e sono talmente ben voluti che noi gli apriamo le nostre ville e le nostre case. Attraverso la loro provincia scorre l’Elba, gran fiume un tempo, mentre oggi appena se ne discute.[85]

42. Dopo gli Ermunduri si trovano i Naristi e più in là si trovano Quadi e Marcomanni (genti suebiche). I secondi, di grande valore, si acquistarono la loro sede con la forza scacciando i Boi. Né sono da meno Naristi e Quadi. Questi ultimi e i Marcomanni furono governati da re propri, discendenti da Maroboduo e Tudro, mentre ora sono sottomessi a sovrani stranieri, la cui autorità viene dal riconoscimento romano.[86] Il fatto che ricevano di tanto in tanto oro da Roma non ne sminuisce la potenza.

43. Con i Marcomanni e Quadi confinano Marsigni, Cotini, Osi e Buri. I primi e gli ultimi sono di cultura simile ai Suebi. La lingua degli Osi invece è pannonica e quella dei Cotini gallica. Inoltre questi devono sottostare ai tributi, gli Osi a quelli dei Sarmati e i Cotini alle imposizioni dei Quadi, il che fa pensare che non siano germani. I Cotini per di più sono costretti al ruolo di minatori (roba da criminali e schiavi, ndr). La Suebia è divisa in due parti dai monti; al di là di questi si trovano molte popolazioni tra cui i Lugi che si dividono in diverse tribù: Arii, Elveconi, Manimi, Naisi, Naarvali. Presso questi ultimi si svolge un rito sacro a cui presiede un sacerdote in abito femminile, le cui divinità nell’interpretazione dei romani corrispondono a Castore e Polluce.[87] Tra tutte queste tribù sopradette gli Arii sono i più temibili.[88] Hanno forze superiori e fanno in modo da apparire di aspetto ancora più temibile rispetto alla loro naturale ferocia, scegliendo anche il tempo per combattere (truces insitae feritati arte ac tempore lenocinantur). Portano scudi neri, si tingono il corpo e scelgono di venire in battaglia durante le tenebre (atras ad proelia noctes legunt). Come neri fantasmi (umbra feralis) essi incutono un sommo timore (terrorem inferunt), dacché nessun esercito può reggere a una tale visione infernale (infernum adspectum). Il primo impatto visivo in battaglia è infatti importantissimo (primi in omnibus proeliis oculi vincuntur). 

44. Oltre i Lugi si trovano i Gotini (Goti), retti da un regime monarchico, senza essere privati della libertà. Subito dopo stanno i Rugi e i Lemoni, ossequianti al potere regio e muniti di scudi rotondi e spade corte. In mezzo all’oceano (il Baltico)[89] stanno i Suioni (gli Svedesi), dotati di potenti flotte. Uno solo esercita il potere presso di essi, e per questo non hanno in spregio la ricchezza. Le armi non sono però a disposizione di tutti, ma sono custodite da schiavi, non essendo necessario tenere armi sempre a portata di mano: l’oceano difende dai pericoli, e la pace, rendendo inerti, fa sì che schiere di armati in ozio trascendono facilmente.
45. Dopo i Suioni v’è un altro mare stagnante e immobile (pigrum ac prope inmotum)[90], che si crede circondi la terra. [91] L’estrema luce del sole tramontato permane qui fino al suo nuovo sorgere, così chiara da far impallidire le stelle. Si crede che quando il sole sorge si ode una musica e si vedano le forme dei suoi cavalli e l’aureola del capo. Qui il mondo ha termine (illuc usque et tantum natura). Ad oriente del mare dei Suebi si trova poi si trova poi la regione degli Esti (Estoni), per cultura simili ai Suebi, per lingua ai Britanni. Sono devoti alla madre degli dei (Cibele). Non adoperano armi, coltivano la terra con costanza maggiore di quanto non facciano i Suebi per la loro indolenza, ed esplorano il mare da cui traggono l’ambra (sucinum), che chiamano “gleso”,[92] di cui essi non conoscono l’origine e che ci rivendono perché la nostra abbondanza ne fece oggetto di pregio. Si tratta di una secrezione degli alberi, in origine liquida e che poi si solidifica intrappolando spesso gli insetti. Sono i raggi vicini che con la loro forza e intensità sciolgono quella sostanza che poi fluisce nel mare per poi essere restituita sulle spiagge. Ai Suioni seguono i Sitoni, simili ai primi se non per il governo affidato a una donna.[93] 

46. Qui termina la Suebia. Le genti dei Peucini, dei Finni e dei Veneti non è chiaro se appartengano ai Suebi o ai Sarmati. I Peucini, detti Bastarni, per il loro modo di vivere e il loro aspetto, si sono molto imbruttiti tanto da assomigliare più ai Sarmati.[94] I Veneti assomigliano a questi, anche per il fatto di operare scorribande tra il paese dei Peucini e quello dei Fenni.[95] Questi sono più simili invece ai Germani. Perché sono popolo stabile e fanno perno su una esperta fanteria. I Sarmati invece fanno più affidamento sulla cavalleria e i carri. I Fenni sono incredibilmente selvaggi, non usano armi, sono sudici, si cibano di erba, usano frecce con punta d’osso. Gli uomini vivono in qualche capanna di rami, e qui trascorrono la vita. Per loro è meglio vivere in questo modo che impegnarsi nei campi e erigere villaggi, né ritengono di dovere rispetto agli uomini e agli dei. Tutto quanto altro si narra è oggetto di fantasia, si dice infatti che gli Ellusii e gli Ossioni hanno il capo umano e il corpo ferino; fatti su cui è meglio che taccia, per il fatto di non avere altre informazioni.



[1] I monti sono i Carpazi.
[2] Cfr. Cesare, De Bello Gallico, I, 1 Cesare, parlando dei Belgi e degli Elvezi, riferisce la loro vicinanza ai Germani e che siano con questi in continuo conflitto; evidente è il desiderio di T. di far apparire i germani come popolo isolato; chi andrebbe mai verso la Germania, terra dal paesaggio desolato, dal clima rigido, pieno di tristezza, a vedersi e ad abitarsi?  (quis porro… Germaniam peteret, informem terris, asperam caelo, tristem cultu aspectuque), si chiede T. cfr. cap. II.
[3] Il riferimento è alla spedizione di Tiberio del 5 d.C. Cfr. Res Gestae, 26: “la mia flotta navigò l'Oceano dalla foce del Reno verso le regioni orientali fino al territorio dei Cimbri, dove né per terra né per mare giunse alcun romano prima di allora.
[4] Idea diversa nutriva Seneca, per il quale “tutto è risultato di mescolanze e innesti” (permixta omnia et insiticia sunt); cfr. Seneca, Consolatio ad Helviam, 7, 10
[5] Cfr. Plinio, Naturalis Historia, IV, 99
[6] Cfr. Ammiano Marcellino, Storie, XIV, 12, 43 e anche Historiae, IV, 18, 5. M. lo definisce un clamor ascendente.
[7] Cfr. Cesare, op. cit., II, 30 (Gallis prae magnitudine corporum suorum brevitas nostra contemptui est); Ivi, I, 39 (ingenti magnitudine corporum); Tacito, Agricola, XI (namque rutilae Caledoniam habitantium comae, magni artus Germanicam originem adseverant)
[8] L’incapacità al lavoro era direttamente collegata alla considerazione delle caratteristiche della sfera climatica; tale concezione era ripresa dal trattato medico Arie, acque, luoghi (cap. 19), nel quale si sosteneva che in assenza di cambiamenti climatici violenti fosse impossibile che il corpo si temprasse alle fatiche.
[9] Livio, Ab urbe condita, X, 28, 3 passim
[10] Cfr. T. Agricola, X-XI: positio caeli corporibus habitum dedit, Germania, XXIX e Ammiano Marcellino, op. cit., XXXI, 2, 4 (“abituati sin dalla nascita a sopportare geli, fame e sete”, pruinas famem sitimque, perferre ab incunabulis absuescunt). Evidente qui la concezione deterministica per cui è l’ambiente a influenzare la vita dell’uomo e non viceversa; medesima teoria si ritrova in Vegezio, Epitoma rei militaris, I, II, 4-5, dove si sostiene che “i popoli nordici, lontani dalla calura del sole, sono sì più sconsiderati, ma in quanto più ricchi di sangue, tuttavia, sono adattissimi agli scontri”; il discorso di Vegezio era diretto ad ogni modo a sostenere la preferibilità del reclutamento nelle regioni temperate, i cui popoli erano gratificati dalla giusta quantità di sangue, “tale da permettere loro  di avere in dispregio le ferite e la morte e di essere dotate di riflessività”.
[11] Cfr. Tacito, Annales, II, 14
[12] Cfr. Cesare, De bello gallico, I, 48 e Tacito, Agricola, 12
[13] Cfr. Ibidem, VI, 23
[14] Cfr. cap. XI e XXI
[15] Donne e figli, poste immediatamente dietro le fila di combattenti barbari, sono “di incitamento per la vittoria e vergogna per i vinti” nelle Historiae (IV, 18), quando si racconta della battaglia tra il legato Luperco e Giulio Civile.
[16] Cfr. Svetonio, Vita di Augusto, XXI, 2 e T., Historiae, IV, 6
[17] Pitonessa ispiratrice della rivolta del batavo Giulio Civile (69-70)
[18] Cfr. Cesare, op. cit., VI, 17 e 21; le divinità germaniche assumono nomi romani secondo il principio dell’interpretatio (cap. XLIII)
[19] Cfr. T. op. cit., V, 5, 4 in riferimento agli ebrei
[20] Tacito, Agricola, 11; qui T. riferisce che i britanni un tempo obbedirono ai re, dopodiché, a causa dell’emergere delle divisioni tra fazioni principesche (principes factionibus) sono venuti ad essere dilaniati dalle lotte intestine; inoltre T. precisa che essi non prendono decisioni di comune accordo e che difficilmente due città o tribù si uniscono onde difendersi da un comune pericolo, fatto che contrasta con quanto detto a proposito dei Germani nel cap. XIV.
[21] Cesare, op. cit., VI, 18
[22] T., Historiae, IV, 76 e Cesare, op. cit., IV, 1
[23] Cesare, op. cit., VII, 21 e T., Historiae, V, 17
[24] La probatio era anche la valutazione dell’idoneità al servizio militare del soldato presso i romani
[25] Cfr. Polibio, Storie, II, 17, 12 e Cesare, op. cit., VI, 15
[26] Cfr. Cesare, op cit, III, 22  e VII, 40
[27] Tacito, Agricola, ib.
[28] Cesare (Bellum Gallicum, VI, 21, 3) sostiene invece che la loro vita consiste in caccie e esercizi militari. Qui Tacito sembra imitare Sallustio (De Catilinae coniuratione, 2), il quale dice di molti mortali essere dediti somno ciboque (essere schiavi del ventre e del sonno).
[29] Antica è l’avversione dei barbari per le città fortificate, vd. Sallustio, Historiae, IV, 64 (città come barrire per schiavi, munimenta servitii) e Ammiano Marcellino, op. cit., XVI, 2, 12 in rif. agli Alemanni (“evitavano infatti le città come se fossero cinte di reti”) e XXXI, 2, 4 in rif. agli Unni (“non sono mai protetti da alcun edificio, evitandoli come tombe separate dalla vita comune”).
[30] Evidente qui la sferza moralistica di T. e l’intento di lodare la “morigeratezza” barbarica, contrapposta al libertinaggio del costume romano. Probabile anche l’allusione alla confarreatio, forma più antica e solenne di matrimonio tra patrizi, consistente nello scambio di una focaccia di farro, che ricorda in T. l’austero scambio di doni in uso presso i germani.
[31] A Roma in origine vigeva la possibilità anche di uccidere la moglie fedifraga (in adulterio deprehensa) sine iudicio. Successivamente la Lex Iulia de adulteriis coercendis (16-18 d.C.) attribuiva al padre della donna la facoltà di uccidere la figlia e l’uomo con cui aveva commesso adulterio (crimen adulterii). Il marito poteva esercitare il “delitto d’onore”, uccidendo l’amante, solo nel caso in cui fosse di bassa estrazione sociale, e ripudiare la moglie, ma senza darle la morte. La lex de maritandis ordinibus (18 d.C.) limitava i matrimoni fra classi sociali diverse e puniva i celibi, mentre precedentemente la Lex Papia Poppaea (9 d.C.) aveva previsto disposizioni per incoraggiare la natalità e il matrimonio con analoghe sanzioni per i celibi.
[32] In realtà l’abbandono dei neonati era praticato presso i germani.
[33] Ennesimo epifonema, con il consueto riferimento dell’altrove, nel quale vorrebbe T. che si guardasse all’esempio dei germani per ripristinare una qualche parvenza di purezza dei prisci mores.
[34] Cfr. Agricola, IV, 3: in huis sinu indulgentiaque educatus (fu educato nel grembo di lei nella mitezza), riferito al piccolo Agricola.
[35] L’avuncolato costituisce in antropologia culturale la successione matrilineare “in cui i diritti sulla prole spettano allo zio materno” (De Mauro).
[36] Mentre sappiamo che in Roma erano frequenti i casi di persone prive di prole, e magari anche ricche. Vedi Ammiano Marcellino, op. cit., XIV, 6, 22 (nec credi potest qua obsequiorum diversitate coluntur homines sine liberi Romae, “è difficile immaginare come a Roma siano circondati di cortesia gli uomini senza prole”); T., Historiae, I, 73; T. Annales, XIII, 53.
[37] La pena pecuniaria per l’omicidio (guidrigildo) era praticata dagli antichi popoli germanici; i Longobardi la fissarono nell’Editto di Rotari (643).
[38] Cfr. Cesare, op. cit., VI, 23
[39] Cfr. Cesare, op. cit., VI, 21: promiscue in fluminibus perluuntur.
[40] Vd. T., Historiae, IV, 14; la rivolta batava di Giulio Civile viene pianificata durante un banchetto, per gli stessi motivi avanzati da T. (ubi nocte ac laetitia incaluisse videt).
[41] Cesare (op. cit., IV, 13) attribuisce invece ai germani dolum atque insidias, perfidia et simulatione; Valleio Patercolo (Storia romana, II, 118) li definisce invece “barbari e selvaggi, ma astutissimi, genia nata per mentire” (in summa feritate versutissimi natumque mendacio genus).
[42] Il topos sembra risalire molto addietro, trovandosi in Iliade, IX, 70 con riferimento ai persiani e Erodoto, Storie, I, 113.
[43] Diffusa nell’antichità in Mesopotamia e Egitto, ebbe scarso seguito tra greci e romani, che vi preferirono il vino; ai tempi di T. si tratta di una birra ancora priva di luppolo, introdotto nei birrifici solo alla metà del XIII secolo.
[44] Cfr. Ammiano Marcellino, op.cit., XV, 12, 4: vini avidum genus, in riferimento ai Galli.
[45] Cfr. Sallustio, op.cit., 84 in riferimento ai Numidi.
[46] L’ultimo passo è ritenuto da alcuni filologi un’atetesi, essendo sospettato di essere l’aggiunta spuria di un commentatore romano.
[47] L’intento polemico contro il ruolo dei liberti nella società romana è patente; T. probabilmente intende porre l’attenzione anche sull’influsso che essi esercitavano a corte, si pensi al ruolo che ricoprirono presso la corte di Claudio. Cfr. Svetonio, Vita di Claudio, 28, l’amore incontrollato verso i numerosi liberti; Plinio, Panegirico, 88, 1-3: plerique principes … libertorum erant servi … praecipuum esse indicium non magni principis magnos libertos; Agricola, XIX, 3: nihil per libertos servosque publicae rei.
[48] Cfr. Cesare, op cit, VI, 22, 2: “i magistrati e i capi ogni anno assegnano a loro giudizio alle stirpi, ai gruppi di consanguinei e alle associazioni d’uomini un pezzo di terra”.

[50] Presso i romani i funerali, specie degli aristocratici, erano molto più sfarzosi; si veda la celebre descrizione in Polibio, VI, 53. Cfr. Cesare, op. cit, VI, 19 (funera sunt pro cultu Gallorum magnifica et somptuosa).
[51] In realtà si sa oggi che quelli che i romani osservavano in Germania erano insediamenti risalenti ad antichi stanziamenti in quel territorio dei Celti (antenati dei Galli), che vi transitarono in tempi più remoti.
[52] Stesso giudizio in Agricola, 11 in rif. ai Galli: mox segnitia cum otio intravit, “accanto al valore persero anche la libertà”.
[53] Riferimento al sistema di tipo “egemonico-clientelare” in atto nell’Alto-impero, fondato sulla fedeltà e l’asservimento delle popolazioni limitanee per mezzo della “persuasione armata”; cfr. Edward N. Luttwak, The Great Strategy of the Roman Empire.
[54] Il riferimento è qui alle recenti imprese di Domiziano, opportunamente stornate per mezzo di una circonlocuzione.
[55] Chiaro indizio della concezione deterministica di Tacito riguardo al rapporto tra l’ambiente e l’uomo ivi inserito.
[56] Incerto se con ciò ci si riferisca a un toponimo locale oppure se tale espressione significhi “agri che pagano la decima a Roma”, pur non conoscendosi alcun tributo in Roma antica noto come “decumae”.
[57] Così Giulio Civile (Historiae, IV, 61), dopo il massacro delle legioni romane.
[58] Come ogni atto di natura antropologica, che di per se stesso produce scarti, fisici e sociali (in questo caso gli ignavis et imbellibus), la pratica del “taglio” (come quello del prepuzio presso molte popolazioni o qualsiasi altra forma esteriore) costituisce un rito di iniziazione o di passaggio a una fase successiva dell’esistenza individuale, in questo caso la transizione all’età adulta.
[59] Cfr. De Bello Gallico, IV, 1 e 12.
[60] Un tale compiacimento si legge anche in Annales, XIII, 56 per la triste sorte degli Ampsivari.
[61] Gli antichi credevano nell’esistenza delle colonne d’Ercole (Herculis columnas) anche in altri luoghi oltre lo stretto di Gibilterra (nel Mar Rosso, nel Ponto ecc).
[62] Ingenti flexu dovrebbe essere identificabile con la penisola dello Jutland.
[63] Sconfitti da Druso nel 12 d.C.
[64] Valleio Patercolo, Storia romana, II, 106
[65] Cade il 1° gennaio 98, che quindi costituisce il terminus post quem per la datazione della Germania.
[66] Trai recenti trionfi, anche se T. non vi fa riferimento qui, vanno ascritti anche quelli di Caligola, Domiziano e Druso.
[67] Arsacide era la dinastia partica a quel tempo; tutti i sovrani parti conservavano l’appellativo di Arsace, equivalente ad Augusto.
[68] La libertas è eretta qui da T. a elemento costitutivo di un popolo, che ne determina l’operato e le gesta più ancora delle iniziative dei singoli, come se i germani fossero un tutto organico, mosso in funzione di tale spinta ideale. Sembra esserci una correlazione in T. tra struttura sociale e destino di un popolo e la sua indole connaturata. Una tale concezione, doveva apparire tanto più sconvolgente, quanto più si faceva strada la convinzione che i Romani, al pari dei Parti, risultavano soggiogati a un potere autocratico e sempre più assoluto.
[69] A Carre nel 53 a.C.
[70] Pacoro, figlio di Orode, fu fatto uccidere da Ventidio Basso, generale cesariano, nel 38 a.C. Il giudizio sprezzante per Ventidio si deve alla sua origine “plebea”. Pare fosse un mulattiere in origine.
[71] Tutti sconfitti dai Cimbri e Teutoni; la più pesante sconfitta fu quella di Mallio Massimo e Servilio Cepione nel 105 a.C. presso Orange.
[72] La terribile sconfitta di Teutoburgo (9 d.C.) ai danni delle legioni di Varo da parte di una coalizione di popoli germanici guidati dall’ex ausiliario Arminio. All’indomani del massacro pare che Augusto avesse commentato tra il risentimento e la disperazione: “Quintili Vare legiones redde!” (Cfr. Svetonio, Vita di Augusto, 23).
[73] Ai Campi Raudii nel 101 a.C.
[74] Contro Ariovisto nel 58 a.C. e Usipeti e Tencteri nel 55.
[75] Intende Tiberio (Tiberius Claudius Nero).
[76] Il giudizio sulla spedizione di Caligola è duro anche altrove, soprattutto presso storici di alto rango, come Tacito (Historiae, IV, 15) e Svetonio (Vita di Caligola, 45, 47), assecondando il pregiudizio (senatoriale?) contro un imperatore su cui si addensarono sin da subito le ombre della “leggenda nera”, come è stato per Nerone e Domiziano, che infatti Tacito non perde occasione di dileggiare.
[77] Fa riferimento al periodo che seguì la morte di Nerone con l’anarchia che ne derivò (anno dei quattro imperatori), durante la quale Giulio Civile si rivoltò distruggendo le forze romane a Castra Vetera.
[78] La spedizione di Domiziano nell’83 sui Catti, descritta da T. nell’Agricola (XXXIX) come una farsa, smentito però da Frontino (Strategemata, II, 11). Ancora qui è evidente il pregiudizio di una storiografia filo-senatoria ostile agli imperatori che ne conculcarono le prerogative.
[79] Il nodo sulla tempia destra è testimoniato anche da Seneca (De ira, 3, 26; Epistolae, 124, 22), Marziale (Epigrammata, 3, 9), Giovenale (XIII, 164) e Ammiano (XVI, 12, 24, in relazione agli Alemanni), oltreché in numerose fonti iconografiche, tra cui la Colonna Traiana, e ovviamente essendo stato anche riscontrato in numerosi teschi di salme di cui si sia conservata la chioma.
[80] Cfr. cap. IX.
[81] Il dio Wotan, associato a Marte.
[82] Qui T. sembra contraddirsi perché dal momento che i Longobardi erano circondati dai Cauci e i Cherusci, che lo stesso autore riferisce inetti alla guerra e addirittura i secondi dice essere sottomessi ai Catti, non si capisce come potessero essere in mezzo a nazioni fiorenti. 
[83] Tutte popolazioni su cui T. non possiede informazioni e che si limita a elencare. Essi abitavano lo Schleswig-Holstein e lo Jutland.
[84] Evidente l’analogia col culto di Cibele, quando nel giorno della lavatio (27 marzo) la statua della divinità era trasportata presso un affluente del Tevere, l’Almone, venendo trainata da buoi per essere purificata. La lavatio era propedeutica ai Megalesia, la festa della Magna Mater.
[85] Ancora una volta tutto il romanticismo del discorso tacitiano, con il continuo raffronto trai bei tempi antichi, la sanità barbara e la corruzione moderna.
[86] I Marcomanni furono sconfitti da Druso nel 9 a.C. e al tempo di T. costituivano un regno cliente. Sotto Maroboduo avevano costituito uno solido stato confederato, che però fu abbattuto da Arminio; Maroboduo fu quindi accolto da Tiberio, che ne lodò la fama, e ospitato a Ravenna fino alla sua morte con la minaccia di rimetterlo sul trono qualora gli Svevi avessero provocato oltremodo i romani (cfr. Annales, II, 63). Nel 167 sotto Marco Aurelio invasero il limes danubiano, ma furono respinti.
[87] E’ il meccanismo della Interpretatione romana: i romani erano convinti che le divinità delle religioni straniere fossero in tutto simili alle loro e che da queste si distinguessero per il solo nome; si riconosceva dunque nei numina stranieri le proprie divinità, tanto da associarle a quelle romane e farle entrare nel proprio pantheon.
[88] Sono stati associati ai Berserker, guerrieri scandinavi che avevano fatto giuramento di fedeltà al dio norreno Odino, e che scendevano in battaglia a in preda a trance sciamanica. Forse invasati a seguito di qualche rituale religioso, essendo legati insieme da culti comuni. Figure però che la leggenda ha reso opache, al punto da non poterle decifrare completamente.
[89] Si credeva che la Svezia fosse un’isola in mezzo all’oceano, ovvero il Mar Baltico.
[90] Il Mar glaciale Artico.
[91] T. credeva in una terra piatta, discoide, circondata dall’oceano. Nelle regioni che descrive si può osservare Helios, su un carro trainato da pariglie di cavalli, con il capo cinto da un nimbo luminoso (iconografia tradizionale di Elio); la vicinanza del disco del sole impedisce l’alternarsi della notte (provocata dall’ombra delle montagne, cfr. Agricola, 12) e comporta il permanere della luce fino al suo nuovo sorgere; il sole troppo vicino inoltre provoca un calore eccessivo che produce la secrezione dell’ambra di cui parla in seguito. In sua prossimità, si ode poi lo sfrigolio (quasi musicale) nel procedere del tramonto, come di un ferro incandescente. Cfr. Seneca il Vecchio, Suasoria, I, 1.
[92] Grande era la richiesta di questo materiale presso le élite romane. La rotta del commercio era la “via dell’ambra” che dal Baltico tagliava l’Europa orientale per giungere nell’Impero e sboccare nell’Adriatico, ma vi erano anche strade alternative che conducevano ai Balcani o al Mar Nero.
[93] La forma peggiore di dominio era quella del dispotismo femminile; col procedere verso frontiere sconosciute i regimi di governo degradano verso la tirannia; si pensi al ricorso al termine regina in Orazio (Odi, I 37, in quella dedicata alla vittoria di Azio) nel rivolgersi a Cleopatra.
[94] I Bastarni, di cui erano parte i Peucini, erano di origine sia germanica, sia sarmata. Furono battuti sotto Augusto da Marco Vinicio.
[95] I Fenni abitavano sulla costa del Baltico, antenati dei Finnici (odierni Finlandesi).

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