Publio
Cornelio Tacito – De origine et situ Germanorum
Di seguito propongo una ricostruzione compendiosa dell'opera di Tacito "Germania", segnalando i contenuti più importanti e le notizie ritenute a mio parere più rilevanti. Si procede in base ai singoli capitoli in cui è suddivisa l'opera. Nelle note di apparato si propongono rimandi ad altre opere la cui relazione è suggerita dal passo preso in esame. L’opera fu composta nel 98 d.C. (terminus post quem è la data del secondo consolato di Traiano, che cade il 1° gennaio dell’anno, citato nel cap. 37), ed ebbe risonanza quasi certamente nello spazio di tempo che separò la morte di Nerva, l’ispezione di Traiano alla frontiera sul Danubio (estate 98), e l’entrata a Roma (settembre/ottobre 99) del neo imperatore (cfr. Marziale, Epigrammi, X, 6 sul tema dell’attesa del Principe). Tacito redasse l’opera probabilmente come opuscolo a scopo informativo per i membri dell’élite dell’Urbe (lo stesso stile dell’opera è piuttosto mondano).
Publio Cornelio Tacito |
1. I germani sono separati dai
Sarmati (Iazigi) e dai Daci dalla paura reciproca e dai monti (mutuo metu aut montibus separatur),[1] dai fiumi Reno (che nasce
dalla Alpi Retiche e si getta nell’oceano) e Danubio (che si sviluppa dalla
catena dell’Abnoba e si riversa nel mar Pontico (Mar Nero)), - questi ultimi dividendo
la loro terra dalla Gallia, dalla Rezia e dalla Pannonia -, nonché dall’oceano.
[2] La grande massa d’acqua
circonda le altre terre, abbracciando isole e penisole abitate da altri re e
popoli, recentemente conosciuti. [3]
2. T. evidenzia il carattere
“endogamico” delle genti germaniche, vissute incontaminate e non a contatto con
altre genti “sia immigrati, sia colà residenti” (adventibus et hospitiis mixtos), dacché l’oceano che li isola dal
resto del mondo, impedisce qualsiasi apporto di sangue allogeno.[4] In antichi carmi (carminibus antiquis) - riferisce T. la
sola forma di tradizione storica che essi conservino – si attesta il culto da
parte loro del dio Tuistone (nato dalla terra come il greco Cronos) e del
figlio Manno (dal tedesco mann, uomo),
antenato della nazione. A Manno attribuiscono tre figli, da cui discendono i
principali gruppi del loro popolo, gli Ingevoni (abitanti dell’area di Cimbri,
Teutoni e Chauci), gli Erminoni (Suebi, Ermunduri, Catti e Cherusci) e gli
Istevoni (popolazioni del Reno).[5] Dai molti figli di
Tuistone deriverebbero molte genti (Marsi,
Gambrivii, Suebi ecc). Il toponimo “Germania” deriverebbe invece da una
tribù vittoriosa sui Galli (come gli Elleni furono una tribù della Tessaglia, i
Greci una popolazione dell’Epiro e gli Itali un popolo del Bruzio, dunque la spiegazione dell’etnonimo da parte di T. può
essere ritenuta attendibile).
3. T. mette in relazione
Ercole con i germani, e sottolinea che questi usano glorificare “il primo fra
gli eroi” con canti e carmi, tra cui il “bardito” (barditum),[6] attraverso il quale
accendono gli animi dei soldati prima dello scontro. Questo canto (che essi
praticano con lo scudo davanti alla bocca per echeggiarne il suono, obiectis ad os scutis) ha il potere di
seminare il terrore tra le schiere nemiche, e nel peggiore dei casi può
terrorizzare gli stessi germani. T. poi riferisce della leggenda per cui Ulisse
sarebbe stato sbattuto sulle spiagge di questi luoghi dove avrebbe fondato una
città chiamata Askipyrghion (Asciburgium), dove, riferisce T., furono ritrovati
un altare dedicato a Ulisse e al padre Laerte e iscrizioni in lettere greche.
L’autore precisa di non voler indagare la veridicità di queste informazioni,
lasciando il giudizio al lettore.
4. T. ribadisce il carattere
“endogamico” della razza germanica, rimasta incorrotta (infextos) e non mescolatasi nel tempo con altri popoli. Essa ha
prodotto individui unici (che somigliano solo a se stessi, tantum sui similem) con caratteristiche somatiche dai tratti
inconosciuti ai romani: occhi azzurri e sguardo minaccioso (caerulei et truces oculi), chiome
rossicce (rutilae comae), corpi
grandi (magna corpora),[7] ma forti solo nell’attacco
(tantum ad impetum valida) e incapaci
di sopportare le fatiche del lavoro;[8][9] inoltre il clima rigido li
ha fatti insofferenti al caldo e alla sete e l’inclemenza del clima e il suolo
improduttivo li hanno resi avvezzi al freddo e alla fame. [10]
5.Il suolo della Germania
appare selvaggio per la presenza delle foreste e delle paludi, più umido per la
parte che si affaccia sulla Gallia, più ventoso per quella orientata verso il
Norico e la Pannonia. Appare più adatto ai seminati, che alla frutticultura,
inoltre il bestiame che vi è allevato è di bassa statura. Gli dei privarono
quella terra di argento e oro, anche se T. non sarebbe pronto a giurare che non
ve fosse affatto, anche perché, si chiede, chi ha intrapreso ricerche per
verificarne la presenza? (quis enim
scrutatus est?) I germani non sembrano molto apprezzare, peraltro, la
ricchezza dell’oro e dei metalli preziosi, visto che lasciano marcire il
vasellame prezioso loro dato in dono, accanto ai vasi di creta. Solo quelli tra
loro più adusi ai commerci sembrano tenere in conto l’oro, l’argento e nostrae pecuniae. Coloro che vivono
nelle zone interne sembrano praticare una vita più primitiva, perché ancora
legati a forme rozze di scambio come il baratto.
6. T. nega anche ce quella
terra abbondi di ferro, dichiarando il proprio scetticismo riguardo alla
resistenza e alla qualità del loro armamento. Pochi si servono di lance e
spade, preferendo delle aste dette “framee” (frameas), facili ad essere usate come aste o giavellotti. Lo stesso
per i cavalieri, che fanno uso dello scudo e di questo tipo di lancia, mentre i
fanti scagliano proiettili, combattendo, privi di qualsivoglia armatura, nudi o
al massimo coperti di una tunica (nudi
aut sagulo leves). Non fanno uso di corazze o elmi e non usano addestrare
adeguatamente i cavalli, facendoli piegare solo sul lato destro (la parte
coperta dallo scudo). [11] I loro eserciti, disposti
a cuneo (acies per cuneos componitur),
fanno riferimento soprattutto sulla fanteria, anche se adottano un modello tattico
integrato con la cavalleria (mixti
praeliantur).[12] In battaglia si ritirano
solo se necessario e reputano atto di viltà abbandonare lo scudo (come già
nella cultura greca e anche romana), tanto che chi si macchia di questo è
escluso dalle assemblee e dalle sacre cerimonie.
7. I loro re sono scelti in
base alla nobiltà di sangue mentre i generali (duces) in base al valore.[13] I primi non godono di
potere assoluto, mentre i comandanti sono portati a fondare la propria autorità
sull’esempio, diventando modelli di virtù per i propri soldati. Non è loro
usanza condannare a morte o ridurre in ceppi un uomo, essendo permesso solo ai
sacerdoti in nome del dio della battaglia percuotere qualcuno.[14] Portano sul campo
immagini e simulacri tolti ai boschi sacri. L’organizzazione e la disposizione
delle truppe è regolata in base all’appartenenza familiare; le stesse famiglie
seguono gli uomini in battaglia, tanto che odono le urla delle donne e i vagiti
dei bambini (unde feminarum ululatus
audiri, unde vagitus infantium).[15] Le cure dei feriti sono
affidate alle stesse moglie e alle madri (testimoni più sacri, sanctissimi testes), che non temono di
scrutarne le piaghe (nec illae numerare
et exigere plagas pavent).
8. Il ruolo delle donne nelle
loro società è molto rilevante; essi tengono in grande considerazione le mogli,
tanto da arrestare le ritirate quando queste sono messe in pericolo e da essere
più fedeli ai patti quando di mezzo ci sono fanciulle nobili (obsides puellae nobiles).[16] Veleda[17], ad esempio, sotto
Vespasiano, fu quasi ritenuta una dea, e lo stesso Albrinia e molte altre, ma
senza mai venire divinizzate o divenire oggetto di culto come invece avveniva a
Roma.
9. Onorano Mercurio, Ercole e
Marte, ai quali offrono sacrifici (a Mercurio anche umani (humanis hostiis)).[18] I Suebi sacrificano anche
a Iside, culto probabilmente di importazione. Non li fanno oggetto di icone e
non li ritraggono in forme umane, non ritenendolo degno.[19] Scrutano la presenza
divina nei boschi e nelle foreste, consacrandole alle divinità.
10. Credono ai presagi e fanno
ricorso alle divinazioni, usando il metodo del ramo ridotto in schegge, da cui
traggono pezzi che il sacerdote cittadino o il capo famiglia interpretano a
loro modo. Essi usano leggere anche i canti e il volo degli uccelli, nonché le
profezie e gli ammonimenti dei cavalli, una volta legati al sacro carro e
accompagnati dal sacerdote, dal re o dal primo fra i cittadini. Esercitano
anche l’ordalia, facendo combattere un loro campione con un prigioniero, e
interpretando la vittoria dell’uno o dell’altro.
11. Le decisioni minori sono
deliberate dai capi, mentre quelle di più grande rilevanza sono discusse dalla
comunità nel giorno di novilunio o plenilunio, momento che si ritiene più
adatto per prendere iniziative.[20] I germani non regolano il
calendario in base ai giorni, ma in base alle notti, perché ritengono che sia
la notte a guidare il giorno.[21] Prima delle adunate,
aspettano che tutti siano presenti (perché ciascuno è libero a suo modo[22]) e, se è il caso, tengono
con sé le armi. I discorsi sono tenuti dal re o dai capi, ciascuno secondo
l’età, la nobiltà di sangue, il valore militare o l’eloquenza. Come atto di
approvazione usano sbattere le armi (frameas
concutiunt) tra loro (l’atto di consenso più nobile è la lode espressa per
mezzo delle armi (armis laudare)),
altrimenti in caso di contrarietà rumoreggiano. [23]
12. Le adunanze sono occasione
anche per la celebrazione di processi capitali. In base ai delitti si
distinguono le relative pene: i traditori e i disertori sono impiccati, i vili
e i codardi, nonché coloro che compiono atti turpi, sono immersi nel fango,
ricoperti per di più da una stuoia. Si praticano anche pene “pecuniarie” per i
reati più blandi, con l’obbligo di fornire un certo numero di cavalli e capi di
bestiame, che si consegnano una parte al re o alla tribù, una parte all’offeso
o ai suoi parenti. Durante le assemblee si scelgono anche i capi (principes) a cui spetta di amministrare
la giustizia nei distretti e nei villaggi (pagi
e vici), ai quali si affiancano
cento compagni (centeni).
13. L’uso e il possesso delle
armi, per coloro che ne hanno ricevuto l’avallo all’utilizzo (probaberit[24]),
è cosa comune, anche nelle cerimonie collettive; una persona autorevole provvede
a conferire ufficialmente lancia e scudo al giovane a cui tale facoltà è
riconosciuta, cerimonia che è accostabile a quella in voga presso i romani con
cui il giovane indossa per la prima volta la toga (arma sumere accostato a sumere
togam virilem). La consegna delle armi è l’atto di passaggio dalla famiglia
allo stato. Anche i giovani possono avere autorevolezza, chi per nobili natali,
chi per il valore personale. Nel gruppo (comitatus)
si crea una gerarchia scelta dal membro più insigne, per stare accanto al quale
i “gregari” gareggiano tra loro; anche i capi si mettono alla prova per
aumentare il proprio seguito. In quest’ultimo si riconosce l’autorevolezza e il
prestigio di un capo, nel numero di giovani seguaci che egli riesce ad attirare
presso sé. [25]Un
gruppo può assurgere a tale considerazione da essere influente presso altre
popolazioni e da influire sull’esito stesso delle guerre.
14. E’ vergognoso per un capo
lasciarsi superare in coraggio dagli inferiori, e ugualmente inaccettabile
tentare di eguagliare l’abilità del comandante. Ritornare sani e salvi da un
combattimento nel quale è perito il proprio capo (superstitem principi suo ex acie recessisse[26])
è ritenuto un marchio d’infamia per la vita, dal momento che si ritiene che non
lo si sia difeso abbastanza alla pari (comites
pro principe pugnant); difendere il capo è ritenuto compito sacro (sacramentum est). Nel caso in cui la
pace si prolunghi oltremisura, i germani possono decidere di fornire aiuto ad
altre popolazioni in conflitto affinché non siano logorati dalla lunga pace e
dall’ozio (longa pace et otio),
essendo essi insofferenti alla pace.[27] Solo con la guerra e la
violenza è possibile ottenere la gloria e un grande seguito. In luogo dello
stipendio essi ritengono sostitutivo il trattamento che il comandante loro
riserva (largi apparatum pro stipendio
cedunt): un cavallo atto alla guerra (bellatorem
equum), una lancia bagnata del sangue (cruentam
victricemque frameam). Non si aspetti che essi pratichino con tanta dedizione,
quanta ne dedicano “a sfidare il nemico e conquistarsi l’onore delle ferite” (vocare hostem et vulnera mereri), il
lavoro della terra o attendano al raccolto. Sarebbe anzi scandaloso procurarsi
col sudore, ciò che invece è da prendere col sangue (sudore adquirere quod possis sanguine parare).
15. L’attività alternativa da
loro preferita alla guerra sembra essere l’ozio, più che la caccia.
Preferiscono mangiare o dormire, mentre i più forti stanno a non farsene nulla,
affidando tutte le faccende alle donne, compresa la coltivazione dei campi.[28] Oltre ai doni che essi si
scambiano tra loro e con le popolazioni confinanti, sono stati abituati dai
Romani a ricevere anche il denaro (pecuniam
accipere docuimus).
16. Le popolazioni germaniche
non tollerano gli assembramenti urbani e financo la vicinanza di case tra loro.[29] Vivono in luoghi isolati,
lì dove trovano una fonte d’acqua, un bosco o un campo. Usano circondare le
abitazioni di spazi vuoti, non si sa se per evitare il propagarsi di incendi o
perché ignorino l’arte di costruire. Non usano infatti pietre o tegole, ma solo
legname greggio. Sogliono costruire depositi di letame in profondità, usandoli
come rifugi per l’inverno (o per trovare scampo dal nemico) e come granai per
le messi.
17. Si coprono al massimo di
un mantellaccio fermato con una fibbia, se non ne possiedono, con una spina. Il
resto del corpo è nudo e trovano tepore solo vicino ai focolari, dove passano
intere giornate (totos dies). I più
ricchi hanno una veste larga come quella dei Sarmati e dei Parti. Indossano
anche pelli di animali, portate con maggiore eleganza da quelli che sono
lontani dai contatti commerciali. Le donne non si distinguono dagli uomini per
l’abbigliamento, se non per l’uso di mantelli di lino, privi di maniche (in manicas non extendunt) e che lasciano
scoperta la parte superiore del petto.
18. I rapporti coniugali sono
austeri (severa illic matromonia) e
per di più gli uomini non praticano la poligamia, se non eccezionalmente e non come
fatto di piacere, ma come segno di nobiltà.[30] Non è poi la moglie che
conferisce la dote al marito, ma è quest’ultimo che la paga alla donna (una
sorta di prezzo). La dote consiste in doni inadatti però alla donna, recando
essa buoi, armi o cavalli (simboli dei doveri della coppia, per la donna come
per l’uomo), che si trasmettono intatte e pure (inviolata ac digna) dalla madre ai figli. La donna ricambia quindi
regalando qualche arma (armorum aliquid
vito adfert). Lo scambio di doni nella coppia costituisce il contenuto più
profondo del vincolo (hoc maximum
vinculum); questi sono per loro i sacri misteri e le divinità delle nozze (haec arcana sacra, hos coniugalis deos
arbitrantur). La donna è chiamata a contribuire alle fatiche e a sfidare i
pericoli, in pace come in guerra, così nella vita, come nella morte.
19. Le donne germaniche vivono
morigeratamente, senza partecipare a spettacoli, né a conviti, né intrattenendo
corrispondenze segrete (litterarum
secreta). Pochissimi sono i casi di adulterio tra le coppie, e nel caso
raro in cui dovesse succedere la pena spetta al marito, che taglie la chioma
della moglie e, denudatala, le fa compiere un tragitto per il villaggio sotto
le sue percosse.[31]
La colpevole, pur bella, pur giovane e ricca, non potrà più risposarsi (non forma, non aetate, non opibus maritum
invenerit). La corruzione morale presso di loro non esiste, né la si chiama
“spirito dei tempi” (nec corrumpere et
corrumpi saeculum vocatur). Si provvede a far sposare le donne in giovane
età, così che non vi sia in loro altro pensiero di matrimonio ed esse abbiano a
cuore l’istituto matrimoniale, piuttosto che la persona con cui lo stringono (ne tamquam maritum sed tamquam matrimonium
ament). La contraccezione e l’infanticidio dopo i primogeniti sono per loro
un crimine (liberorum finire aut quemquam
ex agnatis necare flagitium habetur):[32] presso i germani i buoni
costumi valgono più delle prescrizioni legali.[33]
20. Da bambini crescono nudi e
sudici, fino al raggiungimento della solidità del corpo, quella che colpisce maggiormente
(in haec corpora quae miramur).
L’allattamento non è affidato a balie, ma è curato dalla madri.[34] L’educazione impartita è
comune per tutti, tanto che non distingueresti il servo dal padrone. Essi si
distinguono non per nobiltà di nascita, ma per il valore e l’età. L’attività
sessuale si manifesta tardivamente nei giovani, che per conseguenza godono di
forte virilità. Anche le fanciulle non si sposano precocemente, se non solo quando
riscuotono lo stesso grado di robustezza dei maschi, partorendo figli che li
imitano nella solidità di membra. Lo zio materno dedica al nipote (avunculum) ugual cura che presta ai
propri stessi figli.[35] Alcuni popoli ritengono
che tale rapporto parentale sia più sacro, tanto che nell’accogliere ostaggi
richiedono i figli delle sorelle, ritenendone il vincolo più profondo. Eredi
rimangono ad ogni modo i figli naturali, senza che ci sia l’usanza di fare
testamento (et nullum testamentum).
Se mancano figli, allora si fanno successori in ordine i fratelli, gli zii
paterni e gli zii materni. L’essere privi di figli inoltre non arreca loro
alcun vantaggio.[36]
21. I padri e i figli
condividono le stesse amicizie e le stesse inimicizie. Il crimine di omicidio è
facilmente condonato, dacché basta pagare un’imposta in natura per
riconciliarsi con la famiglia dell’ucciso.[37] L’ospitalità per i
Germani è cosa onoratissima: ritengono ingiurioso escludere qualcuno dalla
propria casa. [38]Qualora
una famiglia non sia più in grado di sostenere l’ospite, il suo anfitrione lo
accompagna presso un’altra abitazione, senza che siano necessariamente stati
invitati. Lo scambio di doni è per loro fonte di gioia: non si sentono
obbligati per i doni che ricevono, né ritengono di mettere a memoria quelli che
hanno corrisposto.
22. Al risveglio, che è molto
protratto nel giorno, si lavano con acqua calda.[39] Finite le abluzioni,
consumano il pasto, seduto ciascuno al proprio posto a tavola. Armati di tutto
punto sbrigano le loro faccende oppure non raramente riprendono a banchettare.
Bere per loro è un fatto normale; le risse che derivano dall’ubriachezza, il
più delle volte si risolvono in uccisioni e ferimenti, più raramente in
semplici bisticci. Il banchetto è occasione di discussione pubblica: per
dirimere controversie, per stringere accordi matrimoniali, per addivenire alla
pace, per decidere una guerra.[40] Per gente né sagace, né
callida,[41]
il clima conviviale e di licenza, facendo emergere i segreti dell’animo (segreta pectoris), favorisce la
sincerità e la chiarezza del pensiero (ergo
detecta et nuda omnium mens).[42] Usano trattare infatti
quando non sono in grado di nascondere un fatto, prendono decisioni quando sono
dinnanzi all’obbligo di agire rettamente.
23. Bevono un liquido ricavato
dall’orzo e dal frumentato e che fatto fermentare rassomiglia al vino. [43] Nelle regioni aperte ai
commerci prospicenti il fiume Reno si fa consumo di vino. [44]Per il resto la loro
alimentazione è fatta di frutti selvatici, cacciagione, latte cagliato, tutti
cibi non raffinati ma anzi molto semplici.[45] Non appaiono altrettanto
moderati nel bere, in cui troveranno soddisfazione fintantoché gli verrà
stimolata. Se si incentiverà il loro vizio del bere, saranno più facili da
sottomettere che attraverso le sole armi (si indulseris ebrietati suggerendo quantum concupiscunt, haud minus facile vitiis quam armis vincentur).[46]
24. Unica forma di spettacolo
consiste in giovani nudi che tentano di evitare spade e lance puntate al loro
indirizzo; con l’esercizio acquistano via via abilità senza mirare a fama o
vantaggi, la sola gratificazione che ricevono è vedere divertito il pubblico. Forma
di divertimento diffusa è il gioco dei dadi (aleam), nel quale arrivano ad accanirsi a tal punto da mettere in
palio la propria stessa libertà pur di vincere. Il vinto accetta quindi di
essere tratto in schiavitù (voluntariam
servitutem adit) senza manifestare alcuna renitenza. I vincitori finiscono
però per vendere come schiavo lo sconfitto, pur di liberarsi di tale ignominia.
25. Essi non danno in gestione
allo schiavo la loro casa, bensì amministrarono autonomamente la loro proprietà
e le proprie incombenze, affidandola alla moglie o ai figli. Il padrone può
imporre a uno schiavo o a un colono di fornirgli una determinata quantità di
frumento o altro, e a ciò è tenuto. Non accadono casi di sfruttamento plateale
e non si usa percuotere lo schiavo; può capitare che il padrone lo uccida in un
impeto d’ira, come contro un avversario, senza che ciò sia punito (occidere solent … sed impetu et ira, nisi
quod impune est). Il liberto non è più libero di uno schiavo, e raramente
questi ha una qualche influenza sulla famiglia o sugli affari. [47] Presso le popolazioni
dotate di regimi autocratici (come era ormai a Roma, ndr), essi acquistano
maggiore autorità dei liberi e dei nobili (super
ingenuos et super nobilis ascendunt). Il fatto stesso che presso i barbari
essi siano in una condizione di sudditanza, prova che sono popoli liberi (liberatatis argumentum sunt).
26. Il prestito di denaro e la
pratica dell’usura sono sconosciute ai barbari germani. I campi sono suddivisi
trai coltivatori della terra secondo il criterio del rango.[48] La vastità dei campi
consente loro di dispensare i terreni, e la fertilità del suolo di evitare
particolari pratiche di coltura, dal momento che ricavano da essa solo grano.
Ne consegue che essi fanno a meno di ripartire l’anno in quattro stagioni, ma
conoscono solo primavera, estate e inverno (hiems
et ver et aestas).[49]
27. I loro funerali non sono
particolarmente sfarzosi: essenziale è che il corpo sia cremato col giusto
quantitativo di legna. Sulla pira funebre usano collocare le armi e
eventualmente il cavallo, ma mai vesti e oggetti preziosi.[50] La sepoltura non è
costituita da monumenti, che altrimenti gravano sul defunto (ut gravem defunctis aspernantur), ma da
semplici tumuli terrosi. Lo strazio per la perdita non è ostentato, ma
persistono nel tempo del lutto dolore e scoramento. Le donne di solito
piangono, gli uomini ricordano. Si passa ora a trattare delle istituzioni e
delle consuetudini delle singole popolazioni germaniche.
28. Il divo Giulio, massima
autorità in materia (summus auctorum
divus Iulius), tramanda che i galli furono in realtà più potenti. Non
sarebbe infondato ritenere che i galli siano trasmigrati un tempo in Germania.[51] Un piccolo fiume poteva
essere ben poco di ostacolo all’occupazione di un territorio privo ancora di
regni potenti (regnorum potentia).
Fra il Reno e il Meno e la foresta Ercinia si stabilì il popolo degli Elvezi,
mentre di là di quel limite si stanziarono i Boi, come i primi di stirpe
gallica. Non è chiaro se gli Aravisci si siano trasferiti in Pannonia
separandosi dagli Osi, o se questi si siano trasferiti in Germania separandosi
dagli Aravisci, considerando la comunanza di cultura trai due popoli. I Treviri
e i Nervi vantano origine germanica, come se questa convinzione potesse
evitargli di considerare la loro propria somiglianza ai Galli indolenti (inertia Gallorum). [52] Genti di stirpe germanica
occupano la riva del Reno. Gli Ubii, pur di origine barbarica, si fanno
chiamare Agrippinesi, dal nome del fondatore della colonia. Trasferitisi nel
lato occidentale del Reno, una volta data prova di fedeltà a Roma, furono ivi
entro lasciati perché proteggessero i confini dagli altri popoli loro affini.[53]
29. I Batavi superano in
valore tutte queste genti. Un tempo appartenenti ai Catti, si trasferirono poi
in quelle regioni dove furono soggiogati da Roma. Sono privilegiati dal fatto
di conservare lo stesso patto militare di quell’epoca in cui dovettero piegarsi
a noi: non sono sotto l’obbligo del tributo o sottoposti alle vessazioni dei
pubblicani, ma vincolati a fornire il supporto di uomini come fossero dardi o
armi (velut tela atque arma). Anche i
Mattiaci sono sotto il giogo dell’impero, che si impose al di là degli antichi
confini anche oltre Reno.[54] Per quanto viventi nello
stesso clima e pur essendo della stessa natura dei Batavi, appaiono più
improntati a fierezza di questi ultimi.[55] Non appartengono alla
stirpe germanica invece coloro che lavorano negli Agri Decumates,[56]
occupati dai Galli ma rientranti nella provincia romana (Germania superior).
30. La regione che comincia
con la selva Ercinia è abitata dai Catti; essa appare non così vasta e palustre
come le altre della Germania. Con corpo gagliardo e membra muscolose, sono di
aspetto minaccioso e animo vigoroso. (duriora
genti corporis, stricti artus, minax vultus et maior animi vigor). Sono
intelligenti e abili (rationis ac
sollertiae), hanno capi degni e mostrano loro riguardo, rispettano l’ordine
delle schiere, sanno cogliere l’occasione, trattenersi da manovra azzardate,
circondarsi di notte con difese efficaci (come i legionari), ritenendo certo il
valore, più incerta la fortuna e riponendo addirittura la propria saldezza
nella virtù del comando, piuttosto che nell’esercito. Tanto che fanno
assegnamento sulle forze di fanteria e non sulla cavalleria, poiché la
rapidità è tipica di chi ha timore, la lentezza di chi ha coraggio (velocitas iuxta formidinem, cunctatio
propior constantiae est). Usano addirittura munire i soldati di utensili e viveri,
tanto che si potrebbe dire: gli altri barbari li vedi andare alla battaglia,
i Catti invece prepararsi alla guerra (alios
ad proelium ire videas, Chattos ad bellum).
31. Comune è fra questi
lasciarsi crescere barba e capelli (promessa in voto come pegno di valore, votivum obligatumque virtuti) fintantoché
non abbiano ucciso un nemico.[57] Sono degni di diventare
parte della famiglia e della comunità solo dopo essersi spogliati di
quell’aspetto squallido, che rimane invece agli imbelli e ai pusillanimi (ignavit et imbellibus manet squalor),
sulle spoglie stesse del nemico.[58] Alcuni, trai più
valorosi, portano un anello di ferro, che è però segno di asservimento e se lo tolgono
solo dopo aver adempiuto all’obbligo della prima uccisione. Moltissimi invece
si compiacciono di tale aspetto e, alcuni col capo albino, questi costituiscono
la prima linea dei loro eserciti. I Catti non hanno casa, non hanno occupazioni
fisse, vivono da nomadi, munifici delle cose d’altri, indifferenti al possesso
personale, fino a che non sopraggiunge la vecchiaia, che li rende obbligati a
fare a meno del loro rigore di vita.
32. La regione confinante coi
Catti è abitata da Usipi e Tencteri,[59] dove il Reno scorre con
corso regolare. I secondi si distinguono per l’arte dell’equitazione (equestris disciplinae) e sono i migliori
in questa, come i Catti lo sono per l’uso della fanteria. Usano tramandarsi le
tradizioni degli antenati, e così fanno per gli schiavi, la casa e il resto del
corredo; solo i cavalli passano dal padre ai figli più valorosi e non ai
primogeniti.
33. A fianco dei Tencteri
abitano i Brutteri, che pare siano stati scacciati dai Camavi e dagli
Angrivari, che li avrebbero addirittura annientati del tutto, di concerto con
altre genti vicine. Ciò non può che essere avvenuto innanzitutto per la
discordia tra di loro, ma soprattutto per la benignità degli dei verso di noi (favore quodam erga nos deorum); i sacri
numi non ci hanno risparmiato neanche lo spettacolo della battaglia, che fu
incommensurabile spettacolo per noi: sessantamila di quelli morirono per
divertire la nostra vista e senza che perdessimo uno solo dei nostri.[60] Che rimanga tra di loro
un simile odio, se non c’è amore per noi, anche perché che cosa il fato può
procurarci di più favorevole, sovrastando una tale minaccia, che la discordia
sanguinaria trai nostri nemici?
34. Angrivari e Camavi hanno
alle spalle i Dulgubini e Casuari, oltre ad altre popolazioni; di fronte si
trovano i Frisii. Lungo il corso del Reno, queste genti si spingono fino
all’oceano, che i romani hanno tentato di esplorare, dove si pensa che si
trovino le colonne d’Ercole,[61] in quanto pare che Ercole
stesso possa essere giunto fin là. Lo stesso Druso Germanico, nel tentativo di
conoscere la massa d’acqua e la sede di Ercole, fallì lì dove l’oceano si
oppose, dopodiché si smise di esplorare, credendosi opportuno aver fede nelle
opere degli dei, più che il volerle conoscere a tutti i costi.
35. Terminata la parte
occidentale, la Germania ripiega verso nord con una curva molto segnata (ingenti flexu). [62]La prima popolazione che
si incontra sono i Cauci,[63] la quale cominciando dai
Frisii raggiunge i Catti. Fra le più nobili fra le genti germaniche, essi
occupano una regione vastissima riempiendola del tutto,[64] non esercitano saccheggi
e razzie, ma cercano sempre di evitare l’azione della violenza (sine cupiditate, sine inpotentia). Per
affermare la loro forza non usano i mezzi dell’offesa, anche se portano sempre
armi con sé e sono pronti a usarle, possedendo un esercito temibile.
36. A fianco dei Cauci e dei
Catti stanno i Cherusci. Questi un tempo buoni e giusti, oggi sono giudicati
inerti e sciocchi (inertes ac stulti),
essendo infiacchiti in una lunga pace, tanto da essere stati soggiogati dai
Catti. Ugualmente sventurati sono i Fosi, addirittura più sfortunati degli
stessi Cherusci.
37. I Cimbri sono ora popolo
piccolo, ma che rimane grande per gloria, essendo ancora intatte le vestigia
del loro passaggio sul Reno, quando erano moltitudine sterminata e temibile.
Erano passati seicentotrentanove anni dalla fondazione di Roma (113 a.C.)
quando essi compirono la loro grande impresa. Da quell’anno fino al secondo
consolato dell’imperatore Traiano[65], se si calcola questo
intervallo, si scopre che sono circa centodieci anni che i Germani sono vinti
da Roma![66]
E’ stato un periodo di alterne vittorie, ma nessun’altro nemico ci ha dato
ammonimenti come i Germani (saepius
admonuere), né i Sanniti, né i Cartaginesi, né la Spagna, né la Gallia, e
né tantomeno i Parti, perché la libertà di quel popolo è più indomabile del
Regno di Arsace.[67][68] Che altro dovremmo temere
infatti dall’Oriente, sottomesso da un Ventidio qualsiasi, se escludiamo la
sconfitta di Crasso,[69] compensata peraltro dalla
morte di Pacoro?[70]I
Germani, che imprigionarono di noi Carbone, Cassio, Aurelio Scauro, Servilio
Cepione e Mallio Massimo,[71] furono capaci di
annientare cinque armate del popolo di Roma e di sottrarre ad Augusto Varo con
le sue tre legioni;[72] colpirono Caio Mario in
Italia,[73] il Divo Giulio nella
Gallia,[74] Druso, Nerone[75] e Germanico nelle loro
stesse terre. Le recenti minacce di Caligola, si conclusero in una farsa (ludibrium). [76] Dopo un periodo di
quiete, colta l’occasione delle nostre lotte interne, ci attaccarono,[77] ma furono subito
ricacciati. Negli ultimi tempi infine furono celebrati più trionfi che vittorie
sui germani in verità (triumphati magis
quam victi sunt). [78]
38. E’ bene ora che si parli
dei Suebi, che non sono un popolo solo, come avviene per Catti e Tencteri,
occupando infatti gran parte della Germania, essendo divisi in varie
popolazioni. Loro usanza è chiudere in una crocchia in capelli su un solo lato
(obliquare crinem nodoque substringere);[79] ciò serve a distinguere
soprattutto gli schiavi dai Suebi liberi e gli stessi Suebi dal resto dei
Germani. Le altre popolazioni germaniche tengono in serbo questa usanza per i
giovani, abbandonandolo una volta adulti, mentre i Suebi continuano a tenere
unita la chioma in un nodo fino alla vecchiaia. Questa usanza è usata
soprattutto per spaventare il nemico (ut
hostium oculis) e non per pavoneggiarsi all’amore e per ragioni
futili.
39. I Senoni sono ritenuti i
più antichi e nobili fra gli Svevi. Essi praticano un rito religioso a
testimonianza di questa loro nobiltà. Si raccolgono popoli di medesima stirpe in
una foresta in periodi determinati per celebrare gli avi, oltre che per una
atavica paura (auguriis patrum et prisca
formidine sacram) e praticano un rito orrendo e brutale (barbari ritus horrenda primordia),
immolando una vita umana.[80] Il loro culto per i
boschi si manifesta anche con la prescrizione che nessuno vi si possa addentrare
se non è legato in corde, in modo da dimostrare la propria sottomissione alla
divinità. Se qualcuno cade, non è aiutato a risollevarsi e deve rigirarsi nel
terreno. Questa superstizione serve a mostrare la loro reverenza e devozione
verso un luogo da cui essi ritengono aver preso origine e nel quale alberga il
dio supremo[81]
cui tutto ubbidisce. I Senoni sono gente prospera, che vive in molte città e si
ritiene superiore agli altri popoli.
40. La piccola gente dei
Longobardi pur circondata da molte e prospere nazioni,[82] acquista sicurezza non
con la sottomissione ma con la lotta. Dopo di loro i Reudigni, gli Avioni, gli
Angli, i Varini, gli Eudosi, i Suardoni, i Nuitoni, che hanno confini naturali.[83] Di questi c’è da dire
poco, tranne che adorano la madre terra Nerto, che credono intervenga nelle
vicende umane ed è trasportata sopra un cocchio. In un’isola dell’oceano è
presente un bosco al cui interno c’è un carro votivo ricoperto di un drappo,
che è concesso toccare solo al sacerdote; solo questi riesce a percepirne la
presenza e la segue, mentre è trasportata da giovenche.[84] Il giorno del passaggio
della dea è festa grande e gli abitanti non prendono armi. Solo questa è
occasione per loro di riporre le armi, fino a che la dea non fa ritorno al
santuario. Più tardi il carro, il drappo e la statua vengono immersi in un lago
nascosto per essere purificati e si dice che gli stessi schiavi che presiedono
all’immersione vi rimangano inghiottiti. Il misterioso timore e la devota
ignoranza che derivano da questo rituale possono riguardare solo uomini
destinati a perire.
41. La prima gente che si
incontra seguendo il Danubio sono gli Ermunduri, fedeli a Roma. Sono gli unici
a praticare i commerci coi romani attraverso la provincia della Raetia e nella sua splendida colonia (Augusta Vindelicorum), e sono talmente
ben voluti che noi gli apriamo le nostre ville e le nostre case. Attraverso la
loro provincia scorre l’Elba, gran fiume un tempo, mentre oggi appena se ne
discute.[85]
42. Dopo gli Ermunduri si
trovano i Naristi e più in là si trovano Quadi e Marcomanni (genti suebiche). I
secondi, di grande valore, si acquistarono la loro sede con la forza scacciando
i Boi. Né sono da meno Naristi e Quadi. Questi ultimi e i Marcomanni furono
governati da re propri, discendenti da Maroboduo e Tudro, mentre ora sono
sottomessi a sovrani stranieri, la cui autorità viene dal riconoscimento
romano.[86] Il fatto che ricevano di
tanto in tanto oro da Roma non ne sminuisce la potenza.
43. Con i Marcomanni e Quadi
confinano Marsigni, Cotini, Osi e Buri. I primi e gli ultimi sono di cultura
simile ai Suebi. La lingua degli Osi invece è pannonica e quella dei Cotini gallica.
Inoltre questi devono sottostare ai tributi, gli Osi a quelli dei Sarmati e i
Cotini alle imposizioni dei Quadi, il che fa pensare che non siano germani. I
Cotini per di più sono costretti al ruolo di minatori (roba da criminali e
schiavi, ndr). La Suebia è divisa in due
parti dai monti; al di là di questi si trovano molte popolazioni tra cui i Lugi
che si dividono in diverse tribù: Arii, Elveconi, Manimi, Naisi, Naarvali.
Presso questi ultimi si svolge un rito sacro a cui presiede un sacerdote in
abito femminile, le cui divinità nell’interpretazione dei romani corrispondono
a Castore e Polluce.[87] Tra tutte queste tribù
sopradette gli Arii sono i più temibili.[88] Hanno forze superiori e
fanno in modo da apparire di aspetto ancora più temibile rispetto alla loro
naturale ferocia, scegliendo anche il tempo per combattere (truces insitae feritati arte ac tempore
lenocinantur). Portano scudi neri, si tingono il corpo e scelgono di venire
in battaglia durante le tenebre (atras ad
proelia noctes legunt). Come neri fantasmi (umbra feralis) essi incutono un sommo timore (terrorem inferunt), dacché nessun esercito può reggere a una tale
visione infernale (infernum adspectum).
Il primo impatto visivo in battaglia è infatti importantissimo (primi in omnibus proeliis oculi vincuntur).
44. Oltre i Lugi si trovano i
Gotini (Goti), retti da un regime monarchico, senza essere privati della
libertà. Subito dopo stanno i Rugi e i Lemoni, ossequianti al potere regio e
muniti di scudi rotondi e spade corte. In mezzo all’oceano (il Baltico)[89] stanno i Suioni (gli
Svedesi), dotati di potenti flotte. Uno solo esercita il potere presso di essi,
e per questo non hanno in spregio la ricchezza. Le armi non sono però a
disposizione di tutti, ma sono custodite da schiavi, non essendo necessario
tenere armi sempre a portata di mano: l’oceano difende dai pericoli, e la pace,
rendendo inerti, fa sì che schiere di armati in ozio trascendono facilmente.
45. Dopo i Suioni v’è un altro
mare stagnante e immobile (pigrum ac
prope inmotum)[90], che si crede circondi la
terra. [91] L’estrema luce del sole
tramontato permane qui fino al suo nuovo sorgere, così chiara da far
impallidire le stelle. Si crede che quando il sole sorge si ode una musica e si
vedano le forme dei suoi cavalli e l’aureola del capo. Qui il mondo ha termine
(illuc usque et tantum natura). Ad
oriente del mare dei Suebi si trova poi si trova poi la regione degli Esti
(Estoni), per cultura simili ai Suebi, per lingua ai Britanni. Sono devoti alla
madre degli dei (Cibele). Non adoperano armi, coltivano la terra con costanza
maggiore di quanto non facciano i Suebi per la loro indolenza, ed esplorano il
mare da cui traggono l’ambra (sucinum), che chiamano “gleso”,[92] di cui essi non conoscono
l’origine e che ci rivendono perché la nostra abbondanza ne fece oggetto di
pregio. Si tratta di una secrezione degli alberi, in origine liquida e che poi
si solidifica intrappolando spesso gli insetti. Sono i raggi vicini che con la
loro forza e intensità sciolgono quella sostanza che poi fluisce nel mare per
poi essere restituita sulle spiagge. Ai Suioni seguono i Sitoni, simili ai
primi se non per il governo affidato a una donna.[93]
46. Qui termina la Suebia. Le
genti dei Peucini, dei Finni e dei Veneti non è chiaro se appartengano ai Suebi
o ai Sarmati. I Peucini, detti Bastarni, per il loro modo di vivere e il loro
aspetto, si sono molto imbruttiti tanto da assomigliare più ai Sarmati.[94] I Veneti assomigliano a
questi, anche per il fatto di operare scorribande tra il paese dei Peucini e
quello dei Fenni.[95] Questi sono più simili
invece ai Germani. Perché sono popolo stabile e fanno perno su una esperta
fanteria. I Sarmati invece fanno più affidamento sulla cavalleria e i carri. I
Fenni sono incredibilmente selvaggi, non usano armi, sono sudici, si cibano di
erba, usano frecce con punta d’osso. Gli uomini vivono in qualche capanna di
rami, e qui trascorrono la vita. Per loro è meglio vivere in questo modo che
impegnarsi nei campi e erigere villaggi, né ritengono di dovere rispetto agli
uomini e agli dei. Tutto quanto altro si narra è oggetto di fantasia, si dice
infatti che gli Ellusii e gli Ossioni hanno il capo umano e il corpo ferino; fatti
su cui è meglio che taccia, per il fatto di non avere altre informazioni.
[1] I monti
sono i Carpazi.
[2] Cfr.
Cesare, De Bello Gallico, I, 1
Cesare, parlando dei Belgi e degli Elvezi, riferisce la loro vicinanza ai
Germani e che siano con questi in continuo conflitto; evidente è il desiderio
di T. di far apparire i germani come popolo isolato; chi andrebbe mai verso la Germania, terra dal paesaggio desolato, dal
clima rigido, pieno di tristezza, a vedersi e ad abitarsi? (quis
porro… Germaniam peteret, informem terris, asperam caelo, tristem cultu
aspectuque), si chiede T. cfr. cap. II.
[4] Idea
diversa nutriva Seneca, per il quale “tutto è risultato di mescolanze e
innesti” (permixta omnia et insiticia sunt);
cfr. Seneca, Consolatio ad Helviam,
7, 10
[5] Cfr.
Plinio, Naturalis Historia, IV, 99
[6]
Cfr. Ammiano Marcellino, Storie, XIV,
12, 43 e anche Historiae, IV, 18, 5.
M. lo definisce un clamor ascendente.
[7] Cfr.
Cesare, op. cit., II, 30 (Gallis prae magnitudine corporum suorum
brevitas nostra contemptui est); Ivi,
I, 39 (ingenti magnitudine corporum);
Tacito, Agricola, XI (namque rutilae Caledoniam habitantium comae,
magni artus Germanicam originem adseverant)
[8]
L’incapacità al lavoro era direttamente collegata alla considerazione delle
caratteristiche della sfera climatica; tale concezione era ripresa dal trattato
medico Arie, acque, luoghi (cap. 19),
nel quale si sosteneva che in assenza di cambiamenti climatici violenti fosse
impossibile che il corpo si temprasse alle fatiche.
[9] Livio, Ab urbe condita, X, 28, 3 passim
[10] Cfr. T.
Agricola, X-XI: positio caeli corporibus habitum dedit, Germania, XXIX e Ammiano Marcellino, op. cit., XXXI, 2, 4
(“abituati sin dalla nascita a sopportare geli, fame e sete”, pruinas famem sitimque, perferre ab
incunabulis absuescunt). Evidente qui la concezione deterministica per cui
è l’ambiente a influenzare la vita dell’uomo e non viceversa; medesima teoria
si ritrova in Vegezio, Epitoma rei
militaris, I, II, 4-5, dove si sostiene che “i popoli nordici, lontani
dalla calura del sole, sono sì più sconsiderati, ma in quanto più ricchi di
sangue, tuttavia, sono adattissimi agli scontri”; il discorso di Vegezio era
diretto ad ogni modo a sostenere la preferibilità del reclutamento nelle
regioni temperate, i cui popoli erano gratificati dalla giusta quantità di
sangue, “tale da permettere loro di
avere in dispregio le ferite e la morte e di essere dotate di riflessività”.
[11] Cfr.
Tacito, Annales, II, 14
[12] Cfr.
Cesare, De bello gallico, I, 48 e
Tacito, Agricola, 12
[13] Cfr.
Ibidem, VI, 23
[14] Cfr.
cap. XI e XXI
[15] Donne e
figli, poste immediatamente dietro le fila di combattenti barbari, sono “di
incitamento per la vittoria e vergogna per i vinti” nelle Historiae (IV, 18), quando si racconta della battaglia tra il
legato Luperco e Giulio Civile.
[16] Cfr.
Svetonio, Vita di Augusto, XXI, 2 e
T., Historiae, IV, 6
[17] Pitonessa
ispiratrice della rivolta del batavo Giulio Civile (69-70)
[18] Cfr.
Cesare, op. cit., VI, 17 e 21; le divinità germaniche assumono nomi romani
secondo il principio dell’interpretatio (cap.
XLIII)
[19] Cfr. T.
op. cit., V, 5, 4 in riferimento agli ebrei
[20] Tacito,
Agricola, 11; qui T. riferisce che i
britanni un tempo obbedirono ai re, dopodiché, a causa dell’emergere delle
divisioni tra fazioni principesche (principes
factionibus) sono venuti ad essere dilaniati dalle lotte intestine; inoltre
T. precisa che essi non prendono decisioni di comune accordo e che
difficilmente due città o tribù si uniscono onde difendersi da un comune
pericolo, fatto che contrasta con quanto detto a proposito dei Germani nel cap.
XIV.
[21] Cesare,
op. cit., VI, 18
[22] T., Historiae, IV, 76 e Cesare, op. cit.,
IV, 1
[23] Cesare,
op. cit., VII, 21 e T., Historiae, V,
17
[24] La probatio era anche la valutazione dell’idoneità al servizio militare del soldato
presso i romani
[25] Cfr.
Polibio, Storie, II, 17, 12 e Cesare,
op. cit., VI, 15
[27] Tacito,
Agricola, ib.
[28] Cesare
(Bellum Gallicum, VI, 21, 3) sostiene
invece che la loro vita consiste in caccie e esercizi militari. Qui Tacito
sembra imitare Sallustio (De Catilinae
coniuratione, 2), il quale dice di molti mortali essere dediti somno ciboque (essere schiavi del
ventre e del sonno).
[29] Antica
è l’avversione dei barbari per le città fortificate, vd. Sallustio, Historiae, IV, 64 (città come barrire
per schiavi, munimenta servitii) e
Ammiano Marcellino, op. cit., XVI, 2, 12 in rif. agli Alemanni (“evitavano
infatti le città come se fossero cinte di reti”) e XXXI, 2, 4 in rif. agli Unni
(“non sono mai protetti da alcun edificio, evitandoli come tombe separate dalla
vita comune”).
[30] Evidente
qui la sferza moralistica di T. e l’intento di lodare la “morigeratezza”
barbarica, contrapposta al libertinaggio del costume romano. Probabile anche
l’allusione alla confarreatio, forma
più antica e solenne di matrimonio tra patrizi, consistente nello scambio di
una focaccia di farro, che ricorda in T. l’austero scambio di doni in uso
presso i germani.
[31] A Roma in
origine vigeva la possibilità anche di uccidere la moglie fedifraga (in adulterio deprehensa) sine iudicio. Successivamente la Lex Iulia de adulteriis coercendis (16-18
d.C.) attribuiva al padre della donna la facoltà di uccidere la figlia e l’uomo
con cui aveva commesso adulterio (crimen
adulterii). Il marito poteva esercitare il “delitto d’onore”, uccidendo
l’amante, solo nel caso in cui fosse di bassa estrazione sociale, e ripudiare
la moglie, ma senza darle la morte. La lex
de maritandis ordinibus (18 d.C.) limitava
i matrimoni fra classi sociali diverse e puniva i celibi, mentre precedentemente
la Lex Papia Poppaea (9 d.C.) aveva
previsto disposizioni per incoraggiare la natalità e il matrimonio con analoghe
sanzioni per i celibi.
[32] In
realtà l’abbandono dei neonati era praticato presso i germani.
[33]
Ennesimo epifonema, con il consueto riferimento dell’altrove, nel quale vorrebbe T. che si guardasse all’esempio dei
germani per ripristinare una qualche parvenza di purezza dei prisci mores.
[34] Cfr.
Agricola, IV, 3: in huis sinu
indulgentiaque educatus (fu educato nel grembo di lei nella mitezza),
riferito al piccolo Agricola.
[35]
L’avuncolato costituisce in antropologia culturale la successione matrilineare
“in cui i diritti sulla prole spettano allo zio materno” (De Mauro).
[36] Mentre
sappiamo che in Roma erano frequenti i casi di persone prive di prole, e magari
anche ricche. Vedi Ammiano Marcellino, op. cit., XIV, 6, 22 (nec credi potest qua obsequiorum diversitate
coluntur homines sine liberi Romae, “è difficile immaginare come a Roma
siano circondati di cortesia gli uomini senza prole”); T., Historiae, I, 73; T. Annales,
XIII, 53.
[37] La pena
pecuniaria per l’omicidio (guidrigildo)
era praticata dagli antichi popoli germanici; i Longobardi la fissarono nell’Editto di Rotari (643).
[38] Cfr.
Cesare, op. cit., VI, 23
[39] Cfr.
Cesare, op. cit., VI, 21: promiscue in
fluminibus perluuntur.
[40] Vd. T.,
Historiae, IV, 14; la rivolta batava
di Giulio Civile viene pianificata durante un banchetto, per gli stessi motivi
avanzati da T. (ubi nocte ac laetitia
incaluisse videt).
[41] Cesare
(op. cit., IV, 13) attribuisce invece ai germani dolum atque insidias, perfidia et simulatione; Valleio Patercolo (Storia romana, II, 118) li definisce
invece “barbari e selvaggi, ma astutissimi, genia nata per mentire” (in summa feritate versutissimi natumque
mendacio genus).
[42] Il topos sembra risalire molto addietro,
trovandosi in Iliade, IX, 70 con riferimento ai persiani e Erodoto, Storie, I, 113.
[43] Diffusa
nell’antichità in Mesopotamia e Egitto, ebbe scarso seguito tra greci e romani,
che vi preferirono il vino; ai tempi di T. si tratta di una birra ancora priva
di luppolo, introdotto nei birrifici solo alla metà del XIII secolo.
[44] Cfr.
Ammiano Marcellino, op.cit., XV, 12, 4: vini
avidum genus, in riferimento ai Galli.
[45] Cfr.
Sallustio, op.cit., 84 in riferimento ai Numidi.
[46]
L’ultimo passo è ritenuto da alcuni filologi un’atetesi, essendo sospettato di
essere l’aggiunta spuria di un commentatore romano.
[47]
L’intento polemico contro il ruolo dei liberti nella società romana è patente;
T. probabilmente intende porre l’attenzione anche sull’influsso che essi
esercitavano a corte, si pensi al ruolo che ricoprirono presso la corte di
Claudio. Cfr. Svetonio, Vita di Claudio,
28, l’amore incontrollato verso i numerosi liberti; Plinio, Panegirico, 88, 1-3: plerique principes … libertorum erant servi …
praecipuum esse indicium non magni principis magnos libertos; Agricola, XIX, 3: nihil per libertos servosque publicae rei.
[48] Cfr.
Cesare, op cit, VI, 22, 2: “i magistrati e i capi ogni anno assegnano a loro
giudizio alle stirpi, ai gruppi di consanguinei e alle associazioni d’uomini un
pezzo di terra”.
[50] Presso
i romani i funerali, specie degli aristocratici, erano molto più sfarzosi; si
veda la celebre descrizione in Polibio, VI, 53. Cfr. Cesare, op. cit, VI, 19 (funera sunt pro cultu Gallorum magnifica et
somptuosa).
[51] In
realtà si sa oggi che quelli che i romani osservavano in Germania erano
insediamenti risalenti ad antichi stanziamenti in quel territorio dei Celti
(antenati dei Galli), che vi transitarono in tempi più remoti.
[52] Stesso
giudizio in Agricola, 11 in rif. ai
Galli: mox segnitia cum otio intravit,
“accanto al valore persero anche la libertà”.
[53] Riferimento
al sistema di tipo “egemonico-clientelare” in atto nell’Alto-impero, fondato
sulla fedeltà e l’asservimento delle popolazioni limitanee per mezzo della
“persuasione armata”; cfr. Edward N. Luttwak, The Great Strategy of the Roman Empire.
[54] Il
riferimento è qui alle recenti imprese di Domiziano, opportunamente stornate
per mezzo di una circonlocuzione.
[55] Chiaro
indizio della concezione deterministica di Tacito riguardo al rapporto tra
l’ambiente e l’uomo ivi inserito.
[56] Incerto
se con ciò ci si riferisca a un toponimo locale oppure se tale espressione
significhi “agri che pagano la decima a Roma”, pur non conoscendosi alcun
tributo in Roma antica noto come “decumae”.
[57] Così Giulio
Civile (Historiae, IV, 61), dopo il
massacro delle legioni romane.
[58] Come
ogni atto di natura antropologica, che di per se stesso produce scarti, fisici
e sociali (in questo caso gli ignavis et
imbellibus), la pratica del “taglio” (come quello del prepuzio presso molte
popolazioni o qualsiasi altra forma esteriore) costituisce un rito di
iniziazione o di passaggio a una fase successiva dell’esistenza individuale, in
questo caso la transizione all’età adulta.
[59] Cfr. De Bello Gallico, IV, 1 e 12.
[60] Un tale
compiacimento si legge anche in Annales,
XIII, 56 per la triste sorte degli Ampsivari.
[61] Gli
antichi credevano nell’esistenza delle colonne d’Ercole (Herculis columnas) anche in altri luoghi oltre lo stretto di
Gibilterra (nel Mar Rosso, nel Ponto ecc).
[62] Ingenti flexu dovrebbe essere
identificabile con la penisola dello Jutland.
[63]
Sconfitti da Druso nel 12 d.C.
[64] Valleio
Patercolo, Storia romana, II, 106
[65] Cade il
1° gennaio 98, che quindi costituisce il terminus
post quem per la datazione della Germania.
[66] Trai
recenti trionfi, anche se T. non vi fa riferimento qui, vanno ascritti anche
quelli di Caligola, Domiziano e Druso.
[67]
Arsacide era la dinastia partica a quel tempo; tutti i sovrani parti
conservavano l’appellativo di Arsace,
equivalente ad Augusto.
[68] La libertas è eretta qui da T. a elemento
costitutivo di un popolo, che ne determina l’operato e le gesta più ancora
delle iniziative dei singoli, come se i germani fossero un tutto organico,
mosso in funzione di tale spinta ideale. Sembra esserci una correlazione in T.
tra struttura sociale e destino di un popolo e la sua indole connaturata. Una
tale concezione, doveva apparire tanto più sconvolgente, quanto più si faceva
strada la convinzione che i Romani, al pari dei Parti, risultavano soggiogati a
un potere autocratico e sempre più assoluto.
[69] A Carre
nel 53 a.C.
[70] Pacoro,
figlio di Orode, fu fatto uccidere da Ventidio Basso, generale cesariano, nel
38 a.C. Il giudizio sprezzante per Ventidio si deve alla sua origine “plebea”. Pare
fosse un mulattiere in origine.
[71] Tutti
sconfitti dai Cimbri e Teutoni; la più pesante sconfitta fu quella di Mallio
Massimo e Servilio Cepione nel 105 a.C. presso Orange.
[72] La terribile
sconfitta di Teutoburgo (9 d.C.) ai danni delle legioni di Varo da parte di una
coalizione di popoli germanici guidati dall’ex ausiliario Arminio. All’indomani
del massacro pare che Augusto avesse commentato tra il risentimento e la
disperazione: “Quintili Vare legiones redde!”
(Cfr. Svetonio, Vita di Augusto, 23).
[73] Ai
Campi Raudii nel 101 a.C.
[74] Contro Ariovisto
nel 58 a.C. e Usipeti e Tencteri nel 55.
[75] Intende
Tiberio (Tiberius Claudius Nero).
[76] Il
giudizio sulla spedizione di Caligola è duro anche altrove, soprattutto presso
storici di alto rango, come Tacito (Historiae,
IV, 15) e Svetonio (Vita di Caligola,
45, 47), assecondando il pregiudizio (senatoriale?) contro un imperatore su cui
si addensarono sin da subito le ombre della “leggenda nera”, come è stato per
Nerone e Domiziano, che infatti Tacito non perde occasione di dileggiare.
[77] Fa
riferimento al periodo che seguì la morte di Nerone con l’anarchia che ne
derivò (anno dei quattro imperatori), durante la quale Giulio Civile si rivoltò
distruggendo le forze romane a Castra
Vetera.
[78] La
spedizione di Domiziano nell’83 sui Catti, descritta da T. nell’Agricola (XXXIX) come una farsa,
smentito però da Frontino (Strategemata,
II, 11). Ancora qui è evidente il pregiudizio di una storiografia
filo-senatoria ostile agli imperatori che ne conculcarono le prerogative.
[79] Il nodo
sulla tempia destra è testimoniato anche da Seneca (De ira, 3, 26; Epistolae,
124, 22), Marziale (Epigrammata, 3,
9), Giovenale (XIII, 164) e Ammiano (XVI, 12, 24, in relazione agli Alemanni),
oltreché in numerose fonti iconografiche, tra cui la Colonna Traiana, e ovviamente
essendo stato anche riscontrato in numerosi teschi di salme di cui si sia
conservata la chioma.
[80] Cfr.
cap. IX.
[81] Il dio
Wotan, associato a Marte.
[82] Qui T.
sembra contraddirsi perché dal momento che i Longobardi erano circondati dai
Cauci e i Cherusci, che lo stesso autore riferisce inetti alla guerra e
addirittura i secondi dice essere sottomessi ai Catti, non si capisce come
potessero essere in mezzo a nazioni fiorenti.
[83] Tutte
popolazioni su cui T. non possiede informazioni e che si limita a elencare.
Essi abitavano lo Schleswig-Holstein e lo Jutland.
[84]
Evidente l’analogia col culto di Cibele, quando nel giorno della lavatio (27 marzo) la statua della
divinità era trasportata presso un affluente del Tevere, l’Almone, venendo
trainata da buoi per essere purificata. La lavatio
era propedeutica ai Megalesia, la
festa della Magna Mater.
[85] Ancora
una volta tutto il romanticismo del discorso tacitiano, con il continuo
raffronto trai bei tempi antichi, la sanità
barbara e la corruzione moderna.
[86] I
Marcomanni furono sconfitti da Druso nel 9 a.C. e al tempo di T. costituivano
un regno cliente. Sotto Maroboduo avevano costituito uno solido stato confederato,
che però fu abbattuto da Arminio; Maroboduo fu quindi accolto da Tiberio, che
ne lodò la fama, e ospitato a Ravenna fino alla sua morte con la minaccia di
rimetterlo sul trono qualora gli Svevi avessero provocato oltremodo i romani
(cfr. Annales, II, 63). Nel 167 sotto
Marco Aurelio invasero il limes
danubiano, ma furono respinti.
[87] E’ il
meccanismo della Interpretatione romana:
i romani erano convinti che le divinità delle religioni straniere fossero in
tutto simili alle loro e che da queste si distinguessero per il solo nome; si
riconosceva dunque nei numina stranieri
le proprie divinità, tanto da associarle a quelle romane e farle entrare nel
proprio pantheon.
[88] Sono
stati associati ai Berserker,
guerrieri scandinavi che avevano fatto giuramento di fedeltà al dio norreno
Odino, e che scendevano in battaglia a in preda a trance sciamanica. Forse
invasati a seguito di qualche rituale religioso, essendo legati insieme da
culti comuni. Figure però che la leggenda ha reso opache, al punto da non
poterle decifrare completamente.
[89] Si
credeva che la Svezia fosse un’isola in mezzo all’oceano, ovvero il Mar Baltico.
[90] Il Mar
glaciale Artico.
[91] T.
credeva in una terra piatta, discoide, circondata dall’oceano. Nelle regioni
che descrive si può osservare Helios, su un carro trainato da pariglie di
cavalli, con il capo cinto da un nimbo luminoso (iconografia tradizionale di
Elio); la vicinanza del disco del sole impedisce l’alternarsi della notte
(provocata dall’ombra delle montagne, cfr. Agricola,
12) e comporta il permanere della luce fino al suo nuovo sorgere; il sole
troppo vicino inoltre provoca un calore eccessivo che produce la secrezione
dell’ambra di cui parla in seguito. In sua prossimità, si ode poi lo sfrigolio
(quasi musicale) nel procedere del tramonto, come di un ferro incandescente. Cfr.
Seneca il Vecchio, Suasoria, I, 1.
[92] Grande
era la richiesta di questo materiale presso le élite romane. La rotta del commercio era la “via dell’ambra” che
dal Baltico tagliava l’Europa orientale per giungere nell’Impero e sboccare nell’Adriatico,
ma vi erano anche strade alternative che conducevano ai Balcani o al Mar Nero.
[93] La
forma peggiore di dominio era quella del dispotismo femminile; col procedere
verso frontiere sconosciute i regimi di governo degradano verso la tirannia; si
pensi al ricorso al termine regina in
Orazio (Odi, I 37, in quella dedicata
alla vittoria di Azio) nel rivolgersi a Cleopatra.
[94] I
Bastarni, di cui erano parte i Peucini, erano di origine sia germanica, sia
sarmata. Furono battuti sotto Augusto da Marco Vinicio.
[95] I Fenni
abitavano sulla costa del Baltico, antenati dei Finnici (odierni Finlandesi).
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