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giovedì 14 maggio 2020

Che cos’è il feudalesimo?


Che cos’è il feudalesimo?

È l’”insieme delle istituzioni feudo-vassallatiche che erano obblighi di obbedienza e di servizio da parte di un uomo libero chiamato vassallo, verso un altro uomo libero chiamato signore e obblighi di protezione e di mantenimento da parte del signore verso il vassallo. La concessione  consisteva in un beneficio che veniva dato in godimento precario[1]”.


Vassallo che si sottomette al suo signore tramite l'atto dell'immissione delle mani

Origini

Il sistema vassallatico ha origine nel clima di insicurezza della Francia merovingica (VI-VII sec). Si vennero a creare sempre più spesso in quel tempo delle clientele armate in cui alcuni uomini si rendevano soggetti ad altri (protettori) tramite il meccanismo dell’accomandazione (erano detti per questo ingenui in obsequio).
L’antecedente di questo rapporto e di queste clientele armate sono i bucellarii, che erano guerrieri al servizio di capi barbati attivi nel V secolo. Tacito (Germania, 13) parla di una tendenza dei capi germanici a circondarsi di clientele armate (il comitatus). Altro esempio era la trustis franca, che sembra corrispondere – scrive Ganshof – al comitatus cioè al seguito di compagni armati.
In età merovingica il termine vassus (dal celtico gwas, servitore) designava il servo, non ancora il soggetto libero sottomesso al signore.

L’accomandazione

Con i carolingi si istituisce l'usanza di sostituire la donazione di terre, largamente praticata presso i merovingi, con la cessione di fondi non in proprietà ma in uso. Questo fenomeno è all'origine del sistema feudale. 
L’accomandazione (commendatio[2]) consisteva nell’atto con cui un uomo libero entrava nelle dipendenze di un altro uomo libero ed era il contratto con cui si istituiva il rapporto vassallatico. Il contratto di accomandazione si stipulava in forma verbale e secondo un preciso rituale. Esso consisteva di una narratio, di un dispositivo e di una clausola sanzionatoria in caso di violazione del patto. Il contratto per come ci è noto ad es. nel formulario di Tours, era di tipo sinallagmatico, cioè presupponeva lo scambio di qualcosa tra le parti contraenti. Il contratto terminava con la morte dell’accomandato. Dal formulario di Marcolfo si evince forse che tale contratto avveniva tramite un giuramento che includeva il tocco della mano del signore. Nella formula inclusa nel formulario di Tours è chiaro che esso appariva un contratto quadro che poteva applicarsi in situazioni diverse.
L’accomandazione poteva includere la concessione di un beneficio, non solo la sottomissione di un uomo al signore in qualità di servo. Tale beneficio consisteva nello sfruttamento di terra finalizzata al mantenimento dell’accomandato. Il signore poteva anche concedere la terra in tenure (godimento) oppure in piena proprietà. Erano considerate tenure quelle frazioni di grandi proprietà, di villae, chiamate mansi, che non erano sfruttate direttamente dal proprietario, ma coltivate tramite coloni. Il beneficio concesso in tenure da parte del proprietario al tenancier poteva essere a titolo oneroso, modicamente oneroso o gratuito. Esso era concesso in precarium, ovvero in usufrutto (la precaria era il contratto di usufrutto). La tenure poteva essere un tipo specifico di beneficio, finalizzato a procurare al vassallo la possibilità di mantenersi e di metterlo nelle condizioni di servire il  suo signore. Il termine beneficium rimane usato nel X e XI secolo, venendo sostituito poi dal più comune termine “feodum” o “feudum”, cioè feudo, che compare in Borgogna alla fine del IX secolo.  Feudo, dal franco *fehu-od (gregge+bene), indicava inizialmente il bene mobile, ovvero il bestiame, di alto valore a significare il mantenimento necessario per il vassallo. Successivamente passò ad indicare un bene dato in beneficio al vassallo. L’uso del termine si accentua nell’XI secolo fino a sostituirsi a quello di beneficio[3].
Il gesto che definiva il rapporto vassallatico feudale, ovvero l’accomandazione, era l’immissione delle mani (immixio manum) del vassallo tra quelle del signore. Questo gesto era indispensabile perché potesse prodursi l’accomandazione che rimaneva comunque un contratto quadro che poteva dar vita a situazioni molto diverse.
Il procedimento di consegna del beneficio al vassallo invece doveva avvenire anch’esso tramite un rituale. Come nella tradizione del diritto germanico, la cerimonia di concessione del beneficio doveva realizzarsi mediante un rituale di traditio che consisteva nella consegna fisica di un oggetto al vassallo. L’atto si svolgeva invece in pubblico oralmente.

La fusione tra vassallaggio e beneficio

Nell’VIII secolo si parla ormai - è bene ricordare - di “beneficium”, termine che entra nel lessico vassallatico -feudale. Esso era concesso (come abbiamo visto poteva essere un lotto di terra) in contropartita al servizio prestato, spesso a carattere militare. La fusione tra il beneficio e il rapporto di tipo vassallatico, fino ad allora indipendenti l’una dall’altra, si compie solo in età carolingia. Quest’ultima poi va divisa tra l’età di Carlo Martello, Carlomanno e Pipino e l’età di Carlo Magno.
Le furibonde lotte del primo periodo carolingio (fino all’incoronazione di Pipino III) portarono ad una moltiplicazione del fenomeno della sottomissione vassallatica, con la concessione di terre provenienti dal patrimonio personale dei carolingi o sottratte al patrimonio ecclesiastico in cambio di assistenza militare da parte dei vassalli. Formalmente l’occupante avrebbe dovuto pagare alla Chiesa un censo, ma di fatto esso consisteva nel servizio prestato al feudatario. Pipino introdusse la compensazione dell’esproprio delle terre con delle indennità da versare alla Chiesa da parte del vassallo. La creazione di queste grandi clientele consentiva di creare sotto-clientele a livelli inferiori, cioè rapporti tra vassalli e retro-vassalli (valvassori), tanto che la condizione di vassallo in questo periodo inizia ad assumere un aspetto di onorevolezza rispetto all’epoca precedente, specie merovingica, in cui era considerata una mera sottomissione servile.
Il termine vassallus risale all’VIII secolo. Esso nasce come doppione del termine vassus, che abbiamo detto essere derivato dal celtico gwas, ovvero servitore. Altro termine usato per indicare la figura del vassallo era quello di miles, ad indicare il carattere militare del rapporto di subordinazione, oppure quella di homo, con significato tecnico di vassallo.

Il consolidamento del rapporto vassallatico nell’epoca di Carlo Magno

Il rapporto vassallatico-beneficiario va incontro a una grande diffusione durante tutta la seconda metà dell’VIII secolo e nel secolo successivo. Era in particolare la grande proprietà a prestarsi alla moltiplicazione delle cariche vassallatiche e alla distribuzione dei benefici. In Italia venne introdotto proprio in quest’epoca andando a sovrapporsi alla figura del gasindus longobardo. La diffusione del vassallaggio andava di pari passo con la diffusione del sottovassallaggio o retrovassallaggio; i vassalli concedevano frazioni di proprie terre (mansi) o allodi a uomini a loro volta propri vassalli.
Carlo Magno, e gli altri carolingi prima di lui, pensarono bene di rinforzare tramite la moltiplicazione dell’istituto la fedeltà dovuta a loro dai propri vassalli e consolidare così la loro autorità. Esistevano due tipologie di vassalli: i vassalli diretti dei re, detti dominici, e i vassalli di altri vassalli.
I vassalli dominici prestavano giuramento nelle mani dei missi dominici, che erano gli inviati speciali del re carolingio e poi imperatore Carlo Magno presso le aree comitali. Essi potevano essere “cum beneficio”, quindi provvedevano da sé al proprio mantenimento, o “sine beneficio”, in questo caso dipendevano in tutto e per tutto dal sostentamento del proprio signore. I vassalli dominici con beneficio erano superiori, a livello di prestigio e di importanza, a quelli privi di beneficio e alle semplici dipendenze del signore presso il proprio castello (che erano chiamati pauperiores vassos, cioè vassalli poveri). I carolingi si servirono dei vassi dominici per meglio controllare i diversi stati sotto la loro dominazione e crearono in tal modo numerose colonie militari e gruppi di uomini di fiducia distribuiti geograficamente in tutto l’impero.
I vassalli di altri signori, ovvero di conti, vescovi e abati, erano di rango sociale diversificato (potevano essere anche semi-liberi o servi), non solo di condizione ingenuile (cioè libera). Anch’essi si dividevano in vassalli con e senza beneficio. Qualunque fosse la loro condizione erano molto più ricchi di qualsiasi uomo da loro dipendente. Infatti, il retro-vassallo, pur formalmente di condizione servile, godeva di una considerazione sociale ragguardevole[4]. Tali vassalli prestavano giuramento nelle mani del conte.

Il giuramento di fedeltà


Scena di investitura, ambone della Cattedrale di Bitonto (1229)

A partire dalla seconda metà dell’VIII secolo il giuramento di fedeltà diventa parte del rituale del patto vassallatico, venendo accostato a quello di accomandazione. Il giuramento, oltre a comportare il richiamo alla divinità, implicava anche il toccare un oggetto sacro come una reliquia. Il rituale venne presto così ad assumere un carattere sacrale e divino e si accompagnava a quello di frapposizione delle mani in quelle del signore, a significare il carattere di alienazione della libertà proprio dell’accordo. Il giuramento comportava naturalmente l’alienazione della propria libertà, che fino a quel momento si conservava intatta, a beneficio di un’altra figura, quella del signore. Esso veniva così ad assumere un carattere peculiare, significando la distinzione dell’accomandazione “ingenuile” da quella di condizione servile, che destinava gli individui a compiere servizi poco onorevoli. Una conferma di questa tesi parrebbe venire dal commento di Paolo Diacono alla regola di San Benedetto.
Va detto che il rapporto vassallatico, benché un rapporto di sottomissione, veniva liberamente stipulato tra le parti. Il contratto era concluso liberamente anche se limitati erano i casi di scioglimento del vincolo vassallatico, specie legati a specifiche e gravi fattispecie di violazioni da parte del signore. C’era inoltre la proibizione di abbandonare il proprio signore senza assenso dello stesso. Gli impegni vassallatici terminavano con la morte del signore o del vassallo. Sarà solo con Ludovico il Pio (816) che si istituirà la possibilità di scioglimento del vincolo di fedeltà per parte del vassallo, fino a quel momento solo in potere del re.

Il rapporto vassallatico sotto Carlo Magno

Durante l’epoca di Carlo magno il rapporto vassallatico è un rapporto di tipo prettamente militare. Ormai in quest’epoca è apertamente indicato col termine di “servitium”, che aveva perso gran parte del suo connotato negativo. Il vassallo veniva a subire una vera e propria dominazione da parte del suo signore, ma ciò non toglie che egli potesse, in quanto uomo libero, ricorrere ai tribunali comitali in caso di violazioni o di particolari conculcamenti a suo danno esercitati dal signore o di sue palesi violazioni nel rapporto col proprio feudatario. Il vassallo del signore dipende tribunale comitale, ovvero dal mallus, a meno di essere vassallo del re; in questo caso il vassus dominicus poteva essere giudicabile unicamente dal tribunale palatino che aveva sede presso il palazzo dell’imperatore. La concezione del vassallaggio presso i carolingi rimase sostanzialmente di tipo negativo, essendo consistente nel divieto a fare del male e a non nuocere al proprio signore.
Anche se i vassalli sine beneficio erano direttamente mantenuti dal re vivendo presso il palazzo regio, si tendeva comunque sempre a correggere questa posizione concedendo un beneficio al vassallo e accasandolo. Tra l’VIII e il IX secolo è diffusa sempre più questa tendenza a concedere benefici anche ai vassalli che si erano accomandati senza beneficio.
Il beneficio del vassallo poteva consistere in un beneficio ecclesiastico, cioè il diritto di percepire censi da parte della chiesa collegati di solito a un incarico ecclesiastico, tenure (in godimento precario), ville (proprietà fondiarie), oppure mansi (lotti di terra). I benefici dei vassalli reali corrispondevano a una trentina di mansi, ma potevano superare di molto questo numero. Il beneficio ecclesiastico poteva consistere nel conferimento della dignità di abate, quindi nella concessione di un monastero ad un laico o a un religioso. Va da sé che spesso i vassalli tendevano a interpretare il rapporto feudale che avveniva con conferimento di un beneficio non come sottomissione, ma come proprietà esclusiva sul bene concesso in beneficio. Frequenti erano i casi di usurpazioni. La pratica dell’usurpazione di beni ecclesiastici che venivano distribuiti in beneficio ai vassalli o della richiesta a carico degli abati di concedere proprietà in beneficio a guerrieri che dovevano poi porsi al servizio del re, divenne molto frequente nel IX secolo.
Lo stretto rapporto tra vassallaggio e beneficio è attestato già sotto i primi carolingi ed è comunque presente anche dopo con Carlo Magno. In quest’epoca la concessione del beneficio è subordinata all’ingresso nel sistema vassallatico feudale. Del resto, il vincolo feudale vita natural durante si rifletteva nella durata della connessione del beneficio, in quanto alla morte di una delle parti cessava anche la concessione beneficiaria. Dopo la morte del signore di solito si tendeva a ribadire il rapporto feudale con la consegna al signore e poi la riassegnazione del beneficio, anche se il signore non era tenuto a riconcedere il medesimo beneficio. Insomma, pare che vi fosse un legame vincolato tra i due istituti. La perdita del beneficio costituiva pena di infedeltà per il vassallo. Non va dimenticato inoltre che i due istituti potevano mantenersi separati e un vassallo poteva ricevere delle terre o un qualsiasi beneficio al di fuori di quelli concessi dal signore, oppure essere vassallo senza per forza ricevere benefici.

La tendenza all’ereditarietà del beneficio

Col tempo però il beneficio iniziò a tramutarsi da concessione vincolata al legame di fedeltà, a mero possedimento personale del beneficiario. La sottrazione immotivata del beneficio ad esempio doveva comportare comunque un contro cambio con altre terre. Col passare del tempo il potere di poter disporre della proprietà data in beneficio è sempre più difficile (dal IX sec. In poi), anche se rimaneva il termine della concessione e del contratto vassallatico in coincidenza con la morte di una delle parti. Quello vassallatico non era in ogni caso un rapporto ereditario, al meno all’inizio. Tuttavia, a poco a poco si diffuse la pratica dell’ereditarietà del beneficio e del connesso rapporto feudale. Iniziò a stabilirsi che il signore, accordando un beneficio a un vassallo, garantisse al figlio che avrebbe ricevuto il beneficio stesso alla morte del padre. Questa tendenza raggiunge il proprio culmine sotto Carlo il Calvo, il quale nell’877 mentre si accingeva a intraprendere una spedizione in Italia decise in un’assemblea a Quierzy-sur-Oise (Carisium in latino) alcune misure che sarebbero state valide durante la sua assenza. Tra queste furono prese misure “soprattutto riguardo gli incarichi comitali che si sarebbero resi vacanti in seguito alla morte del titolare: fu previsto un regime provvisorio, fino a che il figlio del defunto che prende parte alla spedizione o che è ancora troppo giovane, non ‘sia da noi rivestito degli incarichi di suo padre’”. Stessa cosa, dice Carlo, doveva valere per i vassalli regi. Insomma, Carlo stabiliva che in sua assenza i figli dei signori deceduti non avrebbero potuto ereditare se non al suo rientro in Germania, stabilendo una riserva reale su una prassi che però era ormai invalsa. Carlo stabiliva questo perché un tale automatismo avrebbe fortemente ridotto il valore di fedeltà al signore contenuto nel beneficio e nel vassallaggio. Un’altra tendenza che andava affermandosi era quella alla subordinazione di uno stesso vassallo a una pluralità di signori, pratica che serviva ad avere maggiori possibilità di ereditare un maggior numero possibile di benefici.
A Quierzy quindi Carlo non ha conferito al beneficio un carattere ereditario ma ha constatato in forma ufficiale “la conformità di questo carattere con l’uso”, scrive Ganshof. Tendenza che iniziava a divenire dominanti a partire dalla seconda metà del IX secolo soprattutto in Francia occidentale (Neustria), Italia e Borgogna.

Il legame vassallatico presso i successori di Carlo Magno 

La politica perseguita dai Carolingi tendeva a cercare di supplire alla debolezza delle strutture istituzionali tramite la moltiplicazione dei legami vassallatico-feudali. Il servizio militare garantito dal rapporto feudale era ritenuto più efficace rispetto alla leva di massa e inoltre la presenza presso le assemblee giudiziarie (palatine e comitali) imposta ai vassalli rafforzava il ruolo dei tribunali e l’esercizio della giurisdizione.
Il rapporto vassallatico era parte inoltre del sistema di governo carolingio. I vassalli comitali del re ad esempio ottenevano dal re in beneficio una serie di terre e beni dalle quali potevano ricavare rendite utili non solo al loro sostentamento ma che erano funzionali all’accrescimento del loro patrimonio. La concessione del beneficio connessa all’honor, ovvero all’incarico pubblico, doveva costituire una attrattiva per l’accettazione dell’incarico di conte; l’incarico comitale pubblico era quindi conferito in aggiunta al beneficio di terre reali o secolarizzate all’interno di un complesso sistema di gestione dell’apparato istituzionale carolingio[5]. Non solo le cariche laiche erano parte integrante del sistema vassallatico di governo, ma anche quelle ecclesiastiche (vescovi e abati) erano considerate dai re franchi come poteri pubblici, tanto che anche gli ecclesiastici fungevano anzi erano a tutti gli effetti vassalli del re (con i connessi obblighi di fedeltà e servizio, ovvero “consilium et auxilium”), in quanto costretti ad accomandarsi ad esso.
La fedeltà al vassallo si trasformava spesso in ostilità contro il sovrano. Il legame tra il vassallo e i suoi sottoposti comportava, laddove fosse esplosa una guerra tra il sovrano e un proprio vassallo, l’interruzione del rapporto di fedeltà tra sovrano e i suoi sudditi diretti, i quali preferivano seguire il vassallo schierandosi contro i il re o l’imperatore. In altre parole, il sistema vassallatico, nato per rafforzare l’autorità regia, poteva tramutarsi in un fattore di debolezza del potere regio o imperiale, favorendo la parcellizzazione del potere e, tramite il medesimo meccanismo di subordinazione feudale, favorire la creazione di sottopoteri e di sorte di “enclave” esterne di fatto al regno. Il legame vassallatico finiva per avere un effetto disgregante sul potere pubblico franco e per “sottrarre un alto numero di uomini liberi all’autorità diretta dello stato”. Ciò ha contribuito, in Francia come in Italia e in Germania, all’emersione di poteri territoriali e di potentati autonomi di fatto staccati dall’autorità dei re. In senso contrario, va segnalato però anche che i vassi dominici ebbero un ruolo determinante nel contrastare le usurpazioni delle dominazioni locali durante il secolo IX, tanto in Francia quanto in Germania. La medesima coscienza del legame vassallatico ha impedito un completo disconoscimento del ruolo del re come perno centrale dello stato, contribuendo a mantenere una supremazia formale nella sua persona. Fattore di ricostruzione del potere imperiale durante l’epoca ottoniana (Ottone I, 936) fu rappresentato proprio dal legame di fedeltà vassallatico dei duchi rispetto al re.

I secoli X e XI rappresentano per il sistema feudale un’età di transizione al sistema feudale classico, che dura fino al XIII secolo, quando l’emersione degli stati territoriali spinge ai margini il ruolo dei legami vassallatici. I secoli VIII-IX sono invece quelli dello sviluppo del sistema feudale nel regno merovingico e tra i carolingi. Nell’epoca classica i legami feudali hanno cessato di essere caratteristici degli stati sorti con lo smembramento della compagine franca e si sono estesi prima all’Inghilterra (1066), poi alla Spagna in seguito alla reconquista e hanno raggiunto anche paesi di oltre mare in Siria e Palestina in seguito alle crociate e la stessa Bisanzio con la quarta crociata. Particolari connotati assunsero le istituzioni feudali con la monarchia normanna in Sicilia, quivi importate dai Normanni, mentre in Inghilterra si deve constatare il caso maggiore di successo dell’esportazione del legame vassallatico, in cui il re diventava vertice assoluto della piramide feudale.
Anche nell’età classica si perpetua più o meno lo stesso sistema feudale sorto in età carolingia, divenendo anzi l’elemento centrale dell’organizzazione istituzionale e sociale. Il vassallo veniva chiamato homo, vassallus, oppure miles fino al XII secolo, mentre il signore è generalmente chiamato senior, dominus, seigneur in francese o herr in tedesco.
L’omaggio feudale continua ad avvenire tramite il meccanismo della commendatio, che si svolgeva ritualmente o per immixio manum, a segnalare l’obbedienza e il rispetto verso il signore o tramite una dichiarazione di volontà. Questa formula è una innovazione rispetto all’epoca precedente e consiste nella pronuncia della formula “Signore, divento vostro uomo”.  La dichiarazione di volontà divenne una formula di accompagnamento al vero rito che rimaneva quello dell’immissione delle mani.
Il contratto feudale avveniva in forma orale e doveva avvenire tramite una cerimonia che includeva l’omaggio e il giuramento di fedeltà, oppure per investitura con consegna di un oggetto simbolico. I primi due avvenivano di solito presso la residenza del signore e spesso si accompagnavano al bacio (raramente del piede del signore). Il vassallo si impegnava a fornire “consilium et auxilium”, mentre il signore era obbligato alla protezione e al mantenimento del subordinato. L’omaggio era un rito di cessione della propria libertà al signore che si manifestava nell’immixio manum.

Il rituale e l’obbligo vassallatico

Dopo l’omaggio seguiva il giuramento eseguito con la mano sull’altare, sulla Bibbia o sulle reliquie stando in piedi. Entrambi come detto avvenivano presso la residenza principale del signore o nel capoluogo della signoria cui era collegato il feudo oggetto della cessione. L’osculum, ovvero il bacio del signore al vassallo segue l’omaggio e il giuramento, ma non è indispensabile alla conclusione del contratto. Raro, ma attestato, è il bacio del piede del signore. In alcuni casi, come nell’Italia del nord (lombarda) del secolo XII l’omaggio non è praticato ma si fa solo il giuramento. In alcuni casi, spesso quando le parti erano personaggi in vista succedeva che un documento fosse scritto per ricordare le circostanze; di norma il documento includeva il giuramento di fedeltà prestato in volgare e il documento dell’azione legale scritto in latino. Il contratto era sinallagmatico, cioè che comportava obblighi stringenti tra le parti; obblighi che nascono dagli atti compiuti tra i contraenti e costituiti dall’omaggio e dal giuramento. Quest’ultimo è sempre in chiave negativa, ovvero consiste nel giuramento di astenersi dal fare atti a detrimento del signore. In ciò consiste l’obbligo di fedeltà al proprio feudatario, ovvero non far nulla che possa mettere in pericolo colui al quale si ha promesso fedeltà.  
L’investitura era un’altra tipologia di rituale che portava all’infeudazione di un soggetto al suo signore: essa seguiva il giuramento e l’omaggio e consisteva nella consegna fisica di un oggetto, che materializzava o l’atto di concessione di un beneficio (in questo caso era una zolla di terra) o l’atto di sottomissione e di obbligo feudale (in questo caso si trattava di una verga). Il rituale di “svestitura” si attuava quando un feudatario riconsegnava un feudo al suo signore.
Le prestazioni del vassallo sono di fedeltà e servizio, come riporta Furberto di Chartres: l’auxilium è la ragione principale del contratto, cioè il servizio militare obbligatorio a cavallo (non sempre il vassallo era tenuto a presentarsi dotato di tutto l’armamento, ma il cavallo era la base dell’equipaggiamento). Il servizio militare si distingueva in hostis (azione armata) o expeditio e in equitatio o cavalcata. La prima era un’impresa militare condotta al fianco del signore, la seconda un semplice servizio di scorta armata. Altro servizio era quello di stagium, cioè di custodia di uno dei castelli signorili (oppure il vassallo metteva a disposizione il proprio castello a vantaggio del signore). All’inizio l’auxilium non comporta un termine temporale, né prevede alcun compenso, ma col tempo si poterono fissare dei termini massimi, sovente quaranta, oltre i quali il signore non poteva impegnare il vassallo. Alcune volte il servizio militare poteva essere sostituito dal pagamento di un censo sostitutivo (scutagium), in un primo tempo per i gradi inferiori della gerarchia feudale. L’auxilium poteva avere anche carattere pecuniario e non militare, potendo consistere nel pagamento di un riscatto; nel pagamento o fornitura dell’addobbamento del figlio primogenito del signore, nella spesa del matrimonio della figlia maggiore del signore ecc.
Altro obbligo a carico del vassallo, il consilium, consisteva nel dovere di recarsi dal signore quando questi convocava il consilium della curtis (curia), che agiva anche da tribunale signorile. L’obbligo invece del signore era quello di fornire protezione, a livello militare e patrimoniale, e mantenimento, che dipendeva dal conferimento o meno del beneficio (nel primo caso si parla di vassalli casati, nel secondo di domestici, sempre meno rari dei primi).
Normalmente un vassallo non poteva denunciare unilateralmente il contratto vassallatico a meno che il signore avesse abusato del proprio potere sul vassallo. Un vassallo può comunque rompere il contratto col signore (ciò avviene dall’XI secolo e di più a partire dal XII), andandosene a cercare un altro, a condizione di rinunciare in tutto al feudo; ciò tuttavia poteva non accadere e il vassallo diventava un ribelle andando in guerra contro il proprio signore.
L’inadempienza da parte di una delle parti del contratto era detta fellonia, a seguito della quale poteva crearsi spesso un conflitto che scaturiva in una vera guerra fra signore e vassallo. Come conseguenza della fellonia si produceva la dissoluzione del legame vassallatico. Una grave mancanza da parte del vassallo poteva provocare la confisca del feudo, che col tempo divenne sempre più inattuabile in conseguenza dell’acquisizione del principio dell’ereditarietà del feudo. In alternativa si poteva praticare il sequestro del feudo o dei beni mobili del vassallo. La sconfessione del signore da parte del vassallo era anche praticata e consisteva nell’atto di gettare la festuca, cioè nel rifiuto solenne della verga o di altro oggetto simbolo del contratto di beneficio, che comportava anche il rifiuto dell’omaggio feudale prestato.

La pluralità degli impegni vassallatici

Già alla fine del IX secolo si era affermata la prassi dell’omaggio a più signori come conseguenza della ricerca dell’ottenimento di più benefici. La pluralità degli impegni vassallatici era uno strappo alla regola del legame che prevedeva il rapporto esclusivo con un solo signore. Il vassallaggio multiplo ebbe l’effetto di disgregare e dissolvere la struttura dei rapporti feudali. In questo quadro sfaccettato vanno distinti l’omaggio ligio (ligesse), cioè il rapporto di fedeltà esclusiva a un dato signore (dominus ligius) e l’omaggio piano, cioè semplice, che aveva un carattere meno rigoroso e vincolante del primo.

Il diritto feudale dal secolo XI al secolo XIII

Il concetto di feudo subentra a quello di beneficio nell’XI secolo, venendosi a fondere come mezzo giuridico con la carica che con esso veniva trasferita. Il feudo poteva anche essere un’autorità o carica, un diritto di sfruttamento (telonei, pedaggi, prevosti, diritti di battere moneta), ma anche essere costituito da una somma di denaro a titolo retributivo o risarcitorio. Il feudo poteva anche essere il diritto di ricevere un reddito o un cespite (feudo di borsa), senza quindi avere alcuna base territoriale. Uno dei modi più sicuri per percepire un feudo di borsa era quello di ottenere una chiesa o un monastero in modo da sfruttarne le entrate economiche (decime). Tali concessioni andarono a sparire con la riforma gregoriana.  
Il termine vavassoria, terra vavassoris o vavassor indicavano tutti il retro-vassallo, oppure indicava genericamente un vassallo di basso rango (un uomo libero tenuto al servizio militare). Le vavassorie erano infatti tenure destinate al mantenimento di servi delle proprietà fondiarie, servitori, cavalieri-servi ecc. Altra tipologia particolare di feudo era il feudo oblato o retrofeudo. Esso consisteva nell’atto con cui una persona (l’ex concessionario) cedeva beni o diritti di sua proprietà ad altri soggetti (persone fisiche o enti), di solito allodi, trasformando una cessione dell’uso in cessione di proprietà, riottenendo il medesimo bene o diritto tramite acquisto, in modo di acquisirne la proprietà. Per tutto il basso medioevo fu un fondamentale strumento giuridico, attraverso cui i concessionari (i feudatari) cercarono di contemperare il carattere precario del benefico con l’esigenza di preservare l’entità del bene oggetto della concessione e di aggirare il vincolo della concessione a termine.
In termini giuridici il signore era titolare di una nuda proprietà sul bene oggetto della concessione mentre il feudatario godeva di un usufrutto sui beni. Tale usufrutto tuttavia si è col tempo trasformato da un diritto reale in proprietà effettiva del bene, in quanto il potere del signore di poter ridisporre del bene è andato scemando via via.
Dal IX secolo in Francia e Italia il beneficio a vita aveva iniziato ad assumere un carattere ereditario per linea maschile. Fu Corrado II nel 1037 a imprimere un’accelerazione al processo di ereditarietà; egli con una costituzione (la Constitutio de feudis), garantì l’ereditarietà dei feudi più piccoli, cioè quelli dei retrovassalli, della Corona. Come scrivono Tabacco e Merlo sintetizzando il processo di ereditarietà e progressiva patrimonializzazione del feudo:

“avvenne che, anziché far discendere l’assegnazione del beneficio dalla prestazione del servizio connesso alla piena fedeltà del vassallo, si finisse per conferire al benefico un carattere concettualmente primario, commisurando le prestazioni militari, dovute al senior e al miles, all’entità del beneficio assegnato; donde la possibilità che un medesimo miles giurasse fedeltà a più signori e prestasse loro servii diversi (…) nella misura un cui dai suoi vari signori aveva ricevuto benefici più o meno cospicui. E poiché il beneficio vassallatico manifestò assai presto la tendenza a divenire ereditario – per le connessioni che il vincolo personale ed economico creava di fatto tra la famiglia del signore e quella del vassallo -, esso finì per essere considerato come una parte del patrimonio del vassallo, anche se ovviamente il vassallo non ne poteva disporre con quella stessa libertà con cui disponeva delle parti del suo patrimonio aventi carattere allodiale. Il processo di patrimonializzazione del beneficio – o feudo, come sempre più frequentemente si disse – fu lento, e ancora al principio dell’XI secolo c’erano, particolarmente in Lombardia gravi contrasti in proposito fra seniores e milites: tanto che Corrado II intervenne nel 1037 a placarli con il famoso edictum de beneficiis, che garantì a tutti i membri della gerarchia vassallatica l’ereditarietà dei loro feudi”. 

L’erede doveva tuttavia chiedere di essere ammesso alla fedeltà e all’omaggio, ed era tenuto ad essere investito ufficialmente (i tre riti dovevano avvenire nuovamente per l’erede). Per poterlo ottenere talvolta l’erede doveva pagare un canone (relief) al proprietario per rilevare il feudo paterno, somma che poteva consistere un importo forfettario, oppure ammontare al corrispondente reddito di un anno del feudo.
Di norma i feudi erano indivisibili. Inoltre, il criterio della primogenitura vigente in Europa occidentale comportava che potesse ereditare le proprietà (e il feudo) solo il primogenito maschi odi una famiglia. L’inammissibilità della divisione ereditaria era dovuta alla necessità di garantire un servizio sicuro al signore. Di fatto però la patrimonializzazione del feudo comportò la fine del processo di indivisibilità del feudo stesso ed i fratelli minori iniziarono a ottenere porzioni della successione feudale del fratello maggiore senza avere però l’obbligo di fare a questo l’omaggio feudale (si parla in questo caso di successione paritaria o equitativa trai figli). Si conciliava così l’indivisibilità (dal momento che il feudo rimaneva alla stessa famiglia) con la possibilità di ereditare concessa a tutti i fratelli. Nei casi di successione di minori nei feudi si interveniva con la custodia signorile del vassallo minore, che era affidato a un procuratore o a un baiuco (custode); tale custodia poteva essere esercitata da un parente prossimo che veniva fatto pro tempore vassallo. L’ereditarietà dei feudi portò spesso al caso di successioni di feudatari donne e all’ammissione della successione femminile già dall’XI secolo. In tali casi il servizio militare doveva essere prestato da un incaricato o dal marito.
L’originaria struttura fissa e monolitica del feudalesimo andò incontro nell’età classica come si è visto a molte modificazioni. Addirittura, divennero diffuse le sub-infeudazioni, cioè i trasferimenti di feudi tra soggetti ancora in vita. Il feudo che prima non poteva essere trasferito, essendo il legame feudale un legame a vita, iniziò ad essere trasferito e anche alienato cioè venduto; in tal caso poteva rimanere un feudo oppure finiva anche per diventare un allodio. Il vassallo vendeva il feudo dietro autorizzazione del signore all’acquirente il quale lo riceveva poi in dono dal signore del vassallo. Col tempo, alla fine dell’età feudale, col ridimensionamento del ruolo del signore, scomparve sia la consegna formale del feudo, sia la procedura di investitura dell’acquirente come nuovo vassallo. Insomma, si andò incontro allo svilimento e quasi alla scomparsa dei legami vassallatici. I vassalli inoltre non furono più tenuti ad avere alcun obbligo vincolante nei confronti dei loro signori (ormai di diritto, ma non di fatto).
Si è visto come originariamente, nel IX secolo, non vi fosse un rapporto di stretta dipendenza tra vassallaggio e concessione del beneficio (i due istituti potevano essere divisi). Dal XIII secolo si stabilisce un rapporto di dipendenza tra l’omaggio e la concessione del feudo. La fedeltà del vassallo diventava legata al fatto di possedere un bene fisico. Un impegno vassallatico che non avesse alle spalle una concessione di un feudo era ritenuto nullo in quanto non si concretava nella fedeltà del vassallo. Nel XIII secolo l’elemento reale diventava essenziale per i rapporti vassallatici. L’impegnò finiva per diventare così prettamente formale, in quanto funzionale all’ottenimento della proprietà reale del feudo. La possibilità resasi disponibile di alienare il feudo faceva sì che il vassallo non fosse più legato da un vincolo con il proprio signore connesso al beneficio. Le istituzioni feudali si erano svuotate dei legami impliciti di fedeltà tra signore e vassallo che avevano rivestito in passato finendo per regolare il trasferimento di semplici terre, non più feudi (se non solo formalmente), in cui l’elemento personale del rapporto feudo-vassallatico era divenuto del tutto accessorio o era scomparso del tutto.

Il problema della giurisdizione

Fino al XIII secolo il feudatario non esercitava i diritti di giurisdizione autonomamente, in quanto vi era distinzione tra feudo e “iustitia”, inoltre per esercitare il diritto di esercitare la giurisdizione pubblica bisognava avere una concessione reale. Un conto era l’incarico comitale, che implicava il fatto di rivestire la carica comitale pubblica, un altro quella feudale. Cionondimeno la giurisdizione era in stretta connessione con i legami vassallatici, cioè la giustizia che si esercita nello stesso feudo. Successivamente le corti comitali (in cui siedono gli scabini, i giudici professionisti) si trasformano in curie, o corti, cioè in organismi nuovi che gestiscono la giustizia all’interno dei territori dei principi e signori territoriali e che dirimono adesso le controversie riguardo gli stessi vassalli e quelle riguardanti i rapporti tra questi ultimi e i sudditi. Davanti a queste corti si presta anche l’omaggio e si fanno le investiture.

La lunga fine del sistema feudale

Il diritto feudale è stata la base giuridica che ha consentito la ricostruzione del potere pubblico tra il XIII e il XV secolo, ma già questi legami vassallatici avevano avuto un loro ruolo nel X secolo in epoca carolingia e ottoniana per tenere insiemla compagine reale franca e quella imperiale germanica. Il diritto feudale è stato il solo che ha consentito in Francia di mantenere il potere pubblico in capo ai re tra il secolo IX e XII.
I diritti feudali sono stati la chiave, a partire dal XIII secolo, in un’epoca di tramonto del feudalesimo classico (in cui l’omaggio e il servizio non erano diventati altro che atti formali), con cui i sovrani francesi a partire da Filippo Augusto, ricostruirono il potere dell’autorità monarchica nei territori reali. I re rivendicarono in base al diritto feudale la supremazia del potere monarchico sui vassalli diretti e a questi retrostanti. Le istituzioni feudali hanno rappresentato alla fine del medioevo un mezzo per creare legami tra uno stato territoriale nascente, e un territorio che questo stato cercava di annettere a sé.
In Germania così come avevano fatto già gli ottoni, anche Federico barbarossa tentò di riorganizzare lo stato sulla base dei legami feudo-vassallatici. Con la sottomissione al potere dell’imperatore, si creò un nuovo ordine di principi e inoltre si stabilì una diversa e nuova gerarchia feudale. In cambio i principi (duchi e marchesi) ottennero in concessione vasti feudi di cui rimaneva titolare però la corona.
In Inghilterra invece il feudalesimo continentale introdotto da Guglielmo il conquistatore non ebbe nulla a che fare con quello già presente in Inghilterra prima della sua venuta (thegnage). Il potere regio sotto i re normanni rimaneva interamente titolare di tutti i territori della corona e l’allodio fu bandito. Gli household knights erano vassalli mantenuti dal re di cui egli poteva disporre e che non erano casati (erano sprovvisti di feudo). Si può concludere che se in Francia e in Inghilterra i diritti feudali sono stati sfruttati a tutto vantaggio della monarchia dai re, in Germania le condizioni politiche hanno impedito, pur sulla base di uguali presupposti formali fondati sul rispetto del diritto vassallatico, una evoluzione in senso monarchico e la nascita di una monarchia nazionale paragonabile alle prime due.


Bibliografia

-Francois Louis Ganshof, Che cos'è il feudalesimo?, Torino, Einaudi 1989
-Giovanni Tabacco, Grado G. Merlo, Medioevo, Il Mulino, Bologna 1981, 1989
-Mario Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Il Mulino, Bologna 1994
-March Bloch, La società feudale, Einaudi, Torino 1949



[1] Precario è definito il comodato del quale non è stato stabilito il termine di scadenza e che prevede quindi che il bene dato in godimento possa essere richiesto in restituzione in qualsiasi momento.
[2] Era usata anche l’espressione, in antico, di “se commendare”, cioè con il significato di porsi sotto il patrocinio di un altro uomo, vd. Cesare, De bello gallico, IV, 27, 7.
[3] Va detto che di fianco a beneficium vennero usati altri termini per indicare il feudo con il significato di tenure: casamentum, tenementum, tenura, liberum tenementum.
[4] Non esisteva alcun rapporto o vincolo tra il signore e un retrovassallo, che dipendeva in tutto dal proprio vassallo diretto.
[5] L’assimilazione tra honor e beneficio appare compiuta nelle disposizioni assunte da Carlo il Calvo a Quierzy nell’877. Le decisioni prese in questa sede riguardano anche gli honores dei conti, non solo i loro feudi. Più tardi il termine honor passerà ad indicare anche il termine feudo, ad indicare una confusione tra concessione feudale e carica pubblica connessa alla concessione.

lunedì 27 aprile 2020

Lo Scisma d’Oriente del 1054


Lo Scisma d’Oriente del 1054



Il prevalere delle fazioni più estremiste in seno alle Chiese romana e costantinopolitana determinò la rottura delle relazioni tra il patriarcato bizantino e il papato nel 1054, così come ad agire nel senso della separazione furono le manovre del patriarca Michele Cerulario, subentrato ad Alessio nel 1043. I tentativi operati da alcuni storici di ricondurre la rottura dei rapporti ecclesiastici agli eventi successivi alla scomunica di Cerulario del 1054 (in particolare al sacco crociato del 1204), piuttosto che alle infruttuose trattative sull’Unione che portarono alle reciproche scomuniche di Cerulario e Leone IX, appaiono inesatti, in quanto lo scisma fra Roma e Bisanzio risulta già compiuto alla metà dell’XI secolo, come dimostrato proprio dalle trattative per l’Unione in questa fase.



Michele Cerulario, miniatura del XII secolo



Il retroterra storico e politico della frattura fra Roma e Bisanzio (nota come Scisma d’Oriente) è quello della rivolta di Melo da Bari contro la dominazione bizantina (1009), appoggiato dai Longobardi e successivamente dai Normanni. Al centro c’era il conflitto più generale che animava il contesto geopolitico del Mezzogiorno e i possedimenti bizantini in Puglia e Campania, contesi tra il IX secolo e l’XI secolo fra tre potenze: il papato, l’Impero di Germania e quello di Bisanzio. Una quarta potenza, quella musulmana, ruotava attorno a questo scenario, anche se la sua presenza territoriale nel Sud Italia era divenuta ormai irrilevante nell’XI secolo (se si esclude la Sicilia, in mano alla dinastia araba dei Kalbiti, che vedrà cadere Palermo in mano normanna nel 1072). Una quinta forza, quella dei Longobardi, era ormai marginalizzata (Bari era stata un gastaldato longobardo) e ridotta all’obbedienza imperiale e pontificia, per quanto depositaria di fasce di autonomia.

Le questioni dottrinarie, al pari delle vicende politiche e belliche, ebbero un loro peso nell’aggravare lo iato religioso tra Oriente e Occidente, in particolare la questione della Processione dello Spirito Santo (vertente sul fatto se la Terza persona dello Spirito dovesse considerarsi procedente dalla prima e non insieme dalla prima e dalla seconda come nella liturgia occidentale), comunemente nota come questione del “filioque”, ma i conflitti per il potere ebbero un ruolo decisivo nel determinare la rottura, come l’appoggio del papa alla rivolta di Melo e l’avvicinamento del papato all’Impero di Germania nel contesto della lotta contro gli Arabi e i Bizantini, le due principali potenze mediterranee del tempo. 

Dalla rottura con Bisanzio in poi, sanzionata dalle bolle di scomunica emesse da Leone IX e Michele Cerulario, il papato volgerà per sempre le spalle a Bisanzio. Eppure, per secoli, i papi non avevano smesso di considerarsi parte di una compagine imperiale i cui unici depositari erano gli imperatori di Costantinopoli (dove il basileus poteva considerarsi unico legittimo successore degli imperatori romani), il cui primato era stato contestato dall’evento dell’impero di Germania (noto come Sacro Romano Impero). Roma, che fino all’VIII secolo permane bizantina, con la conquista carolingia e la successiva incoronazione di Carlo Magno a imperatore, cessò di riconoscersi nella Pars Orientis, per assegnare un nuovo ruolo all’Impero carolingio all’interno dell’Europa cristiana. Carlo Magno al tempo stesso, ricevendo l’investitura papale, rafforzava l’autorità del papa e indeboliva quella dell’Impero bizantino, a quel tempo guidato da una imperatrice donna, Irene, mentre infuriava la lotta iconoclasta.[1] Poco dopo il consumarsi dello Scisma d’Oriente, però, la lotta per le investiture avrebbe incrinato profondamente i rapporti tra papato e Impero di Germania. 

Come sottolineano Giovanni Tabacco e Grado G. Merlo, la disputa in materia disciplinare tra Roma e i patriarcati orientali concorse a determinare la rottura del 1054: «…l’anima della resistenza bizantina agli sviluppi dell’idea papale romana fu Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli, altrettanto energico propugnatore dell’autonomia ecclesiastica di fronte al potere del principe […] quanto avversario di una supremazia romana che non si mantenesse nei termini di un primato soprattutto onorifico».[2] Le più importanti sedi episcopali d’Oriente, ovvero le sedi patriarcali di Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria, difendevano infatti l’antico ordinamento pentarchico, risalente all’origine della storia cristiana e all’assetto stabilito dai primi concili, ma una direzione collegiale della Chiesa non era nelle minime intenzioni del papato. Al tempo stesso però Cerulario era sostenitore di un’autocefalia costantinopolitana che contrastava con l’aspirazione ad una monarchia universale del papato e che al tempo stesso contraddiceva la pentarchia difesa dai patriarcati orientali. 

Su un piano parallelo al conflitto di ordine disciplinare c’era la disputa sulla liturgia e la giurisdizione delle chiese dell’Italia meridionale, di non minore peso nel contesto delle lotte tra Normanni e Bizantini e tra questi ultimi e i Longobardi per il predominio e il controllo del Sud Italia. L’arrivo dei primi contingenti di uomini provenienti dalla Normandia non è chiaro se sia stato provocato da un esplicito invito rivolto dal principe di Salerno Guaimario IV, costretto a difendersi dalle incursioni saracene, ma di sicuro i primi Normanni giunti nel Mezzogiorno (250 all’inizio del XI secolo, giunti fino a 2500 alla fine del secolo) si schierarono a favore del ribelle Melo. [3] L’emigrazione normanna era funzionale ai vari interessi delle parti coinvolte nella lotta del Mezzogiorno, tanto ai Longobardi per sostenere lo scontro con Bisanzio, quanto ai ribelli capeggiati da Melo, per conseguire una emancipazione da quest’ultima, nonché al papato stesso, di cui in futuro diverranno braccio d’azione (inquadrati legalmente come vassalli del potere pontificio).[4] La rivolta di Melo, appoggiato dal principato di Salerno, favorì peraltro l’ingresso delle bande mercenarie normanne. Già tra il 1011 e il 1013 il catepano Basilio Mesardonites riusciva però a ristabilire l’ordine, riprendendo Bari e nel 1018 presso Canne le forze normanne venivano decimate.[5] L’appoggio stesso alla causa di Melo da parte del papato deve essere letto in chiave antibizantina, sul cui sfondo si pone la questione liturgica della volontà del papato di ristabilire l’autorità e giurisdizione pontificie e quindi anche la liturgia latina sul Mezzogiorno (fenomeno che nella storia del cristianesimo prende il nome di Rekatholisierung). [6]
 
Un altro campo di scontro per il controllo delle chiese e nello specifico del monopolio dell’evangelizzazione erano i Balcani e l’area slava, dove era in atto da circa due secoli il passaggio degli slavi al cristianesimo. [7] Il conflitto tra Chiesa greca e romana riguardava la conversione degli Slavi in Serbia e Macedonia, nonché in Russia (questi ultimi convertiti a partire dal X secolo). Disputato era anche il controllo della Chiesa bulgara, passata all’obbedienza costantinopolitana con la conversione di re Boris (dopo il battesimo Michele), che il patriarcato di Bisanzio affermava per questo motivo essere incontrovertibilmente sotto la propria giurisdizione. Proprio sul controllo della Chiesa bulgara si verificò il primo grande scontro tra Bisanzio e Roma quando il patriarca Fozio fece scomunicare dal sinodo di Costantinopoli papa Niccolò per le intrusioni papali nelle vicende bizantine, appellandosi al “filioque”.[8]

Il Mezzogiorno era naturalmente rivendicato anche dall’impero di Germania, dove gli imperatori dopo Ottone I rivendicarono i territori della Langobardia minor alla sovranità imperiale. Alle rivendicazioni dell’Impero si sommavano quelle del papato che, facendo leva sull’apocrifa Donatio Constantini, aspirava ad affermare il proprio dominio sui territori italici. La rottura della comunione tra le Chiese d’Oriente e Occidente va colta inoltre nel contesto più generale dello scontro proprio tra i due imperi, ovvero tra l’Impero di Germania e l’Impero bizantino. La necessità di un accordo tra papato e Impero germanico (nel 1052 Leone si incontrava con Enrico III per convincerlo a scendere in Italia contro i Normanni), risalente però a tempo addietro all’anno ufficiale della rottura dei rapporti ecclesiastici tra Oriente e Occidente, era motivata dall’esigenza di confronto, in particolare del papato, da un lato contro i Bizantini e dall’altro contro gli Arabi.

La figura di Michele Cerulario è del resto particolare e andrebbe analizzata maggiormente per capire le cause dello scisma. Essa denota un tratto di leadership e ambizione non sconosciuta ai patriarchi costantinopolitani. Nel 1040, tre anni prima di succedere al patriarcato, fu coinvolto in una congiura ordita contro l’imperatore Michele IV Paflagone (1034-1041) e sostenuta da ambienti aristocratici. Secondo Giovanni Skylitze sarebbe stato il Cerulario candidato al trono per succedere a Michele IV. [9] Con l’ascesa di Costantino IX Monomaco (1042-1055), Cerulario divenne uno dei più stretti consiglieri del basileus. Dopo la nomina a protosincello da parte di Alessio, carica che ne faceva di fatto il successore, con la morte di questi, venne elevato al patriarcato. Già dopo l’elevazione al soglio patriarcale, Michele non inaugurava la carica all’insegna dei buoni rapporti con Roma, decidendo di non inviare la lettera sinodale, con cui veniva annunciata la successione, a Benedetto IX. Lo stesso nome del papa non veniva pronunciato durante gli uffici liturgici, ma ciò avveniva già dai tempi in cui sulla cattedra patriarcale sedeva Sergio (999-1019), durante il pontificato di Giovanni XVIII. [10]

Mentre ciò accadeva sul piano dei rapporti tra patriarcati orientali e papato, ancora nei domini bizantini pugliesi il figlio del ribelle Melo (morto a Bamberga nel 1020 dove veniva solennemente tumulato nella Cattedrale per volere di un riconoscente Enrico II), Argiro, nonostante fosse stato allevato a Bisanzio dove era stato tradotto in giovane età per essere educato al costume bizantino, tornava a condurre la rivolta nel contesto di una lotta dinastica in seno all’impero. All’inizio sostenuto da Normanni e Longobardi, dopo un acuto ripensamento veniva nominato catepano, segnando la riconciliazione (per quanto temporanea) con Bisanzio dopo i falliti tentativi del generale bizantino Giorgio Maniace di riconquistare il Sud Italia con la forza. Evidente il cambio di politica maturato alla corte di Costantino IX, dove si comprese che la priorità doveva essere non combattere il ribelle Argiro, ma il crescente peso dei Normanni nella regione (invisi tanto al papato, quanto ai bizantini). I Normanni, privati del loro capo, in quanto Argiro era stato nominato dalle bande mercenarie normanne nel 1042 “principe e duca d’Italia”, si rivolsero al principe di Salerno Guaimario.[11] Argiro, nel tentativo di liquidare la questione normanna, si fece latore di un accordo tra papato, Impero di Germania (su cui regnava Enrico III) e basileus d’Oriente contro i Normanni. Di portata geniale il disegno di Argiro e di Costantino IX, che se fosse andato in porto avrebbe potuto mettere fuori gioco le fazioni “separatiste” in seno alla due Chiese, consentendo di unire gli sforzi contro i Normanni. 

Tale accordo, potendo determinare un ripristino della normalità dei rapporti tra Roma e Bisanzio, avrebbe potuto nuocere all’autonomia del patriarcato di Costantinopoli, spesso in competizione, come si è già visto, con l’imperatore bizantino. Difatti Cerulario, alla testa del partito antiromano maggioritario in Costantinopoli, prese misure volte ad aggravare i rapporti già tesi con Roma, come l’ordine di chiusura delle chiese e dei monasteri di rito latino a Costantinopoli appellandosi alla questione degli azzimi, decisa dopo aver ricevuto uno scritto del melkita Ibn Botlan.[12]

La vittoria conseguita dai Normanni a Civitate nel 1053 (18 giugno), dove trovava la disfatta una coalizione di forze comprendenti cavalieri tedeschi, conti latini (longobardi) e forze bizantine, che non riuscirono a congiungersi sul campo grazie all’estrema rapidità dell’azione normanna, scompaginava il quadro. Leone IX veniva fatto prigioniero dai Normanni (23 giugno), segnando la sconfitta completa dei progetti del papato (e di Bisanzio) di liberarsi del crescente peso delle bande di Normanni ormai infeudate nel Mezzogiorno. I Normanni sarebbero in seguito venuti a patto con il papato con la firma nel 1059 del concordato di Melfi e con il matrimonio tra Roberto il Guiscardo e Sichelgaita, figlia di Guaimario IV, imprimendo un carattere chiaramente antibizantino alla futura monarchia normanna di Sicilia. Tale accordo avrebbe comportato il passaggio degli eventuali territori strappati al potere bizantino dalla giurisdizione ecclesiale bizantina a quella romana.  

A Bisanzio la sconfitta del progetto argiriano e pontificio faceva scatenare i sostenitori di Cerulario che provocavano una violenta campagna pubblicitaria contro Roma. Nel 1053 la tensione tra Roma e Bisanzio è leggibile nella lettera inviata dall’arcivescovo Leone di Ochrida all’omologo Giovanni di Trani in cui venivano denunciati i delitti dei “latini”. Tra le accuse imputate alle chiese di rito latino l’uso del pane azimo durante la cerimonia dell’eucarestia, proibito a Bisanzio, dove si faceva ricorso al pane fermentato. [13]Il documento di Leone, trasmesso a Leone IX, suscitò una altrettanto piccata risposta del cardinale Umberto di Silvacandida, capo del partito anti-bizantino a Roma. 

Un ultimo ma fallimentare tentativo di intesa con il patriarcato venne cercato proprio da Leone IX con l’invio (nel gennaio 1054) di una delegazione a Costantinopoli, di cui facevano parte, oltre allo stesso Umberto di Silvacandida, il cancelliere Federico di Lorena e l’arcivescovo Pietro di Amalfi. Giunti nel 1054 nella capitale bizantina i delegati vennero volutamente presentati da Michele Cerulario, sempre deciso a ostacolare qualsiasi possibilità di accordo col papato, agli occhi di Costantino IX come emissari del “ribelle” Argiro. I legati, sperando in un appoggio dell’imperatore, pronto a sacrificare Cerulario per mantenere la pace con Roma, il 16 luglio 1054 scomunicarono Cerulario depositando una bolla di scomunica sull’altare di Santa Sofia. [14] C’è da notare che l’ambasceria, dopo la morte di Leone intervenuta ad aprile (poche settimane dopo la liberazione dalla prigionia), non avrebbe più dovuto avere valore, ma essa proseguì ugualmente il proprio mandato, agevolando i tentativi di Cerulario di delegittimarla. [15] Il potente patriarca per tutta risposta, suscitò un tumulto in Costantinopoli per evitare ogni contatto tra la delegazione e il basileus, minando definitivamente qualsiasi possibilità di riconciliazione. Alla scomunica della delegazione romana, a seguito del riallineamento del debole e altalenante Costantino IX sulle posizioni del patriarca, seguì naturalmente la scomunica da parte del sinodo residenziale verso i legati latini, mentre l’imperatore provvedeva a far bruciare l’anatema lasciato da Umberto da Silvacandida unitamente alla bolla di scomunica.[16]

Per quanto i tentativi di riappacificazione e contatti si siano avuti dopo il 1054, come quelli operati da Gregorio VII e Michele VII Ducas o quelli di Urbano II con Alessio I Comneno, tuttavia nessuna trattativa ebbe esito completo. Un episodio importante fu il Concilio di Bari del 1098, che vide riuniti 189 padri tra il 4 e il 10 ottobre di quell’anno. Urbano II, la cui attività iniziale a favore dell’Oriente cristiano è considerata all’origine della prima crociata, intendeva riallacciare i rapporti con l’Oriente e nel far questo trovava una convergenza di interessi con Ruggero “il Granconte”, favorevole su questo punto. Quest’ultimo, impegnato nell’opera di consolidamento dello stato normanno in Sicilia e nel Sud Italia, non nutriva ambizioni antibizantine come il predecessore Roberto il Guiscardo, desiderando chiudere la controversia per favorire il rafforzamento dei suoi domini, dove rilevante era la componente greca. [17]
 
La separazione definitiva tra Chiesa orientale e occidentale, già di fatto esistente ai tempi della contesa tra Cerulario e il partito di cui era capo Umberto, oltre ad essere indicativa di una posizione di debolezza dell’Impero di Bisanzio e al tempo stesso di una gran forza assunta dalle rispettive sedi patriarcali di Roma e Costantinopoli, costituì un evento di portata negativa per Bisanzio che così cessava di poter aspirare a un dominio universale e conseguentemente falliva nel riappropriarsi dei territori dell’Italia meridionale (nel 1071 con la conquista di Bari avveniva la cacciata dei Bizantini dal Meridione). Lo strapotere assunto dalla sede patriarcale divenne manifesto quando, alla morte di Costantino Monomaco, Cerulario si adoperò per contrastare il successore designato da Teodora (moglie di Constatino, succeduta al marito), Michele VI Stratiotico, sostenendo la sedizione delle truppe d’Asia guidate da Isacco Comneno, iniziatore della dinastia dei Comneni. Ma fu proprio l’ascesa di Isacco a segnare l’inizio del declino della potenza politica di Cerulario.





Bibliografia

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Pasquale Corsi, Bisanzio e il Mezzogiorno d’Italia. Nuovi studi, Vito Radio editore, Putignano 2012
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Giovanni Vitolo, Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione, Sansoni, Firenze, 2000
Vera Von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale. Dal IX all’XI secolo, Ecumenica editrice, Bari 1978.
Il Concilio di Bari del 1098, Atti del convegno storico internazionale e celebrazioni del IX centenario del Concilio, a cura di Salvatore Palese e Giancarlo Locatelli, Edipuglia, Bari 1999

 Note

[1] Massimo Montanari, Storia Medievale, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 62.
[2] Giovanni Tabacco, Grado G. Merlo, Medioevo, Il Mulino, Bologna 1981, 1989, ed. spec. RCS libri, Milano 2004, pp. 216-217.
[3] Hubert Houben, I Normanni, Il Mulino, Bologna 2013, p. 60.
[4] Salvatore Tramontana, Il mezzogiorno dai Normanni agli Svevi, in La storia: i grandi problemi dal Medioevo all'Età Contemporanea, a cura di Nicola Tranfaglia, Massimo Firpo, vol. II, tomo 2, “Il Medioevo”, Utet, Torino 1986, pp. 494-495.
[5] Pasquale Corsi, Bisanzio e il Mezzogiorno d’Italia. Nuovi studi, Vito Radio editore, Putignano 2012, p. 32.
[6] P. Corsi, Bisanzio e il Mezzogiorno d’Italia, cit., pp. 33, 129.
[7] Giovanni Vitolo, Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione, Sansoni, Firenze, 2000, pp. 186-188.
[8] Georg Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, Einaudi, Torino 1968, 1999, p. 211.
[9] P. Corsi, Bisanzio e il Mezzogiorno d’Italia, cit., p.  34.
[10] Cesare Alzati, La Chiesa ortodossa, in Cristianesimo, a cura di Giovanni Filoramo, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 468.
[11] Vera Von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale. Dal IX all’XI secolo, Ecumenica editrice, Bari 1978, p. 61.
[12] C. Alzati, La Chiesa ortodossa, cit., ivi.
[13] Tra gli altri motivi di contrasto fra le due chiese, già denunciati dal patriarca costantinopolitano Fozio, il digiuno quaresimale del sabato, la confermazione episcopale e il divieto di matrimonio dei preti.
[14] P. Corsi, Bisanzio e il Mezzogiorno d’Italia, cit., p. 36. L’imperatore era sinceramente disposto a un accordo in extremis con il papato, cosciente del fatto che i domini bizantini in Italia versavano in uno stato disastroso, mentre la cattività del papa acuiva la minaccia normanna.  
[15] Michel Parisse, Leone IX, papa, santo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 64, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005 <http://www.treccani.it/enciclopedia/leone-ix-papa-santo_(Dizionario-Biografico)/>
[16] C. Alzati, La Chiesa ortodossa, cit., p. 469.
[17] Carmelo Capizzi, Il concilio di Bari (1098): riflessi e silenzi nella tradizione bizantina e nella storiografia orientale, in «Il Concilio di Bari del 1098», Atti del Convegno storico internazionale e celebrazioni del IX centenario del Concilio, a cura di Salvatore Palese e Giancarlo Locatelli, Edipuglia, Bari 1999, pp. 72-75.

La distruzione del Serapeo di Alessandria (391 d.C.)

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