La sfida tra realismo e egemonia liberale
In questo articolo di recensione al volume "La grande illusione" di J. Mearsheimer si prospetta lo scenario della prossima crisi definitiva della visione internazionalista liberale e l'avvento di un nuovo paradigma realista nelle relazioni internazionali, nelle more della ristrutturazione di un rinnovato peso della politica delle grandi potenze a discapito dello scontro tra blocchi.
La critica
serrata che John Mearsheimer rivolge al liberalismo politico nel saggio La grande illusione (intr. di Raffaele
Marchetti, trad. di Roberto Merlini, Luiss University Press, Roma 2019, pp.
328) non costituisce solo una grande requisitoria nei confronti della politica
estera degli Stati Uniti degli ultimi venticinque anni, segnati dal «momento
unipolare» e dalla loro pressoché indiscussa egemonia globale, ma rappresenta
anche una larvata decostruzione dell’intera filosofia politica che è a
fondamento dello stesso «Leviatano liberale» (definizione di John Ikenberry).
Il tentativo
operato dai dirigenti politici di Washington di diffondere la democrazia
liberale rovesciando i regimi autoritari ostili, con l’obiettivo di creare un
mondo popolato esclusivamente da democrazie liberali, non ha condotto ad una
diffusione a livello mondiale della liberal-democrazia, sostiene Mearsheimer.
Non solo: ha indebolito lo stesso liberalismo, minando le istituzioni
internazionali create con l’obiettivo di promuovere un’economia mondiale aperta
(l’interdipendenza economica è un fattore unificante per il liberalismo) e di dirimere
mediante arbitrato le controversie tra le nazioni.
La tesi di fondo
del politologo statunitense è che nei rapporti internazionali «il liberalismo
non può competere con il nazionalismo e con il realismo». Gli Stati Uniti non
hanno fatto i conti con questi due ostacoli che si sono frapposti alla loro
“crociata” per la democrazia (iniziata da W. Wilson all’indomani
dell’intervento americano nella prima guerra mondiale), indirizzata a
promuovere la diffusione su scala mondiale del liberalismo. Se la prima
ideologia, quella nazionalistica, è senz’altro uno dei più tenaci impedimenti
all’esportazione del sistema liberale, in quanto, fondandosi
sull’autodeterminazione dei popoli, pone un pressoché insormontabile argine
all’occupazione o influenza di altri Stati,
il realismo politico, che si fonda sull’idea che il sistema
internazionale sia anarchico e non gerarchico, contraddice la diffusione del
modello liberale, in quanto ritiene che solo uno Stato mondiale sia in grado di
garantire la stabilità internazionale di cui abbisogna un mondo popolato quasi
esclusivamente da Stati nazionali. Se seguissero la logica realista, gli Stati
dovrebbero unicamente preoccuparsi di garantire la propria sopravvivenza
nell’arena internazionale, muovendosi in essa secondo la logica dell’equilibrio
di potenza. Gli Stati Uniti, al contrario, per preservare il loro sistema
liberale su scala mondiale, hanno dovuto agire come gendarme del mondo, ma sono
andati incontro a un clamoroso fallimento, giacché a un crescente impegno in vari
scenari dello scacchiere mondiale, hanno dovuto far seguire necessari
arretramenti, dovuti a fallimenti locali o a pressioni interne, che hanno
minato l’innesto del loro modello liberale.
C’è un’altra
pericolosa conseguenza della tendenza alla proiezione sull’estero del
progressismo liberale, che, in nome della protezione dei diritti umani impone
di eradicare il pericolo costituito dagli Stati autoritari per promuovere la
pace mondiale, virtualmente assicurata dalla presenza di soli Stati liberali
nel mondo. La conseguenza, scrive l’Autore, è quella di provocare una
progressiva erosione del liberalismo in patria, a causa della creazione di un
imponente apparato di sicurezza interno volto a supportare le ardite imprese
belliche all’estero.
La tesi di Mearsheimer
è che «il liberalismo praticato all’estero compromette il liberalismo praticato
in patria». La libertà assegnata dai paesi liberali ai propri cittadini (anche
a coloro che rifiutano i principi liberali) espone gli Stati fedeli al credo
liberale ad un rischio, già paventato da James Madison nel Federalist n. 10, di incentivare fazioni politiche dirette a
rovesciare il potere della maggioranza costituita. Il principio di tolleranza,
cardine della concezione liberale, pone perciò in pericolo l’esistenza dello
stesso Stato liberale. Per evitare un tale scenario, il liberalismo ha
sviluppato una tendenza all’intolleranza verso i dissidenti. Come scrive
Mearsheimer, «nel liberalismo è presente un senso sia di vulnerabilità sia di
superiorità che promuove l’intolleranza nonostante l’enfasi della teoria
sull’uso della tolleranza per mantenere l’armonia interna». Un tale paradosso
espone gli Stati liberali al rischio autoritario e financo li conduce a
limitare fortemente la libertà dei propri cittadini, al punto da compromettere
la democrazia. Il principio di tolleranza viene accantonato quando uno Stato
liberale si confronta con un rivale che viola i diritti dei suoi cittadini,
sino a comportare il restringimento delle libertà interne al fine di
convogliare le energie del paese verso l’obiettivo della sopravvivenza contro
un nemico esterno minaccioso.
Ciclicamente, in
situazioni di insicurezza geopolitica o di guerra civile, i dirigenti politici
americani hanno limitato seriamente i diritti individuali, specie in
coincidenza di guerre e pericoli esterni. Si pensi, ad esempio, alla
sospensione dell’habeas corpus da
parte di Lincoln durante a guerra civile, all’incarcerazione dei cittadini
nippo-americani durante la seconda guerra mondiale o alla persecuzione dei sostenitori
del comunismo durante la guerra fredda. Come metteva in guardia James Madison,
«nessun paese può preservare la propria libertà se è costantemente in guerra».
Alexander Hamilton, sempre nel Federalist,
aveva sostenuto che l’insicurezza politica e il rischio di guerra conducono a
esecutivi potenti che potrebbero restringere le libertà individuali,
accelerando la trasformazione in senso monarchico dell’ordinamento politico.
Scrive Mearsheimer che «gli Stati Uniti hanno scatenato ben sette conflitti dalla
fine della guerra fredda e sono continuamente in guerra dal mese successivo
all’11 settembre […]. Ciò ha reso ancora più potente il più formidabile sistema
di sicurezza che esisteva già nel 1991, quando è crollata l’Unione sovietica».
Mearsheimer sfata
il mito dell’internazionalismo liberale offensivo ricorrendo alla critica di
due principi cardine dell’interventismo democratico, ma a ben guardare presenti
anche nella visione realista: la teoria della pace democratica e quella
dell’interdipendenza economica. La critica che egli muove riguarda l’importanza
che i liberali assegnano ai due obiettivi sistemici come fattori di prevenzione
del conflitto. Non basta che questi ultimi facciano aumentare la cooperazione
tra Stati, ma serve che entrambi facciano in modo che la guerra sia del tutto
impossibile. Se la prima teoria afferma che gli Stati democratici tenderebbero
a non farsi la guerra reciprocamente, la seconda sostiene che un’economia
internazionale aperta, non chiusa da barriere protezionistiche, favorirebbe
maggiormente la cooperazione, stornando il rischio di guerra fra paesi.
Secondo
Mearsheimer entrambi questi assunti hanno grosse lacune. Intanto è falso che
non ci siano mai state guerre fra Stati democratici e che le norme liberali
siano un fattore di pacificazione, perché l’età contemporanea annovera almeno
quattro casi di democrazie che hanno combattuto tra loro (Germania imperiale
contro Gran Bretagna, Francia, Italia e Stati Uniti durante la prima guerra
mondiale, Gran Bretagna contro Repubblica sudafricana e Stato libero
dell’Orange durante la guerra boera, Pakistan contro India durante le quattro
guerre indo-pakistane, Stati Uniti contro Spagna durante la guerra
ispano-americana). Spesso inoltre le democrazie non solo si alleano con gli Stati
autoritari contro altre democrazie, ma si adoperano, come fanno spesso gli
Stati Uniti, a rovesciare altre democrazie.
L’antica teoria
dell’interdipendenza, perorata da Kant e Constant, parte dal presupposto che
l’obiettivo principale degli Stati sia la prosperità, non la competizione per
la sicurezza, ma secondo il politologo americano i calcoli politici e
strategici spesso hanno un peso maggiore di quelli economici. Un esempio della
fallacia dell’argomentazione dell’interdipendenza come fattore di pace è il
ricorso alle sanzioni economiche contro i paesi recalcitranti o che violano i
diritti umani. In questi casi i paesi colpiti dalle sanzioni o esclusi dai
circuiti economici continuano nella loro condotta anche a costo di perdite
economiche enormi. La spiegazione è nel peso che gli Stati annettono al
nazionalismo, rispetto ai calcoli economici e commerciali, nonché nella grande
rilevanza della logica dell’equilibrio di potere. Un esempio recente ci viene
dalla crisi ucraina: la Russia pur sottoposta a sanzioni non ha restituito la
penisola di Crimea, anche a costo di una forte contrapposizione con Kiev.
Nel capitolo
conclusivo del suo saggio l’autore si chiede quanto ancora gli USA siano
disposti a sobbarcarsi il peso dell’egemonia liberale. La risposta sta nella
dinamica che assumerà l’assetto internazionale in futuro. Se l’ago della
bilancia penderà a favore del multipolarismo sarà molto difficile per gli Stati
Uniti perseguire l’esportazione del liberalismo, perché la presenza di altre
potenze impedirà loro di continuare a mantenere l’egemonia globale. L’America
perciò dovrà orientarsi verso i dettami del realismo. L’ascesa impetuosa della
Cina e la resurrezione della potenza russa la spingono a tornare a confrontarsi
con potenziali concorrenti per il potere mondiale e dunque a adottare la logica
realista. La politica adottata da Trump sembra favorire una recessione
geopolitica rispetto all’interventismo pregresso (perseguito anche da Obama),
anche se negli apparati statunitensi le sirene dell’egemonia liberale appaiono
ancora molto forti e forse non rimane per i sostenitori del realismo che
sperare in una prosecuzione dell’ascesa cinese in grado di porre gli Stati
Uniti di fronte alla velleità del loro disegno egemonico.
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