Visualizzazione post con etichetta borghesia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta borghesia. Mostra tutti i post

lunedì 4 maggio 2020

Discorso di Lelio Basso del 13 luglio 1949



Discorso di Lelio Basso del 13 luglio 1949 in occasione della ratifica del trattato sul Consiglio d’Europa (1949)



In un intervento alla Camera dei deputati in occasione della ratifica del trattato sul Consiglio d’Europa (1949) il deputato socialista Lelio Basso chiarì la differenza tra internazionalismo e cosmopolitismo e suggerì come le classi borghesi tornassero in quel tempo al cosmopolitismo (inteso come abbattimento delle frontiere nazionali), dopo aver esaltato il nazionalismo sotto il fascismo, al fine di meglio contrastare le conquiste dei lavoratori ottenute sul piano nazionale quale esito della lotta antifascista.


Lelio Basso

E' iscritto a parlare l'onorevole Basso. Ne ha facoltà.

BASSO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, confesso che, quando il mio gruppo mi ha dato l'incarico di prendere la parola, sono rimasto per un momento incerto se convenisse adottare il tono serio della critica o quello leggero dell’ironia. Certo, se noi ci attenessimo letteralmente alla lettura dello strumento che siamo chiamati a discutere e lo paragonassimo al messaggio radiofonico con cui l'onorevole Sforza ne diede l'annunzio al paese il 29 gennaio scorso, saremmo piuttosto tentati a seguire la via dell'ironia. L'onorevole Sforza iniziava quel radiomessaggio con le parole: « Voi avete appreso la costituzione europea ». E in quella stessa occasione l'onorevole presidente del Consiglio, in una intervista, scomodava addirittura la divina provvidenza, la quale diceva - supera le capacità umane. Ora, noi abbiamo sotto i nostri occhi ii testo dell'accordo, e vediamo che siano ben lontani dai disegni provvidenziali di cui parlava l'onorevole De Gasperi, e anche dall' Unione europea di cui parlava l'onorevole Sforza. Non è Unione europea non solo perché ne è esclusa una larga parte dell'Europa, non solo perché dalla rappresentanza dei paesi aderenti sono esclusi tutti coloro che non la condividono, ma anche perché le clausole dell'accordo riducono veramente a ben poco il contenuto di questo Consiglio d'Europa.

Sono intanto escluse le questioni militari, alle quali provvede il patto atlantico; sono escluse anche tutte le questioni per cui esistono altri organismi internazionali: in modo particolare sono quindi di fatto escluse le questioni economiche, per le quali ha competenza l'O. E. C. E.; sono escluse due questioni fondamentali della vita europea. Il comitato dei ministri non ha il potere di prendere deliberazioni, ma soltanto di fare raccomandazioni ai governi, ed e soggetto alle regole dell'unanimità. L’assemblea poi non ha il potere di fissare neppure l'ordine del giorno delle proprie discussioni; essa può fare raccomandazioni al comitato dei ministri, ma soltanto su materie che questo ponga all'ordine del giorno dell'assemblea, oppure su quelle richieste dall'assemblea ma solo dopo che il comitato dei ministri vi abbia consentito. Siamo quindi presso a poco sullo stesso piano, sul quale si erano già messe d'accordo le cinque potenze che denunciano il più assoluto disprezzo del patto di Bruxelles, secondo il comunicato, mi pare, del 5 febbraio, prima cioè che intervenissero alle trattative l'Italia, i paesi scandinavi e l'Irlanda, e cioè i cinque paesi successivamente invitati dagli iniziatori (Inghilterra, Francia e Benelux). Credo sarebbe utile che l'onorevole ministro degli esteri dicesse perché, essendo intervenuto successivamente in queste trattative, egli abbia, completamente accettato uno schema che non risponde alle sue impostazioni; the anzi, in certo senso, l'accordo definitivo e più limitativo ancora dell'abbozzo del febbraio: in quel comunicato delle cinque potenze di Bruxelles, del 5 febbraio, si parlava per esempio, di decisioni dell'assemblea da prendere a semplice maggioranza, mentre dal testo risulta che occorre la maggioranza qualificata dei due terzi, e quindi il già scarso potere di quest'organo ne risulta ancora indebolito.

Se, quindi, volessimo fare veramente dell'ironia, la potremmo fare agevolmente, poiché a Strasburgo per ora nasce soltanto un'accademia. E se volessimo addirittura fare dell'ironia amara, potremmo leggere l'articolo 3 dell'accordo, dove è detto che i paesi membri del Consiglio d'Europa riconoscono il principio della preminenza del diritto e il principio in virtù del quale ogni persona posta sotto la loro giurisdizione deve godere dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Potremmo fare dell'amara ironia, se leggessimo questo articolo 3 e pensassimo che paesi come la Turchia e la Grecia, che si sa quale rispetto abbiano per questi principi, hanno manifestato l'intenzione di aderire e le potenze the hanno preso l'iniziativa del Consiglio si sono subito dichiarate d'accordo nell'annetterli. Potremmo fare dell'ironia amara, del resto, anche soltanto rilevando come fra i paesi stessi che hanno preso questa iniziativa, fra le potenze cioè che vogliono fon dare il consiglio d'Europa sulla base del rispetto di questi principi, in virtù dei quali ogni persona posta sotto la loro giurisdizione deve godere dei diritti e delle libertà fondamentali, vi sia un paese come la Francia, che recentemente ha massacrato 85.000 malgasci in forme più crudeli di quelle naziste, calpestando qualsiasi norma di legge e di civiltà, e ha violato anche le immunità parlamentari per far condannare a morte dei deputati malgasci. Potremmo fare dell'amara ironia, se rilevassimo che le potenze che ci invitano a rispettare questi principi sono le stesse potenze the conducono in questo momento guerre coloniali che denunciano il più assoluto disprezzo dei con metodi principi stessi, la Francia al Vietnam, l'Olanda in Indonesia e in Malesia.

Ma io voglio andare al fondo dell'esame del problema che ci interessa. Se le parole dell'accordo hanno una scarsa portata, io voglio occuparmi delle cose che hanno senso e portata e che stanno dietro a queste parole. Non si può non riconoscere la scarsa importanza pratica di questi accordi. E’ stato detto, però, dai soliti uomini di buona volontà che in fondo sarebbe questo soltanto un primo passo verso la realizzazione dei postulati dell'unita europea, e che per il momento bisogna contentarsi di quel po' che si può ottenere, ma che su questa strada potremo raggiungere risultati molti più concludenti.

Ebbene, onorevoli colleghi, per giudicare del valore del primo passo noi dobbiamo sapere in quale direzione stiamo comminando e verso quali mete ci conducono gli altri passi successivi che si potrebbero e vorrebbero fare. E, per renderci conto di quale sia la direzione nella quale questo primo passo si compie, noi abbiamo un unico strumento di indagine: esaminare cioè il corso degli avvenimenti attraverso cui siamo arrivati nel dopoguerra a questo accordo. Ieri, mi pare che un oratore della maggioranza attribuisse all'onorevole Sforza una specie di paternità spirituale di questa unità europea.

Me ne duole per l'onorevole Sforza se ha delle ambizioni in questo senso, ma il vero padre spirituale del Consiglio d'Europa l'ex premier Churchill. Churchill nel suo di-scorso del 5 maggio 1946 a Fulton ha preconizzato un formidabile blocco antisovietico fondato su una triplice, e cioè sugli USA, sul Commonwealth e sull'Europa, e, successivamente, nel discorso di Zurigo del 19 settembre 1946, egli faceva la descrizione dell'Europa a cui egli pensava, una Europa necessariamente unita in vista di un obiettivo comune, della quale deve far parte anche la Germania, affinché meglio possa assolvere al compito di diventare uno degli elementi su cui poggia questa triplice antisovietica. Churchill pensava evidentemente allora ad una triplice in cui due membri, il Commonwealth e l'Europa unita, avessero alla loro testa la Gran Bretagna, per permettere all'Inghilterra di giuocare un ruolo di primo piano, e di porsi sullo stesso piano degli Stati Uniti, per trattare da pari a pari con gli Stati Uniti, avendo dietro di se da un lato il Commonwealth e dall'altro l'Europa unita.

Noi sappiamo che le cose si sono svolte in modo diverso da come l’Inghilterra desiderava. L'Inghilterra non riuscì a diventare la guida degli altri paesi, ma al contrario ebbe essa medesimo bisogno di ingenti aiuti dagli Stati Uniti. Sopravvenne il piano Marshall, come strumento della dottrina Truman, e l'America pose nettamente la candidatura ad essere sola ed esclusiva guida, sola ed esclusiva dominatrice e dirigente della politica mondiale, trasformando praticamente il resto del mondo ancora soggetto al capitalismo in una serie di dominions americani. L'America latina e già praticamente in gran parte un dominion americano. In Asia l'occupazione militare del Giappone e di parte della Corea e il loro asservimento economico; la penetrazione del capitalismo americano in India, grazie agli accordi con la politica della borghesia indiana guidata da Nehru, come testimonia la recente conferenza di Nuova Delhi; in Africa la penetrazione nelle cosiddette aree arretrate che sta diventando la preoccupazione principale del governo di Washington, sono altrettante espressioni di questa politica in virtù della quale il mondo soggetto ancora al capitalismo si trasforma praticamente in una serie cli semi colonie o se più vi piace di dominions americani. E in questa frase e come strumento di questa politica di dominazione americana, che nasce e si concreta il progetto francese di Unione europea, nasce cioè la proposta di una vera unione europea con parziali rinunce alle sovranità particolari, e con un proprio Parlamento eletto. L'Inghilterra resiste perché non si e ancora rassegnata a subire anch'essa in pieno il nuovo dominio del capitale americano, non si e ancora rassegnata a perdere effettivamente il suo passato rango mondiale e a ridursi al rango comune degli altri paesi dell'Europa occidentale. L'Inghilterra e disposta ad accettare l'Unione europea per quel tanto che le serve in funzione della sua politica antisovietico ed eventualmente per smerciare merci inglesi, ma non è disposta ad accettare una Unione europea che valga a ridurre la personalità inglese al livello degli altri paesi.

In questo senso non vie dubbio che la borghesia inglese resiste ancora all'imperialismo americano, come in certo modo resiste ancora quella svizzera e quella svedese, e di là dell'Oceano, quella argentina, ciascuna con i suoi mezzi e con le sue possibilità. E non vie dubbio che potremmo essere tentati di seguire con simpatia gli sforzi che la borghesia inglese fa per resistere all'imperialismo americano che tende a estendersi ovunque, se non sentissimo troppe volte che gli strumenti che l'Inghilterra appresta per la propria difesa hanno un suono che ci ricorda un passato recente. Quando noi sentiamo parlare di area della sterlina, di scambi bilaterali, di moneta non convertibile, di restrizioni delle importazioni, di politica di austerity, noi sentiamo riecheggiare quella che fu una recente, politica imperiale in Europa, che con altri nomi diceva le stesse cose: invece di parlare di area della sterlina e di restrizioni di importazioni parlava di spazio vitale e di autarchia (ed. erano sostanzialmente le stesse cose); anziché dire « austerità », diceva « non burro ma cannoni », e non era cosa, molto diversa.

Si tratta cioè della politica degli spazi chiusi, che fanno le econome deboli, contro la politica della porta aperta, che fa le economie forti e aggressive; ma quando questa politica la facevano i nazisti, essa suscitava la virtuosa indignazione dei gentlemens britannici. Praticamente, il conflitto nelle trattative per il Consiglio europeo fra Francia e Inghilterra riecheggia questo conflitto fra la politica americana e quella inglese. La Francia è la più favorevole a spingere più oltre la realizzazione di certi principi di unità europea per un doppio ordine di considerazioni: in parte in obbedienza alle direttive della politica americana, che essa subisce integralmente, in parte per lo stesso interesse egoistico francese, nel senso cioè che, come l’Inghilterra spera di potersi appoggiare ai paesi dell'Europa occidentale per salire qualche gradino e poter parlare da pari a pari con gli Stati Uniti, alto stesso modo la Francia spera di potersi appoggiare agli altri paesi dell'Europa occidentale, in modo particolare all’Italia, che è cosi servizievole, per poter parlare da pari a pari con la potenza britannica.

Ma, non vi è dubbio che attraverso questi contrasti, che riflettono contrasti più vasti, anche il Consiglio europeo tende ad inquadrarsi come uno strumento di questa stessa politica, uno strumento della politica atlantica, e quindi dobbiamo considerare l'accordo oggi sottoposto alla nostra ratifica come manifestazione di politica atlantica. Credo non vi sia bisogno di soffermarsi dare di ciò molte dimostrazioni. Basterebbe pensare all'origine; il Consiglio europeo nasce dall'unione occidentale, dal patto di Bruxelles, dal patto delle cinque potenze ( Inghilterra, Francia e Benelux), che hanno preso l’iniziativa di convocare le altre potenze. Basterebbe leggere il preambolo del Consiglio europeo, che ad un certo punto cosi dice: « attaccati ai valori' spirituali e morali, che sono il patrimonio comune dei loro popoli, e che sono all'origine dei principi di libertà individuale, di preminenza del diritto su cui si fonda ogni vera democrazia ecc. » e confrontarlo con il preambolo del patto atlantico, il quale ugualmente dice: « gli Stati contraenti sono decisi a salvaguardare la libertà dei popoli, la loro comune eredità e la loro civiltà fondate sui principi della democrazia », per sentire che unico è il motivo ispiratore. Sono gli stessi preamboli della santa alleanza e del patto anticomintern. È sempre cosi: quando la reazione vuole giustificare se stessa, si fa appello alla tradizione, all’eredità, agli elementi del passato, e si chiama tutto questo difesa della civiltà, della civiltà cristiana, della civiltà occidentale, a seconda delle circostanze. Ma la sostanza è sempre la stessa. Ma è, del resto, lo stesso ministro Sforza, che in un discorso pronunciato a Bruxelles il 20 giugno disse che il Consiglio europeo è uno strumento della politica atlantica; anzi, disse che la vera unione europea è quella che si manifesta attraverso il patto atlantico.

Disse testualmente l'onorevole Sforza il problema della unità europea si e imposto progressivamente in tutti gli ambienti, nei parlamenti, tra gli scrittori politici, ed anche presso vari governi europei. Nel breve giro di poche settimane ho firmato un trattato per la creazione di un'unione doganale tra L’Italia e la Francia, un'unione doganale concepita nello spirito che vi ha animato all'epoca del vostro accordo con i Paesi Bassi e con il Lussemburgo. Ho firmato gli atti che garantiscono la vita della organizzazione economica per la cooperazione europea che ha sede a Parigi, la quale speriamo divenga il ministero dell'economia europea. Ho firmato a Washington con altri 11 ministri degli esteri il patto atlantico, che rappresenta, sotto alcuni aspetti, l'autentico inizio di una Unione europea ed infine, il mese scorso, ho firmato per l' Italia, come il mio collega Speak ha firmato per il Belgio, l'atto costituivo del Consiglio europeo e dell'Assemblea europea ». Non v'e dubbio quindi che l'onorevole Sforza considera il Consiglio europeo come uno strumento di questa politica atlantica, e lo considerano tale anche gli americani - il che è pia importante - come ad esempio un autorevole ex ministro degli affari esteri americano, Summers Welles, il quale in un articolo dell'11 febbraio, dopo il primo comunicato che annunciava gli accordi per il Consiglio europeo, diceva: « Il progetto attuale e un debole compromesso. Esso respinge la tesi francese, secondo cui bisogna creare un potente parlamento europeo. II progetto non contiene nessuna disposizione che preveda la limitazione delle sovranità nazionali. Un'ombra di unione europea del genere di quella che si progetta attualmente, ha delle chances di essere di qualche utilità pratica per gli Stati uniti ? Esiste una ragione valida perché non si dica francamente a quei paesi che ricevono aiuti a titolo E.R.P., e che riceveranno armi per la loro difesa in conseguenza del patto atlantico, che uno dei principali risultati ricercati dal popolo americano, in cambio dei sacrifici che esso consente per I ‘Europa occidentale, è una federazione reale dei paesi dell' Europa occidentale?».

E’ chiaro quindi che nelle intenzioni del ministro Sforza e nella realtà dei fatti il Consiglio europeo è uno strumento per la realizzazione delle stesse finalità che i ‘imperialismo americano si e assegnato col patto atlantico. E’ uno strumento per sviluppare la stessa politica mondiale dell'America, e contro la quale le resistenze inglesi hanno lo stesso significato delle resistenze di un imperialismo che tramonta contro un imperialismo che si afferma vittorioso, resistenze di un egoismo conservatore, contro un egoismo aggressivo e conquistatore.

Ora, quale è il posto che questo Consiglio europeo occupa nel quadro generale di questa politica atlantica; quale è la funzione che gli compete ? E’ indubbiamente ed essenzialmente per ora (in attesa di ulteriori sviluppi) una funzione di copertura. Il patto atlantico parla anche esso di ideali, ma parla anche di armi, che sono un elemento molto più realistico; il piano Marshall parla di cooperazione, di ideali, di mutuo appoggio, ma parla anche di quattrini, che sono qualche cosa di prosaico. Ora è bene invece avere uno sfogo per i puri ideali, un'assemblea dove si può parlare soltanto di ideali europeistici, e non di armi né di quattrini.

Questo piace all'opinione pubblica; questo piace a certi strati soprattutto della piccola e media borghesia. Perché non ci rendiamo meglio conto dell'importanza fondamentale che queste cose hanno nel quadro generale della politica capitalistica, è necessario pensare che tutta la società è borghese costruita essenzialmente su due piani: il piano della lotta di classe, il piano ove si svolgono le cose così come sono realmente nella loro dura brutalità, e il piano in cui questi rapporti di classe, in cui le contradizioni della società, in cui tutti i conflitti che ci dilaniano, sono, viceversa, espressi e risolti in termini puramente formali e puramente giuridici. La vecchia society precapitalistica chiamava più brutalmente le cose col loro nome, aveva anch'essa una divisione in classi, delle contradizioni interne, una oppressione di classi su altre classi; ma chiamava privilegi i privilegi, diceva apertamente che il servo della gleba era legato alla terra, dava apertamente agli ordini privilegiati, nobiltà e clero, maggiori diritti che al Terzo Stato, proclamava in tutte lettere quali erano le restrizioni dei diritti dei cittadini non appartenenti agli ordini privilegiati. Era una società che confessava apertamente le sue contraddizioni, perché rimandava la soluzione di queste contradizioni all'oltre tomba: l'uomo che sentiva la sua disuguaglianza su questa terra, si consolava pensando che era uguale agli altri nell'aldilà e si rassegnava a un'oppressione che riguardava solo il breve periodo di passaggio su questa terra.

La society borghese è sorta negando questi principi, e sorta chiedendo che la società risolvesse le sue contradizioni in questo mondo e che cessassero gli ordini privilegiati e l'oppressione che ne derivava.

Perciò essa ha dovuto risolvere queste con-tradizioni su questa terra; ma poiché d'altro lato ha creato nuovi privilegi economici, essa ha potuto risolverle solo su un piano giuridico formale, cioè il contrasto esiste ancora, l'oppressione è ancora più dura, il proletario di oggi è in condizioni pia gravi di quelle del servo della gleba; ma esso è formalmente uguale agli altri uomini. L'uguaglianza non si realizza più soltanto dinanzi alla tomba, ma dinanzi alla legge: formalmente la società borghese risolve tutte le sue contraddizioni e per ogni soperchieria brutale che il capitalismo compie, per ogni forma di sfruttamento che il capitalismo impone alle classi oppresse, esso deve sempre trovare una giustificazione ideate. Di fronte ad una contradizione che si aggrava sul piano sociale, bisogna sempre trovare una apparenza di soluzione valida sul piano formale: ed e questo il servigio che i ceti medi rendono alle classi capitaliste, e appunto il servigio di tradurre in questo linguaggio ideale e formale le contradizioni brutali della società.

E non c’è nulla di più assurdo nella situazione d’oggi del buon piccolo e medio borghese che ogni giorno e brutalmente spogliato della sua proprietà dal grande capitale attraverso la pressione fiscale, le svalutazioni monetarie, il giuoco di borsa, e, ciononostante, si proclama ,difensore della proprietà e naturalmente della proprietà, così com'è, cioè della proprietà capitalistica, contro il socialismo.

Non v'e nulla di più assurdo nella posizione di questo medio e piccolo borghese oppresso nella sua libertà, perché ogni giorno più ridotto a mero strumento della politica capitalistica - sulla quale non esercita alcuna influenza -, costretto perfino ad assimilare le idee che gli fornisce bell'e fatte la stampa dell'imperialismo, la cui possibilità di informazione è annullata e la cui libertà di giudizio è violata sin nell'intimo delle coscienze, e che ogni giorno di più si fa difensore della libertà esistente, cioè dell'ordine stabilito, contro le minacce che gli verrebbero dal socialismo.

E veramente una situazione assurda e io la sottolineo in questo dibattito, perché credo che essa ci aiuti a mettere in rilievo quello che, secondo me, è l'elemento che va denunciato nello strumento che è sottoposto alla Nostra ratifica. Il Consiglio europeo, cioè, è la maschera progressista, idealista che deve coprire due realtà brutali: la manomissione economica che l'imperialismo, il grande capitale americano esercita sull'Europa e la politica del blocco occidentale in funzione antisovietica.

Tradurre questa politica nel linguaggio del federalismo, esprimere cioè questa realtà di sopraffazione e di soperchieria in termini ideali, è un mezzo che serve a fare accettare questa politica, a molta gente in buona fede per poi servirsi di tutta questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati della popolazione della stessa parte. Ed è in questo spirito che si parla dell'Unione europea come della terza forza possibile fra Stati Uniti e l’U.R.S.S. Se ne parla veramente sempre meno, ma l'onorevole Sforza a Bruxelles il 20 giugno ha ripreso questo concetto, affermando che l'Europa unita ha la possibilità di porsi sullo stesso piano degli Stati Uniti e dell'U.R. S.S. In realtà l'onorevole Sforza sa che politicamente questo non è vero: basta pensare che questa Unione europea, che l'onorevole Sforza vede rappresentata soprattutto dal patto atlantico, riceve dall'America persino i mezzi per armarsi, ed e chiaro che gli Stati Uniti non ci danno le armi perché noi diveniamo una potenza politica sul piede di parità, ma ci danno le armi perché essi pensano di farci servire ai loro fini. Ma non è poi vero neppure economicamente che si possa pensare all'Unio-ne europea come ad un elemento che possa controbilanciare la potenza americana. Noi sappiamo che l'Europa occidentale, cosi come e uscita dalla guerra, e senza rapporti di scambi con l'Europa orientale, è un'Europa incapace di vivere. Rinunciando agli scambi con l'Oriente, cioè le zone con cui sarebbe possibile stabilire un regolare rapporto di vendite di prodotti industriali e di acquisto di prodotti agricoli, i governi dell'Europa occidentale si sono messi deliberatamente alla merce degli Stati Uniti. Noi sappiamo che su questa via l'Europa occidentale non si ricostruirà più, non acquisterà più la sua indipendenza ma, al contrario, si infeuderà, sempre più agli Stati Uniti. Infatti, neppure net 1952, alla fine del piano Marshall, l'Europa occidentale avrà potuto trovare il suo equilibrio economico, perché la bilancia commerciale dell'Europa occidentale è desinata su questa base a rimanere in perpetuo squilibrio e la bilancia dei pagamenti si equilibrerà, soltanto con gli apporti americani, i quali ci verranno sia a titolo di prestito, sia a titolo di investimento diretto di capitali, principalmente nei paesi che hanno materie prime o là dove c’è la possibilità di meglio sfruttare la mano d'opera, secondo il sistema classico del colonialismo. L'impossibilita, di trasferire in America sia gli interessi dei capitali prestati, sia il profitto di quelli direttamente investili determinerà un acceleramento nel ritmo degli investimenti stessi e della colonizzazione dell'Europa.

Naturalmente, perché gli investimenti siano più allettanti, l'America ha bisogno di grandi mercati e l'interesse che l'America dimostra per le unioni doganali, la pressione che l'America esercita per ottenere un'Europa unite, in questo modo, l'interesse ad annullare le frontiere, non hanno per scopo di creare una terza forza, ma semplicemente attestano il suo bisogno di dominare i mercati dell'Europa, di avere, un grande spazio a sua disposizione, per poter governare meglio e più economicamente il dominion europeo. Hitler faceva la stessa politica e la chiamava Gleichschaltung. Di tutto ciò noi troviamo anche un'eco nei congressi dei federalisti, dove tanta brava gente applaude a mozioni in cui in cui parla indifferentemente dei diritti della personalità umana e della libera circolazione delle merci, e si vuole intendere la libera circolazione delle merci americane o fabbricate da industrie che siano sotto il controllo del capitale americano. È un'illusione quindi pensare che l'Unione europea possa favorire, per esempio, una cartellizzazione dell'industria europea capace di vera indipendenza di fronte agli Stati Uniti.

La cartellizzazione dell'industria è un fenomeno che si manifesta sotto la pressione del capitale finanziario, che noi sappiamo essere dominato oggi dagli Stati Uniti d'America, perché la cartellizzazione anche dell'industria europea si può fare soltanto nella misura in cui piaccia agli Stati Uniti. Pensare il contrario significa ignorare anche gli aspetti più semplici della fase attuale del capitalismo.

Per apprezzare l'identità della politica della cosiddetta Unione europea con quella americana, basta vedere le dichiarazioni fatte da uomini politici esponenti delle due correnti. Andre Philip, noto europeista francese, dice: « La Ruhr è veramente la pietra di paragone di questa Europa unita che vogliamo creare ». E Acheson, l'attuale segretario di Stato americano diceva, quando ancora non era segretario di Stato, all'epoca del lancio del piano Marshall: « La ricostruzione prioritaria della Ruhr è la pietra angolare del piano Marshall ». È chiaro quindi che questa cartellizzazione dell'industria europea e questa Unione europea (chi dice Ruhr dice cartello dell'acciaio) si spiegano e si manifestano nella direzione che l'America vuol loro dare. È superfluo sottolineare l'importanza di questa cartellizzazione dell'industria della Ruhr per la politica europea.

La Ruhr è stata negli ultimi decenni veramente la pietra angolare del dominio dell'Europa. Hitler ha potuto conquistare l'Europa perché aveva la Ruhr. La sua importanza spiega la politica francese e la politica americana di occidente. L'America infatti ha rapidamente abbandonato la politica antinazista e antifascista che aveva fatto in Germania, cosi, come per le stesse ragioni, l'ha abbandonata in Giappone. Ha rimesso in auge i grandi industriali fascisti, e ha ricostruito le industrie monopolistiche della Germania e del Giappone, non pin in servizio dell'imperialismo tedesco e giapponese, ma dell'imperialismo americano, che si assume il controllo finanziario di queste industrie, pur concedendo una partecipazione agli industriali fascisti tedeschi e giapponesi, che erano i vecchi proprietari e che sono ora degli associati minori alle fortune del capitale finanziario americano.

E’ ora attorno a questa posizione che si fa una politica di Unione europea; e attorno a questa, posizione che si fa una, politica di cartellizzazione delle industrie, che significa dominio del capitale monopolistico americano in Europa. I due termini, Unione europea e dominio del capitale americano, coincidono.

Se questa politica è desinata a fare altri passi avanti, noi assisteremo a profonde riforme nella struttura dell'Europa occidentale. In ogni paese sopravviveranno soltanto le industrie che l'America avrà interesse di far sopravvivere, e del resto fin da ora noi assistiamo in Italia al crollo di molte industrie in gran parte per questa ragione. in Francia già vediamo le preoccupazioni che sorgono di fronte alla sorte che potrebbe attendere, in un'Europa di questa natura, le industrie aeronautiche e le industrie idroelettriche, desinate a cartellizzarsi nel massiccio alpino.

Un'Europa che cammina su questa, strada, un'Europa che tende ad unificarsi in funzione del capitate americano, è un'Europa che tende a far sparire, che tende a distruggere le piccole e medie industrie; che tende a portare all'esasperazione i contrasti di classe, e a far sentire sempre più la pressione brutale del capitale finanziario monopolistico. La lotta di classe non può che venirne accresciuta, e non può che accrescersi la disoccupazione, che accompagna sempre i fenomeni di concentrazione e di cosiddetta razionalizzazione dell’industria. Ma la piccola e la media borghesia ne sarebbero anch'esse inesorabilmente schiacciate. D’altra parte, si accrescerebbe anche un altro aspetto della politica dell'imperialismo: la manomissione dei grandi trusts, dei grandi monopoli sullo Stato e sui pubblici poteri.

Quanto più lo Stato si ingigantisce, quanto più i suoi compiti si fanno vasti e complessi, tanto più la politica dello Stato sfugge al controllo diretto delle masse popolari, tanto più diventa facile la pressione, la manomissione e l'esercizio diretto del potere da parte dei gruppi monopolistici.

Ed anche quella decadenza del Parlamento, di cui si è parlato motto in questi ultimi tempi qui da noi, è in funzione di questi fenomeni. I grandi trusts e i grandi monopoli preferiscono risolvere i grossi problemi dell'economia, della finanza e della politica nel chiuso dei consigli d'amministrazione e dei gabinetti dei ministri. Che cosa sanno, per esempio, oggi, il proletariato inglese e americano, che cosa sa lo stesso parlamento inglese della reale portata degli enormi conflitti di interessi che si nascondono dietro la lotta fra sterlina e dollaro?

Abbandoniamo quindi questa illusione di una Unione europea in funzione di terza forza ! Noi sappiamo che ogni passo avanti che si fa verso questa cosiddetta unione è un passo avanti sulla via dell’assoggettamento - dell'Europa al dominio del capitale finanziario americano ed e altresì un passo avanti verso la formazione di una piattaforma europea in funzione antisovietica.

Ridotta a questa espressione, l'Unione europea somiglia profondamente all'Europa di Hitler: anche allora « Europa in marcia» era una delle espressioni care alla dominazione nazista, cosi come oggi « Europa in marcia » è espressione cara alla dominazione americana.

So che a questa nostra impostazione si è fatta e si fa questa obiezione: ma allora, voi socialisti avete abbandonato l'internazionalismo, siete diventati i difensori e custodi gelosi della sovranità dello Stato, the è una concezione ormai superata? Ebbene, no: noi siamo fermi più che mai nella nostra posizione internazionalistica, noi siamo sempre perfettamente coerenti con la nostra concezione. Noi sappiamo che Marx scrisse: « gli operai non hanno patria », ma Marx ci insegnò altresì che ii proletariato deve acquistare la sua coscienza nazionale e che esso l'acquista a misura che esso si emancipa, a misura che esso strappa delle mani della borghesia l'esercizio esclusivo del potere politico e si presenta sulla scena della storia come classe che esercita la pienezza dei suoi diritti. Perciò l'internazionalismo del proletariato si fonda sull'unita, e sulla solidarietà di popolo in cui tutti i cittadini, attraverso l'abolizione dello sfruttamento di una società classista, conquistano la propria coscienza nazionale.

In questo senso, oggi, la lotta che combattiamo sul terreno della lotta di classe, la lotta per l'emancipazione del proletariato è un tutt'uno con la lotta per difendere il nostro paese dalla invadenza del capitalismo americano. I lavoratori che lottano, lottano congiuntamente contro to sfruttamento di classe e contro lo sfruttamento che di essi pretende fare il capitalismo americano, il quale vuole essere associato al capitalismo nostrano nella spartizione dei profili ottenuti attraverso lo sfruttamento delle classi lavoratrici.

Noi sappiamo che in questa lotta il proletariato combatte insieme per due finalità e che in questa lotta esso acquista contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi che non potrà, essere che socialista ! In altre parole, il movimento operaio si inizia in un'epoca in cui l'operaio è quasi poste al bando della società, in cui l'operaio è sfruttato fino al punto di essere praticamente escluso da ogni diritto da una classe che in questo modo gli nega veramente l'appartenenza alla patria, in quanta fa dello Stato e della nazione uno strumento della sua politica e uno strumento del suo dominio e del suo sfruttamento, ma l'evoluzione del movimento operaio porta il proletariato ad inserirsi sempre più vivamente nel tessuto della vita nazionale per strapparne il monopolio alla borghesia, e, fa coincidere sempre più la lotta per emancipazione, la lotta di classe con l'acquisto della coscienza nazionale, nel senso che toglie alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominante.

Il cammino, viceversa, della borghesia, è l'opposto. La borghesia nasce con una coscienza nazionale all'origine e, si pone come classe nazionale; lotta per superare le divisioni the erano retaggio della vecchia organizzazione feudale, lotta per abbattere le dominazioni straniere che erano retaggio delle vecchie contese dinastiche, e soprattutto lotta perché il capitalismo si assicuri le condizioni di un libero sviluppo sulla base di un sufficiente mercato. E questa soprattutto opera del capitalismo, industriale; ma a misura che il capitale finanziario si sovrappone al capitale industriale ed esercita il suo diretto donino nell'apparato statale, esso rivendica sempre nuove posizioni. Lo Stato nazionale diventa nazionalistico e imperialistico. Il capitale finanziario, per sua natura aggressivo, espansivo, esce dai limiti del proprio paese e tende a conquistare altre terre, assoggettare altri paesi, tende ad estendere la sua sfera di influenza economica; entra in conflitto con il capitalismo di altri paesi. Siamo nella fase delle guerre imperialistiche in cui la coscienza nazionale si esaspera a nazionalismo e in cui la borghesia considera più che mai lo Stato come strumento per questa sua politica di conquista, di aggressione, di sfruttamento non soltanto, delle classi lavoratrici proprie ma anche delle classi lavoratrici di altri paesi. Ma attraverso queste guerre imperialistiche tutte le borghesie dei paesi capitalistici esclusa quella americana, sono uscite stremate. Sono uscite incapaci di reggere le posizioni raggiunte e di superare le contraddizioni interne che lacerano in mode spaventoso ogni paese.

La situazione di questo dopoguerra è caratterizzata dal fatto che riesce impossibile alle borghesie, alle classi dominanti, indebolite dell'Europa occidentale, di conciliare la legge del profitto capitalistico con la necessità di garantire un sufficiente tenore di vita alle classi popolari, riesce impossibile difendere ancora i propri privilegi contro la pressione di classi che hanno acquistato la coscienza dei propri diritti e che non potendoli soddisfare nel quadro delle antiquate strutture minacciano di farle saltare. È allora che interviene il capitale finanziario americano per sorreggere queste classi decadenti condannate dalla storia e che non hanno più la forza di assolvere al loco compito storico, che difendono soltanto posizioni superate.

Interviene il capitale finanziario americano, il più forte, il più aggressivo, il più potente, il solo che non conosca rivali nel mondo capitalistico, il quale garantisce, sì, ad ognuna delle borghesie di questi paesi la difesa dell'ordine sociale, ma vuole assicurare a se stesso la più larga parte del profitto, disposto a chiamare le borghesie capitalistiche dei singoli paesi quali associate allo sfruttamento sempre più intenso che esso fa delle classi lavoratrici. È questa politica - come ho ricordato in occasione della discussione sul patto atlantico- che gli USA hanno sempre applicato per un secolo all’America latina, dove ben pochi paesi godono ancora, qualche margine di indipendenza, ed è la politica che essi intendono applicare anche in Europa. Ed ecco che noi assistiamo a questo punto al passaggio improvviso di quelle borghesie occidentali dal vecchio esasperato nazionalismo, ad un'ondata di cosmopolitismo.

Ma cosi come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla in comune con il nazionalismo della borghesia, cosi il nostro internazionalismo non ha nulla in comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tante parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale.

L 'internazionalismo, proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo che oggi che le borghesie, nostrana e dell'Europa, affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera.

Non v'e oggi popolo al mondo che sia, pin internazionalista del popolo americano. Oggi negli USA chi non crede che questo sia il secolo americano, chi non crede che il popolo americano sia il popolo desinato a dominare il mondo, è considerato un non americano ed è messo al bando della vita civile. Eppure questo popolo degli Stati Uniti, presto popolo che in casa sera sua è il più nazionalista dei popoli della terra, oggi, quando si rivolge ai popoli dell’Europa parla con affrettato dispregio dei pregiudizi nazionali, come di un elemento di arretratezza, e trova subito nei capitalisti europei dei loro servi che sono pronti ad applaudire al cosmopolitismo. Le stesse borghesie italiane e francesi, che furono per molti anni accese scioviniste, e si trovarono poi con la massima indifferenza pronte a subire la dominazione hitleriana per difendere i propri interessi e privilegi, oggi con la stessa indifferenza sfacciataggine proclamano il verbo del cosmopolitismo e dell'europeismo per servire gli interessi del capitalismo americano. Esse cercano di pervertire con questo veleno il vero sentimento nazionale. Noi possiamo leggere, per esempio, sotto la penna di uno dei più smaccati servitori della borghesia francese di oggi, il Malraux, frasi di questo genere: “L'uomo diventa tanto più uomo quando non è unito al suo paese».

Anche la propaganda hitleriana era basata come quella americana, di oggi, su questo stesso dualismo. il popolo tedesco parlava di sé come di un popolo eletto, popolo desinato a dominare il mondo; quando si rivolgeva agli altri popoli, parlava viceversa, di europeismo.

Io vorrei ricordare in questa nostra discussione le parole che net 1941, a questo proposito, scriveva un eroe e un martire della Resistenza francese, Giorgio Politzer, su un fascicolo clandestino di una delle riviste più autorevoli della cultura francese La Pensee libre, esse si attagliano proprio al caso nostro: « Noi non abbiamo bisogno - diceva parlando in polemica con gli hitleriani e interpretando il concetto hitleriano - non abbiamo bisogno di tante nazionalità in Europa. La loro esistenza è perfettamente assurda. Dal punto di vista « dell'organizzazione razionale dell'industria » due nazionalità sono sufficienti, una per gli sfruttatori e una per gli sfruttati, una per i padroni e l’altra per gli schiavi. Francesi, belgi, olandesi, russi, polacchi, cechi, servi, bulgari, sloveni, croati, rumeni, albanesi, bosniaci, ungheresi, turchi, norvegesi, svedesi, danesi, finlandesi, portoghesi, inglesi e anche italiani e spagnoli, costituiscono un lusso. È necessario capire. Questi popoli hanno il loro assurdo sentimento nazionale e le loro assurde aspirazioni patriottiche. Perché e bene il termine « assurdo » che bisogna adoperare. Ne risultano perturbazioni nella produzione, quindi una diminuzione di rendimento... Le cause di spreco e di «diminuzione di efficienza » che rappresentano il sentimento nazionale e le aspirazioni patriottiche degli schiavi devono dunque essere eliminate. Per sopprimere le lotte nazionali bisogna sopprimere le nazioni. Bisogna dunque che « la tecnica tedesca di provata superiorità » intervenga per creare, dopo il piatto unico per i tedeschi, la nazionalità unica per i popoli oppressi. A titolo di consolazione, questa nazionalità unica destinata agli schiavi, può chiamarsi « la nuova nazionalità europea ».

Queste parole, scritte nel 1941, si possono applicare perfettamente al caso nostro. Sostituite alla tecnica tedesca la tecnica americana e voi avete lo stesso risultato, la stessa coscienza cosmopolita, la stessa, coscienza europea che ci viene oggi cosi caldamente raccomandata. Il nome di cosmopolitismo, del resto, che si dà, oggi a giustificazione di questa politica borghese di capitolazione, mi suggerisce un altro paragone storico, che va, naturalmente preso con tutte le debite riserve che ci sono sempre in questi paragoni storici, e senza nessuna ombra di schematismo.

Quando la classe dirigente greca, che aveva vissuto fino allora nei quadri della polis, giunse alla decadenza e si mostrò incapace di guidare ulteriormente le sorti del popolo greco, si piegò sotto la pressione dell'impero macedone ed accettò di federarsi nella lega di Corinto - come noi oggi ci federiamo nel Consiglio d'Europa - una lega che avrebbe dovuto essere una lega ellenica, ma che anche essa, come il nostro Consiglio di Europa, aveva un capo extra-ellenico.

Gli appelli all’unità ellenica avevano risuonato anche prima del IV secolo in Grecia, come hanno risuonato in Europa prima di oggi, ma le classi dirigenti greche finché avevano potuto svolgere la propria politica di arricchimento e di dominio nel quadro della polis avevano irriso alle « utopie » del cosmopolitismo. Soltanto quando si trovarono impotenti anch’esse ad assolvere al proprio compito storico, quando si trovarono condannate dalla, storia, accettarono, sotto la pressione di un imperialismo straniero, di inquadrarsi in questa nuova disciplina che veniva ad esse imposta, e chiamarono questa disciplina cosmopolitismo. Anche allora non mancavano gli pseudo democratici, come Eschina, che suggerivano a Filippo di Macedonia di svolgere la sua politica cli conquista, ma di fare largo uso della parola « libertà ». E non mancavano uomini, come Isocrate, che facevano bellissime orazioni in difesa dell'ellenismo e salutavano in Filippo di Macedonia, conquistatore e padrone, il realizzatore dell’unità ellenica. E anche allora la lega di Corinto dichiarava di sorgere, come si fa oggi, per difendere due principi ideali: la pace e la concordia. La pace! La prima cosa che decretò fu la guerra contro la Persia in ottemperanza ai desideri espansionistici di Filippo.

La concordia! La concordia significava allora impedire qualunque tentativo cli modificare l'ordine sociale costituito nelle singole citte; la concordia significava allora consolidare il dominio delle oligarchie esistenti e irrigidire i rapporti sociali a tal punto che, nel piano di fondazione della lega, si prescrisse perfino il divieto di affrancamento degli schiavi, perché sembrava una misura troppo rivoluzionaria. Questo, dice un grande storico della Grecia, il Glotz, perché «il synedrion degli Elleni non è che uno strumento nelle mani di un padrone. E Filippo, che lo conduce o lo fa convocare, perché egli e il comandante militare. E lui, probabilmente, che nomina, come missi dominici, i personaggi incaricati di sorvegliare le città sospette. Egli è tutto, perché è e resterà il comandante dell'esercito, il capo di guerra. Per cominciare, fa fare in tutte le città un censimento degli uomini in grado di portare le armi al fine di stabilire i contingenti da esigere. Eccola l'unita della Grecia, dice Glotz, come si è fatta «sull'ordine del Macedone ». I greci giustificarono anche allora, come dicono oggi le nostre classi dirigenti, questa loro politica di capitolazione e conservazione con il nome di cosmopolitismo.

E in nome di questo andarono a combattere per i loro padroni. E quando i greci, combattendo nelle file macedoni, ebbero invasa la Persia, trovarono dall'altra parte altri 20 mila greci che combattevano nell'esercito del Gran Re. Quelli che erano i valori spirituali che la vecchia civiltà greca aveva elaborato durante il suo splendore, non andarono certo perduti, ma questa politica di asservimento allo straniero, dopo avere ridotto i greci a semplici mercenari, li condannò a una decadenza da cui non si sono più risollevati.

Le condizioni storiche oggi sono molto diverse. Vi sono oggi classi progressive, capaci d’imprimere un nuovo corso alla storia di Europa. Ma lo spirito con cui la nostra borghesia, nazionalista fino a ieri, difende oggi questo suo preteso cosmopolitismo, non è diverso dallo spirito con cui le decadenti classi dominanti nella Grecia cercarono di salvare i propri privilegi sotto la protezione di un padrone. Anche la nostra borghesia, finché ha trovato la possibilità di difendere i suoi privilegi e di realizzare la sua politica nel quadro dello stato nazionale, si è irrisa di questi progetti di unità europea, cd super-nazionalità.

I progetti di Briand del 1930 sono falliti, onorevole Sforza, non come ella ha detto Bruxelles, perché troppo complicati - ella sa molto meglio di me che al tavolo diplomatico ci è sempre modo di risolvere questi problemi puramente formali - sono falliti perché il capitale finanziario allora si muoveva ancora nel quadro dello stato nazionale; eravamo ancora in fase di grave conflitto tra i capitali finanziari del singoli paesi; il capitale europeo non aveva ancora trovato un capitale più forte, come quello americano che lo riducesse all'obbedienza. L'Europa non aveva ancora allora trovato la sua vera capitale a Wall Street. Questa la ragione per la quale nel 1930 sono falliti i progetti di Briand. Questa la ragione per cui oggi si realizzano i nuovi progetti.

Ecco pertanto la mia conclusione. Noi non vogliamo assurdi ritorni al passato. il processo di concentrazione capitalistica e in atto; il processo di predominio del capitale finanziario segue il suo corso; esso ingigantisce le contradizioni di classe, ingigantisce le contradizioni del mondo capitalistico. E noi socialisti siamo la coscienza vivente di queste contradizioni, che nascono da questo mondo e da questa società. Il capitalismo tende a coprire la sua brutale politica con un'apparenza ideale, cerca di risolvere su questo piano puramente formale le sue 'interne contradizioni. Coloro che, coscientemente o incoscientemente, sono al servizio degli interessi del grande capitale, sono sempre pronti a tradurre in linguaggio idealistico le brutali soperchierie e le imprese del capitalismo. E’ il compito di un Leon Blum e di un Andre Philip.

Il compito nostro, il compito di un partito di classe è quello di ritradurre in linguaggio di classe queste contradizioni del mondo capitalistico, è, per esprimersi con frase marxista, quello di rendere ancora più oppressiva l'oppressione reale aggiungendovi la coscienza dell'oppressione, di lottare cioè non per contrastare il cammino della storia; ma, per fare sfociare le contradizioni, che lacerano questo mondo, nella loro vera soluzione, per risolverle non sul terreno formate e giuridico; ma sul terreno reale del superamento delle contradizioni, cioè dell'avvento di una società migliore.

Noi voteremo quindi contro questa ratifica, perché nel Consiglio europeo vediamo molto più di quanto non sia scritto in questi articoli: vediamo una unità europea che vuol raggiungersi al servizio dei trusts americani; vediamo i passi già fati e quelli ancora da fare semplicemente come condizioni per la migliore attuazione di una politica di classe, che noi condanniamo.

Voi passerete oltre alla nostra opposizione, come passerete oltre alla nostra opposizione al patto atlantico. Gli strumenti di questa politica di dominazione, di questa politica di lacerazione interna, di profondi conflitti continueranno ad accumularsi nelle vostre mani e nelle mani dei vostri amici di oltre Atlantico; e nella misura in cui voi li accumulate, voi esasperate le contraddizioni della società, voi acuite la lotta di classe; nella, misura con la quale li accumulate, voi avvicinate la nostra vittoria.

E’ stato detto che quando la notte appare più buia, l'alba è vicina; quanto più voi crederete di aver garantito la vostra sicurezza, quanto più voi crederete di avere assicurato il vostro dominio e di avere steso sull'Europa l'ombra buia di questa reazione, tanto più vicina sarà l’alba del nuovo giorno che sta per spuntare. Noi ne abbiamo la certezza, signori del Governo, perché noi siamo fra coloro che non hanno bisogno di aspettare che il sole sorga, per credere alla luce. (Vivissimi applausi all'estrema sinistra - Molte congratulazioni)



[Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, I legisl., Discussioni, seduta del 13 luglio 1949, p. 10292-10302]




sabato 2 maggio 2020

Imperialismo, schiavitù e democrazia. Storia di una contraddizione liberale

Liberalismo e questione coloniale: quali rapporti? Storia di una contraddizione 
 
Dalla copertina del saggio di D. Losurdo "Controstoria del liberalismo"


Un aspetto tipico dell’epoca culminate dell’imperialismo europeo nella sua fase “classica” (anni tra il 1870 e il 1914) è stata la dicotomia tra la retorica dei principi idealistico-egualitari predicati sul piano nazionale dalle potenze coloniali europee e la prassi di violenza ai danni delle popolazioni soggette nelle colonie[1]. Tale stridente dicotomia servì sul piano pratico al fine di garantire l’ordine interno dei paesi dell’Occidente europeo nel corso dell’età liberale[2].



1. Introduzione

In Gran Bretagna, più che in ogni altro paese, in virtù del forte radicamento dei principi del liberalismo, tale contraddizione apparve evidente. L’anticolonialismo liberale era ormai minoritario, se non scomparso del tutto, nell’epoca del trionfo imperialistico di fine Ottocento. Il sentimento di ostilità verso lo sfruttamento delle colonie, se è vero che è appartenuto alla tradizione liberale, non ha però invertito la marcia dell’espansione delle potenze europee specie nell’epoca di irraggiamento coloniale nel corso del XIX secolo. Raymond Betts ha affermato che «l’assunto storico secondo cui esistette un’era anti-imperialistica, tipica della “Little England”» che, a partire dall’anno della pubblicazione dell’opera di Smith, La ricchezza delle Nazioni (1776) si sarebbe estesa fino al periodo dell’abolizione dei dazi sul grano in Inghilterra (1846), equivale di fatto a un «mito storico»[3]. Sebbene infatti tale periodo sia coinciso con una fase di ripudio generale del ruolo delle colonie, all’inizio del secolo XIX prese piede un «imperialismo del libero scambio», guidato dall’iniziativa prevalentemente privata, contrapposto al sistema di colonizzazione mercantile[4].
Sulla sfiducia verso una colonizzazione massiccia guidata dallo Stato, pesava da un lato l’esperienza di emancipazione conseguita dalle colonie americane (sottoposte al governo spagnolo, portoghese e inglese), influenzata dagli ideali della rivoluzione francese e stimolata dalle guerre napoleoniche, dall’altro il tramonto del modello mercantilistico di controllo coloniale fondato sulla costruzione di costosi apparati amministrativi[5]. Le teorie di Edward G. Wakefield e Robert Torrens, che teorizzavano l’emigrazione nelle colonie come valvola di sfogo rispetto alle pressioni malthusiane in Inghilterra, nei primi decenni del XIX secolo inaugurarono una nuova fase “informale” dello sviluppo del fenomeno imperialistico[6]. Sebbene il liberoscambismo premesse per la liberazione delle colonie, l’emancipazione fu ben difficilmente conseguibile come dimostra la continua espansione coloniale europea, specie dell’impero britannico[7]. Il liberalismo ideologico aveva manifestato sentimenti di rifiuto dello sfruttamento coloniale, ma nell’Inghilterra dell’età vittoriana una tale dottrina era pressoché svanita già attorno alla metà del XIX secolo, quando il pensiero liberale era giunto a maturare un atteggiamento «favorevole a un imperialismo tutto sommato remunerativo»[8].
Betts ha rilevato due fasi nel rapporto tra ideali liberali e colonialismo: una prima fase, coincidente con i primi decenni del XIX secolo, in cui il liberalismo influenzò la colonizzazione come atto di civilizzazione e mera pratica commerciale all’insegna del “libero scambio”, e una seconda, a partire dalla seconda metà del secolo, in cui il progressivo declino del pensiero universalistico e liberale coincide con una sempre più accentuata funzione imperiale diretta soprattutto al dominio e alla sottomissione dei popoli coloniali[9]. Il mutato atteggiamento era stato riassunto da Palmerston nel 1860 quando osservò che «sotto un certo punto di vista, devo dire onestamente che il commercio non ha bisogno di essere sostenuto dai cannoni; ma sotto un altro, il commercio non può fiorire senza la sicurezza, e spesso non è possibile ottenere questa sicurezza senza esibire la forza militare»[10]. Eppure operare distinzioni e identificazioni nitide tra i due filoni politici prevalenti in Inghilterra (conservatori e liberali) e altrettanto nette posizioni in tema di colonialismo può risultare difficile se non fumoso. Ciò non solo a causa della sostanziale continuità del fenomeno imperialistico durante l’Ottocento, che fu affrontato da governi di segno politico ora conservatore ora liberale, ma anche in virtù della complementarietà del ceto politico inglese, in cui spesso elementi tories giungevano a diventare esponenti whigs di orientamento anche avanzato.
La persistenza della classe politica inglese si fondava su un impianto elettorale caratterizzato da collegi ristretti e sull’esclusione di intere comunità e città popolose.  Ciò contribuiva a perpetuare l’esistenza di un ceto politico ristretto, la cui egemonia era difficilmente scalfibile dal voto. Un passaggio nella direzione del suffragio eguale fu operato solo con il Reform Bill del 1867, ai cui tempi Londra aveva diritto a soli quattro rappresentanti presso la Camera dei comuni[11]. Se non è possibile dissociare chiaramente liberalismo e conservatorismo dal fenomeno imperialistico ottocentesco, tanto che questi due movimenti politici vennero a costituire alla metà del XIX secolo un solido blocco storico, è possibile tuttavia affermare che l’imperialismo è stato un fenomeno che ha attraversato la storia britannica e europea nel corso del XIX secolo, fino alla prima guerra mondiale e oltre, ed è possibile sostenere che sia stata una delle costanti e di quei dati indubitabili dai quali è impossibile prescindere nel delineare un quadro della politica europea di quest’epoca.

Sul piano delle relazioni internazionali il divario teorico-pratico fra l’ideologia liberale e l’effettiva attività politica, ben comune all’intero milieu politico inglese, sebbene più peculiare dell’ala whig, è stato ben evidenziato da Paul Kennedy:
Formalmente, tutti i membri del partito rendevano omaggio ad alcuni valori fondamentali: la libertà di commercio; la disapprovazione dei regimi autoritari dell’Europa centrorientale – da cui derivava la simpatia per le aspirazioni all’indipendenza del popolo italiano, greco e polacco; il rifiuto di alleanze vincolanti con altre potenze europee, lo scarso entusiasmo per l’espansione coloniale; e una moderata preferenza, ferma restando la necessità di preservare la supremazia marittima della Gran Bretagna, per la riduzione delle spese militari e il superamento delle controversie internazionali tramite trattative e soluzioni di compromesso piuttosto che con la guerra. Ciò nonostante, non si poteva essere certi che la politica realmente praticata sarebbe stata in armonia con questi ideali. [12]
Alcuni filosofi come il proto-liberale Jeremy Bentham, maestro di un altro ideologo liberale come John Stuart Mill, erano stati sfavorevoli all’imperialismo e allo sfruttamento delle colonie accampando la non utilità delle stesse e invocando la loro emancipazione[13]. Ma nella politica realmente praticata tali ideali dovettero trovare un compromesso con le esigenze legate al mantenimento dell’impero, e ciò è valido non solo per l’Inghilterra ma anche per il resto del continente. Già prima del 1914 l’anticolonialismo aveva finito per divenire proprio delle forze politiche di sinistra e con l’avvento di Benjamin Disraeli al potere in Inghilterra, il quale teorizzò l’importanza dello slancio coloniale inglese durante un famoso discorso al Crystal Palace di Londra nel 1872[14], l’imperialismo era divenuto una componente imprescindibile per le classi dominanti inglesi di ogni segno politico[15].
Disraeli pronunciò in quel discorso parole di biasimo contro i liberali anticolonialisti, dando inizio ad un epoca in cui l’imperialismo era strettamente associato agli ideali di un saldo liberalismo, benché sulla via del declino, e in cui la spinta coloniale si legava sempre più alla costruzione dell’identità nazionale. Disraeli, ritornato al potere nel 1874 succedendo a Gladstone, inaugurò un’epoca in cui le riforme per il risanamento edilizio, la sanità pubblica, le tutele sul lavoro si accompagnavano alla difesa dell’impero, il quale se andava incoraggiato nell’autogoverno, doveva essere mantenuto coeso tramite una struttura tariffaria comune e accordi di difesa reciproca[16]. L’affermazione del liberalismo in connubio con l’imperialismo segnava una crisi del liberalismo tradizionale “classico”, ma al tempo stesso fu l’inizio di una trasformazione foriera di grandi mutamenti che sarebbero giunti a maturazione nel corso del Novecento (dal ruolo dello stato, alla crisi del libero scambio, alla crescita del nazionalismo associato alla grande espansione coloniale)[17].

Benjamin Disraeli

2. Imperialismo sociale e “doppio standard” liberale

Eric Hobsbawm ha posto in luce il rapporto stridente e contradditorio tra le forze operanti interamente ai regimi liberali che - sulla base al darwinismo sociale allora imperante - premevano per la prevalenza del più forte in campo economico e il resto dell’impero abitato dalle popolazioni coloniali indigene. Tale elemento costituiva però un fattore di duplice debolezza, un’arma «a doppio taglio»[18]. Se l’Europa si cullava nel «vivere di rendita» sulle spalle delle popolazioni coloniali, intravedendo la decadenza dietro il venir meno di energie che facevano leva sull’apporto di forze esterne, al tempo stesso «gli incubi dell’impero» tendevano a fondersi «con il timore della democrazia», in quanto la metropoli capitalista, pretendendo di «esportare la civiltà nel mondo coloniale», incorporava un doppio rischio, sul piano interno e sul piano internazionale[19]. L’Occidente si trovava a fa fronte oltre che al rischio di rivolta nelle colonie, anche a dover risolvere la questione sociale interna e la montante insofferenza della classe operaia[20].
L’imperialismo ebbe delle inevitabili ricadute negative sul piano sociale, a dispetto dei sostenitori di un espansionismo come valvola di sfogo dalle pressioni interne, soprattutto in Inghilterra, dove i teorici britannici del liberalismo non si fecero specie a sostenere l’impero come normale prassi di gestione degli affari e della vita politica, «invocando la rilevanza politica di categorie quali l’etnicità, le gerarchie di civiltà, e talvolta, la razza e i legami di sangue»[21].
I sostenitori dell’imperialismo sociale sottolineavano i «benefici economici che l’impero poteva recare, direttamente o indirettamente, alle masse malcontente», ovvero tendevano a configurare una nuova barriera, tra comunità bianca e le colonie, facendo cadere quella interna alla comunità bianca che, in quel tempo, conobbe un consistente processo di democratizzazione, sebbene segnato da difficoltà e contrasti e limitato alla sola componente maschile della società[22]. Tra questi imperialisti vi furono Cecil Rhodes, primo ministro della Colonia del Capo (1890-1895) o l’altrettanto noto Alfred Milner, autorevole sostenitore, accanto al ministro delle Colonie Joseph Chamberlain, del federalismo imperiale britannico fondato sull’identità di sangue anglosassone[23].
In altri termini, come rileva Losurdo, con il nuovo modello di imperialismo sociale o di “socialismo imperiale” (Imperialsozialismus) «alle limitate riforme sociali delle classi dominanti, le classi popolari e il proletariato sono chiamati a rispondere con il lealismo patriottico e l’appoggio all’espansionismo coloniale»[24]. Le masse venivano chiamate a partecipare al processo espansionistico coloniale, sostenuto dalle classi che avevano un interesse diretto nella sua prosecuzione e espansione, in cambio di una limitata partecipazione alla politica nazionale, la quale era volta, più che a migliorarne le condizioni, ad eleggere i nuovi cittadini della nazione ad uno status superiore, in cui caratterizzazione nazionale e sponsorizzazione dell’imperialismo erano visti come forme identitarie di contrapposizione alle colonie popolate da razze considerate inferiori.
Betts ha rilevato in effetti come l’imperialismo nascesse dagli squilibri economici interni all’Europa (innescati dalla seconda rivoluzione industriale) e fosse la risposta alle pressioni del complesso militare-industriale del tempo. Tali pressioni dettero luogo ad una sindrome da «imperialismo ansioso» (il Torschlusspanik tedesco) che condusse a un così rapido irraggiamento coloniale alla fine dell’Ottocento[25].
Sulla nuova fase di espansione iniziata nella seconda metà del XIX secolo pesò il ruolo della crisi economica. Alla grande depressione (esplosa nel 1873) che aveva colpito le principali economie globali nel terzultimo decennio del XIX secolo, si tentò di dare uno sbocco per mezzo dell’imperialismo, il quale poté svolgere un ruolo decisivo. Come ha notato Hobsbawm «la coincidenza cronologica tra la Depressione e la fase dinamica della spartizione coloniale del globo è stata spesso rilevata», e di fatto proprio la crisi degli anni Settanta, la nuova corsa alla spartizione dell’Africa, decisa a tavolino nella Conferenza di Berlino (1884), determinano quelle pressioni del capitale «in ricerca di investimenti più proficui» che sono all’origine del nuovo espansionismo[26].  Paul Kennedy ribadisce che «la competizione per le colonie della metà degli anni ottanta derivò in misura considerevole dalle angosce economiche della decade precedente»[27].
Una conferma di tale tesi è fornita dall’impronta lasciata da Jules Ferry nella storia del colonialismo francese fino al 1890. Il repubblicano Ferry, nominato primo ministro nel 1881, sebbene inizialmente scettico sul ruolo della spinta coloniale sul piano interno, sposò poi la causa imperiale avviando dapprima l’impresa di Tunisi, poi proseguendo nella conquista dell’Indocina, del Madagascar e nell’estensione dei possedimenti francesi in Africa occidentale[28]. Ferry rimase noto per aver stabilito la connessione tra politica industriale nazionale e politica coloniale, aggiungendo a questa saldatura, la pratica del colonialismo come civilizzazione delle razze ritenute inferiori. Egli se in patria fu artefice di una riforma dell’istruzione che garantiva l’obbligatorietà e gratuità dell’istruzione elementare, al tempo stesso risultò il creatore della presenza francese in Indocina, che sarà «descritta come l’equivalente francese dell’India britannica nei successivi annali dell’impero»[29].
Tra i teorici marxisti della teoria dell’imperialismo che ritennero il fattore economico preponderante nello sviluppo del fenomeno colonialista, il saggio di Lenin del 1916 introduce la lettura dell’imperialismo come fase culminante del processo di sviluppo capitalistico, ovvero come stadio specifico dello sviluppo del capitalismo occidentale, ed europeo in particolare[30].  Il saggio Lenin si rifà all’opera dell’economista inglese J. A. Hobson (Imperialismo, 1902), al quale si deve l’avvio del dibattito attorno a un fenomeno che, secondo Lenin, prende corpo attorno alla seconda metà del XX secolo o al più nell’ultimo quarto del medesimo (in coincidenza con la guerra ispano-americana e la guerra anglo-boera) e si conclude, nella sua fase precipua, con lo scoppio del primo conflitto mondiale[31]. Tra coloro invece che hanno negato risolutamente una genesi economica del colonialismo e che non attribuiscono al colonialismo, e quindi all’imperialismo, il carattere di elemento dell’accumulazione originaria[32], si segnala la posizione dello storico Paul Bairoch[33].
A conferma del permanere di squilibri interni agli stessi regimi liberali nonostante l’epoca del trionfo coloniale, se si guarda bene alla realtà sociale degli stessi sistemi, si vede come fosse perpetuata una «sistematica esclusione politica di una varietà di gruppi e tipi di persone» anche sul piano interno e non solo nella opposizione tra il «parassitismo delle metropoli» e il temuto «trionfo dei barbari»[34]. «La tradizione liberale» in quest’epoca, secondo Losurdo, non avrebbe infatti conosciuto «alcuna contraddizione tra conclamata uguaglianza giuridica e pratica dell’esclusione dai diritti politici dei nullatenenti e delle donne»[35].
Non solo quindi i rapporti di tipo coloniale si trovavano «a coesistere in profonda tensione con il discorso universalistico che scaturiva dalle idee di libertà e di progresso sociale» ufficialmente praticate[36], ma esistevano anche disparità sociali e tensioni all’interno del corpo sociale e politico degli stessi regimi liberali. Come sintetizza Losurdo, per stare al confronto con le colonie collocate nell’emisfero americano, «quelli che su una riva dell’Atlantico si configurano come rapporti di classe sull’altra si presentano come rapporti di razza»[37]. I Virginiani difatti, primi coloni del nuovo continente, se da un lato intendevano farla finita con l’ancien regime, al tempo stesso tradussero in razzismo al loro arrivo in America quello che era il disprezzo da essi nutrito per le classi inferiori: «agli occhi dei gruppi dirigenti del paese – è stato osservato – la società era divisa tra una classe di coloni-padroni e una di paria che raggruppava indiani, mulatti e neri»[38].

3. Proprietà “assoluta” e autogoverno della colonia

Per spostarci sul piano delle colonie, un’altra contraddizione tra ideali e prassi politica liberali riguardava la coesistenza tra norme e istituzioni volte a limitare il potere della monarchia e della classe nobiliare all’interno degli emergenti regimi liberali (sin dall’epoca di Locke, prima ancora che di Montesquieu), a tutela della classe possidente liberale, e il ricorso a un “potere assoluto”, ovvero sciolto da vincoli, da parte dei coloni, spesso proprietari di schiavi:
Il principio della limitazione del potere veniva fatto valere nell’ambito della comunità bianca, ma non per quanto riguardava il rapporto che quest’ultima intratteneva nelle colonie con la popolazione di colore e di origine coloniale; era considerato valido nell’ambito dello spazio sacro, ma non in relazione al rapporto tra spazio sacro e spazio profano[39].
L’eguaglianza rivendicata dai proprietari delle colonie rispetto ai gentiluomini londinesi andava di pari passo con il conculcamento dei diritti degli indigeni e con la «reificazione dei servi che tendono a essere assimilati agli altri oggetti di proprietà»[40]. I coloni, come osserva lo storico Macaulay, sono assimilabili a una «casta sovrana», paragonabile a quella presente a Sparta, che esercita un potere indiscriminato sugli schiavi[41].
Ma in realtà tale disparità non risulta così inimmaginabile. Il potere assoluto dei proprietari era già una pretesa dei proprietari borghesi a metà Seicento, tanto che Locke, secondo Laski «sintetizzò, non innovò, quando disse che “il potere supremo non può sottrarre a nessun uomo alcuna parte della sua proprietà senza il suo consenso”»[42]. La contraddizione è quanto mai evidente nelle colonie, e non solo nella metropoli europea, tanto che al fine di evidenziare la disparità tra autogoverno come pretesa di libertà delle istituzioni coloniali e pratica della schiavitù ancora Losurdo afferma:
Mentre stimola lo sviluppo della schiavitù-merce su base razziale e scava un abisso insormontabile e senza precedenti fra bianchi e popoli di colore, l’autogoverno della società civile trionfa agitando la bandiera della libertà e della lotta contro il dispotismo. Fra questi due elementi, che vedono la luce assieme nel corso di un singolare parto gemellare, si istituisce un rapporto ricco di tensioni e contraddizioni[43].
Solo con la conquista dei diritti politici da parte della popolazione nera negli Stati Uniti a partire dal sesto decennio del XIX secolo (e dunque con l’influenza della rivoluzione abolizionista), la classe operaia dei bianchi otterrà in Inghilterra, attraverso il secondo Reform Bill (1867), l’allargamento del suffragio[44]. Se il Reform Act del 1832, che aveva portato a un primo allargamento del diritto di voto, aveva avuto ragioni endogene all’Europa, avendo fatto seguito agli eventi della rivoluzione di Luglio in Francia, il Reform Act del 1867 subì l’influsso determinante del successo della causa antischiavista sull’altra sponda dell’Atlantico[45]. Interessante notare anche come l’imperialismo sociale di Disraeli, che procede ad attuare il secondo Reform Act, coincida con la fase più acuta di affermazione dell’imperialismo inglese su scala globale[46].
Losurdo sostiene che l’assenza del freno da un lato del potere civile e del governo della madrepatria (che avrebbe voluto interdire l’espansione dei coloni al di là degli Appalachi)[47], dall’altro di quello delle autorità religiose, sanciscono un dominio assoluto e un potere incondizionato, per parafrasare Locke, sulla popolazione degli schiavi[48]. La tendenza all’instaurazione di un potere privo di vincoli nelle colonie da parte dei proprietari precede addirittura di un secolo la Rivoluzione americana, la quale segna il trionfo dell’autogoverno coloniale. La rivolta di Nathaniel Bacon contro il governatorato di William Berkeley in Virginia, una delle prime sovversioni coloniali nelle Tredici colonie motivate dal risentimento anti-indiano, risale già al 1676, mentre le spedizioni di William Walker in America centrale (Nicaragua e Messico), motivate da ragioni di conquista e volte a reintrodurre il sistema di sfruttamento schiavistico laddove era stato abolito, si svolgono addirittura a ridosso della guerra di secessione [49]. In un discorso nel 1901 Theodore Roosvelt attuava ex post la rivendicazione dell’autogoverno come affrancamento dal contenimento territoriale imposto da Londra:
Il fattore principale nel produrre la Rivoluzione, e più tardi la guerra del 1812, fu l’incapacità della madrepatria a comprendere che gli uomini liberi, i quali avanzavano nella conquista del continente, dovevano essere incoraggiati in quest’opera. L’espressione dei duri, avventurosi uomini della frontiera era per gli statisti di Londra causa di ansietà piuttosto che di orgoglio, e il famoso Qebec Act del 1774 fu in parte architettato con lo scopo di mantenere permanentemente ad est degli Allegani le colonie di lingua inglese e conservare la possente e bella vallata dell’Ohio come terreno di caccia per i selvaggi[50].

Theodore Roosvelt

Una delle motivazioni principali della guerra di indipendenza, lo conferma lo stesso Roosvelt, fu legata all'imposizione da parte della corona inglese di vincoli all’espansione dei coloni al di là della catena degli Appalachi. Tale limitazione venne sancita inizialmente dal proclama di Giorgio III del 1763 e venne poi ribadita alla vigilia della Rivoluzione dal Quebec Act del 1774. In base a questa legge i territori tra l’Ohio e il Mississippi inglesi strappati alla Francia durante la guerra dei sette anni venivano inclusi nella provincia del Quebec, venendo sottratti di fatto ai coloni.
La limitazione venne severamente contestata, tant’è che, a guerra d’indipendenza conclusa, il territorio dei tredici Stati si estendeva ben ad Ovest della linea del proclama del 1764[51]. Il blocco all’emigrazione avrebbe ostacolato la penetrazione dei pionieri oltre la zona di confine e posto un argine all’emigrazione della popolazione eccedente. Il trattato di Versailles del 1783, che sanciva il riconoscimento dell’indipendenza degli Stati Uniti, spostò infine il confine statunitense dalla linea degli Allegani al fiume Mississippi, favorendo l’acquisizione di nuovi territori, mentre a Nord e a Sud si decise che il confine si sarebbe attestato ai Grandi Laghi e al 31° parallelo[52].
Una volta che la rivoluzione dei proprietari ha conseguito il successo e l’autogoverno è compiuto, sale alla ribalta la questione degli schiavi. La Rivoluzione americana riapre il dibattito sulla schiavitù riguardo alla sua ammissibilità nell’ambito della comunità dei liberi, dibattito che sembrava placato nell’ambito del movimento liberale (il quale sulla scorta di Montesquieu era giunto alla conclusione della sua intollerabilità in Europa). La questione coloniale riacquista in quest’epoca «visibilità e centralità nuove in un paese con una cultura, una religione e una lingua di origine europea»[53]. Si può tentare di concludere che il ruolo svolto dai padri fondatori nella perpetuazione della schiavitù, invischiati com’erano nel possesso degli schiavi, fu tutt’altro che irrilevante in un periodo in cui «il movimento per l’abolizione della schiavitù era già ben sviluppato sulle due rive dell’Atlantico»[54].


4. Pensiero liberale e questione coloniale

È lo stesso Locke, padre del liberalismo classico, a difendere il diritto “assoluto”, ovvero sciolto da vincoli, del proprietario di schiavi sulla propria merce umana, sostenendo la legittimità della schiavitù perfetta. Locke distingue tra una schiavitù “perfetta” e una schiavitù “imperfetta”: la prima si esercita in danno dei neri e dei pellirossa nelle colonie, mentre la seconda riguarda i servi a contratto[55]. Locke giustifica la schiavitù perfetta in situazione di guerra («dei prigionieri presi nel corso di una guerra legittima»), mentre afferma che un qualsiasi uomo libero può rendersi servo di un altro sotto contratto temporaneo, anche se in questo modo cesserebbe il regime di schiavitù del primo tipo[56].
Passando ad Adam Smith, il quale può considerarsi iniziatore del liberalismo moderno, si constata che l’economista inglese, pur essendo contrario alla schiavitù[57], riteneva che il grado di uguaglianza in seno alla nazione civilizzata risultasse più ampio del divario esistente fra nazione civile e nazione primitiva[58]. Adoperando come metro di giudizio comparativo tra le civiltà l’abbondanza dei beni materiali, egli affermava che «la distanza che separa un principe europeo da un contadino industrioso e frugale è meno grande di quella tra quest’ultimo e i vari re africani, padroni assoluti della vita e della libertà di diecimila selvaggi nudi»[59]. Smith sosteneva che l’abolizione della schiavitù, qualora debba attuarsi all’interno del contesto istituzionale liberale, potrà avvenire solo a condizione di compromettere la libertà degli stessi signori borghesi, dunque sotto un «governo dispotico»[60]. La schiavitù è ritenuta una componente di importanza tale da non poter essere rimossa se non andando a svantaggio della classe dominante.
Se si passa a teorici liberali settecenteschi come Hume e Kant il giudizio non muta. Hume, ritenuto fondatore della teoria liberale del diritto, benché ritenesse necessario abolire la schiavitù[61], sostenne che «si può ottenere qualsiasi cosa da un negro se gli si offre una bevanda alcolica, e si può facilmente riuscire a fargli vendere non solo i propri figli, ma la moglie e l’amante per un barile di acquavite»[62]. Kant invece, esponente della tradizione liberale tedesca, ben lontano dal concepire una dimensione universale dell’uomo, che sarà fatta propria da Hegel il quale la raccorderà con l’idea di uguaglianza[63], sosteneva che «così sostanziale è la differenza tra queste due stirpi umane [dei bianchi e dei neri] da essere tanto grande quanto la differenza di colore»[64]. Pur essendo presente in Kant il «nesso fra senso dell’”alterità” e ragione egualitaria», il che si nota in molti passaggi del suo saggio più noto Per la pace perpetua dove risente dell’influsso degli ideali della rivoluzione francese, invero in lui convive una concezione razziale che comporta un giudizio di inferiorità sul nero[65].
Montesquieu fa rientrare in una concezione deterministica ambientale la riflessione sul fenomeno della schiavitù nella propria opera. Egli giustificava la schiavitù ricorrendo all’argomento delle differenze climatiche: essa è accettabile nei paesi con climi caldi, mentre è inattuabile nelle regioni settentrionali del mondo, ovvero in Europa e in Inghilterra in particolare, luogo esclusivo della libertà (per inciso, la libertà inglese per Montesquieu discende da quella primitiva germanica)[66]. Più che sull’abolizione tout court, il discorso di Montesquieu verte sull’emendamento dell’istituto sulla base del Code Noir, emanato più di mezzo secolo prima da Luigi XIV[67].
Anche Ugo Grozio, padre del giusnaturalismo moderno, il quale avrebbe inteso «porre il diritto naturale a fondamento di un diritto che potesse essere riconosciuto come valido da tutti i popoli»[68], se da un lato idealmente celebrava il paese scaturito dalla ribellione contro Filippo II (le Province Unite), dall’altro nel De iure belli ac pacis giustificava l’istituto della schiavitù, procedendo alla degradazione dei nativi delle colonie, definiti in un unicum come «barbari». Da ciò consegue che:
In Grozio, assieme alla legittimazione implicita delle pratiche genocide in atto in America, emerge la giustificazione esplicita e insistente della schiavitù. Essa è talvolta la punizione di un comportamento delittuoso. A doverne rispondere non sono solo gli individui: «anche i popoli possono essere ridotti ad un assoggettamento pubblico a punizione di un crimine pubblico»[69].
In tutti gli autori fin qui citati traspare con chiarezza un dato: che «l’autocoscienza dell’Europa come rappresentante privilegiata o esclusiva della libertà» è in grado di condurre il «senso d’identità e di comune appartenenza, nonostante la molteplicità degli Stati che la costituiscono, ad un’entità culturale e politica unica e infinitamente superiore a tutte le altre»[70]. Un tale senso di appartenenza conduce i medesimi autori a dichiarare la superiorità della civiltà europea e del proprio modello civile tramite una contestuale riduzione d’importanza dei mondi esterni rientranti nella sfera coloniale. Il regime di soggezione, quasi attingendo a una tradizione ideologica che affonda le radici nella storia cristiana, può applicarsi bene ai popoli gentili, essendo la condizione di schiavo legittima, secondo il dettato aristotelico e paolino, in chi nasce già schiavo (o vi è destinato in quanto figlio di una “razza minore”) o vi diventa «per una causa legittima»[71].
Risulta essere insita nell’ideologia liberale e nella sua «disposizione d’animo», caratterizzata dalla difesa della libertà individuale, sin dai suoi primi teorizzatori, il non avere valore universale, «poiché il suo esercizio era limitato agli uomini che avevano una proprietà da difendere»[72].
Se si viene allo storico britannico Edmund Burke, si osserva come questi sottolineasse i legami inscindibili, di razza e cultura, tra madrepatria e colonie, affermando come fosse proprio della nazione inglese («nelle cui vene circola il sangue della libertà»)[73] un senso di libertà e di refrattarietà alla schiavitù come non si vedeva in nessun altro popolo (il riferimento è quelli oppressi dalla tirannide monarchica)[74]. L’istituto della schiavitù non è applicabile alla razza dei signori bianchi, mentre è tollerato verso i neri e le popolazioni native[75].
Un allievo della scuola di Burke è John Stuart Mill, che a metà Ottocento sostenne come il governo rappresentativo fosse esclusivo degli anglosassoni, mentre il resto della razza umana era destinato a permanere in uno stato di inferiorità[76]. Il sistema delle libertà civili risultava valido solo per «esseri umani nella pienezza delle loro facoltà», mentre ne dovevano essere escluse le «società arretrate in cui la razza stessa può essere considerata minorenne», in altre parole quando «si ha a che fare con barbari»[77].
Tocqueville infine, tra gli esponenti principali della tradizione liberale inglese sul continente, apponendo in qualche modo un sigillo sul Manifest Destiny americano, affermava che gli Indiani, prima dell’arrivo degli Europei, occupavano sì i territori nordamericani, ma senza averne il possesso, «poiché solo con l’agricoltura l’uomo si appropria del suolo e i primi abitatori dell’America del Nord vivevano dei prodotti della caccia»[78]. Così cieca è la fiducia nel ruolo colonizzatore dell’Europa, che egli intravede nella rivoluzione degli schiavi haitiani guidati da Toussaint Louverture una rovina, una «sanguinosa catastrofe»[79]. In occasione della prima guerra dell’oppio contro la Cina (1839-1842), il filosofo francese celebra «l’ultima tappa di una moltitudine di avvenimenti della medesima natura che spingono gradualmente la razza europea al di fuori dei suoi confini e sottomettono successivamente al suo impero o alla sua influenza tutte le altre razze»[80]. Appare evidente come l’appoggio del colonialismo da parte del filosofo francese ponga «in luce un “limite”, una “soglia” in senso faucaultiano» nel suo pensiero, tale che non è pensabile attuare una sottovalutazione del rapporto conflittuale che in lui si configura tra fedeltà agli ideali della libertà umana e mentalità coloniale[81]. Come si è tentato di dimostrare, tale antinomia è comune a molti autori del pensiero liberale.

5. Liberalismo e Herrenvolk democracy


Su questa schematica visione discriminatoria e giustificata da un doppio standard tra bianchi e popoli delle colonie, si fonda la categoria politica di Herrenvolk democracy, espressione composta di una parola tedesca e di una inglese che letteralmente indica la “democrazia per il popolo dei signori”. Essa trae origine dall’imperialismo e dalla realtà coloniale e la sua applicazione effettiva ha conosciuto come teatro il Vecchio continente per quanto concerne le colonie, e gli Stati Uniti per quanto riguarda il territorio degli stati del Sud[82]. Nel modello Herrenvolk la democrazia è appannaggio della razza superiore, vale a dire la comunità aristocratica dei bianchi, la quale sola può beneficiare dei diritti di uguaglianza. Per attuarsi essa richiede l’esclusione delle componenti allogene dal loro godimento.[83] La democrazia razziale ristretta ai bianchi non può essere estesa a chi per stirpe e genealogia ne è escluso.
Secondo Losurdo tale forma di democrazia «attraversa in profondità la storia dell’Occidente liberale», spingendosi fino ad oggi[84], mentre Luciano Canfora sostiene che:
L’idea che l’ordinamento politico detto «democratico» fosse legato strettamente ad un fattore che è disgustoso definire razziale, ma che esattamente così è stato presentato, era convincimento diffuso nell’Occidente euro-atlantico, e forse è tuttora alla base delle iniziative a carattere imperiale offerte da ultimo all’opinione pubblica sotto la sconcertante formula «portare la democrazia».[85]
Per citare ancora Losurdo, esiste «una linea di continuità» che «conduce da Burke a Disraeli e alle forme più virulente di imperialismo di cui il Terzo Reich è l’erede»[86]. Disraeli se amplia la base degli organismi rappresentativi, sembra intravedere nella miscegenation un pericolo di deterioramento per la razza bianca[87]. Per Disraeli il concetto di razza è un elemento fondamentale della storia, a tal punto che l’ascesa stessa dell’Occidente secondo il politico inglese può spiegarsi solo in termini di superiorità razziale dell’Europa[88]. Hannah Arendt, la quale ne Le origini del totalitarismo sussume sotto la categoria di totalitarismo anche l’Unione Sovietica (accanto alla Germania nazista), non eviterà di scagliarsi «contro le “concezioni naturalistiche”, che, a partire dalla liquidazione dell’ideale dell’egalité, si diffondono soprattutto in Inghilterra e Germania»[89].
Arendt nella sua opera più nota, a proposito della relazione tra ruolo della burocrazia e gestione dell’impero, fa notare come in realtà la prima attestazione del ricorso ai campi di concentramento (fenomeno nel quale l’idea della sottomissione di una razza o di un popolo giunge a esiti genocidi), con il loro portato di morte definito con criteri burocratici, avvenga presso l’amministrazione coloniale inglese tramite l’attuazione del «massacro amministrativo»[90]. Le pagine di Arendt forniscono elementi a favore di un’interpretazione coloniale della genesi del concetto di sterminio e più propriamente di genocidio, così come del concetto di totalitarismo, che trova anch’esso la propria origine nel contesto coloniale. Una tesi in qualche modo confermata da Niall Ferguson, il quale, smentendo la filiazione dall’ideologia totalitaria novecentesca dell’etnocidio, ha sostenuto che «il genocidio ha preceduto il totalitarismo»[91].
Parrebbe esserci una sorta di filo conduttore che, a partire da una certa area del liberalismo legata a concezioni naturalistico-positivistiche e social darwinistiche (anche se l’idea stessa maturata in ambito coloniale del dominio incontrastato di una minoranza razzialmente e socialmente distinta già ne implica il significato esclusivo), conduce ad alcune successive esperienze storiche, rintracciabili nell’apartheid nel Sud degli Stati Uniti, nel nazismo hitleriano, il cui progetto imperialistico intendeva raccogliere l’eredità storica del colonialismo europeo, fino alla politica di segregazione razziale attuata in Sudafrica[92]. Il ruolo del darwinismo sociale, una sorta di variante del razzismo biologico allora dominate, è stato quello di sostegno immancabile dell’atteggiamento imperialistico e militaristico dell’Occidente, e in particolare della Gran Bretagna, in virtù del principio della prevalenza del più forte (tanto sul piano sociale, quanto su quello internazionale)[93].
Il consolidamento di quella frattura che configura una democrazia per il popolo di signori contrapposta al resto del mondo, si è osservato come cominci dalla politica di ampliamento del suffragio scaturita in alcuni paesi liberali nella seconda metà del XIX secolo, e in particolare in Inghilterra e Francia (non a caso tra le maggiori potenze coloniali). Se sul piano interno si procede ad abbattere la barriera tra proletariato e borghesia, procedendo ad una democratizzazione faticosa, a tratti forzata e limitata, sul piano internazionale si scava sempre più il solco tra Europa, patria delle libertà, e mondo coloniale, luogo della sottomissione schiavistica. Come nota Canfora:
Si delinea, nei due paesi che si trovarono a più stretto contatto ed in maggiore sintonia dopo il «riordino» europeo stabilito dal congresso di Vienna, il contrasto che segnerà il XIX secolo tra liberalismo e democrazia, intendendosi per liberalismo non l’astratta e pur vivificante affermazione di princìpi assoluti, ma la pratica concreta dei ceti possidenti e decisi a proteggere col suffragio ristretto la loro prevalenza sociale[94].
Si opera in questo passo una distinzione molto netta tra liberalismo, quale ideologia delle classi dominanti che, attraverso il suffragio ristretto e ammesso su basi censitarie, punta a perpetrare il posto di predominio nella società della classe abbiente, e la democrazia quale forma di governo del popolo. Questa implica l’applicazione integrale del suffragio universale e non una sua limitazione in termini censitari o razziali.  Persino la pericolosa marcia indietro plebiscitaria di Luigi Napoleone del 2 dicembre 1851 svolta «in nome del suffragio universale», è parte di un più vasto e contradditorio processo di affermazione, talvolta segnato da interruzioni brusche, della democrazia e del suffragio universale su scala europea[95].
Quale luogo di applicazione di questa gigantesca “discrasia” tra diritti, sul piano della contrapposizione tra mondo europeo e mondo coloniale, la Gran Bretagna funge senz’altro da simbolo. Non sono un mistero le simpatie del Fuhrer per l’imperialismo anglosassone o per la democrazia razziale realizzata nel sud degli Stati Uniti. Adolf Hitler sul Daily Mail del 1937, riferendosi al paese patria del liberalismo, celebrava «l’attitudine coloniale storicamente unica e la forza navale della Gran Bretagna»[96]. Nel progetto di dominio europeo hitleriano iscritto nel Generalplan Ost l’Europa orientale sarebbe stata luogo di applicazione della legge coloniale e bacino di manodopera a tutto beneficio del potenziale industriale della Germania[97]. Hitler prendeva a modello l’esperienza coloniale inglese in India, puntando a creare in Ucraina un «nuovo impero indiano»[98]. Il futuro fondatore del terzo Reich auspicava inoltre l’accordo trai due paesi nordici, o tra le «due grandi nazioni germaniche» come vengono definite all’interno del Mein Kampf[99]. Questi appare l’epigono di una lunga tradizione di sostenitori dell’identità teutonica sviluppatasi sin dall’Ottocento quando, come afferma Hobsbawm, in piena epoca imperiale:
 Taluni imperialisti amavano anche sottolineare le peculiari doti di conquistatori dei paesi d’origine teutonica e specialmente anglosassone, che nonostante ogni rivalità erano, si diceva, tra loro affini; idea che echeggia ancora nel rispetto a denti stretti di Hitler per l’Inghilterra[100].
Sul finire di tale secolo conobbe ampia fortuna il «mito genealogico teutonico» che tende a far rientrare in una unica famiglia di estrazione etnica, politica, culturale e religiosa, Stati Uniti, Inghilterra e Germania, accomunati da istituzioni liberali, da un comune retroterra protestante, nonché da una prodigiosa crescita economica[101]. Se il sodalizio identitario e strategico appare conseguito tra le due nazioni più propriamente anglosassoni (Inghilterra e Stati Uniti), di più difficile realizzazione appare una unione tra Inghilterra e Germania o tra quest’ultima e gli Stati Uniti, nonostante molte alte personalità spingano verso un’alleanza tra tali paesi[102].
Ma non è solo il colonialismo inglese a fungere da modello. Il regime di segregazione razziale in atto negli Stati Uniti incontrava indubbie simpatie negli ambienti nazisti europei. Verso 1930 Alfred Rosemberg, più tardi uno dei teorici ufficiali del Reich, celebrava gli USA e in particolare il sud degli Stati Uniti, guardando al modello di segregazione razziale ivi ancora attuato[103]. L’ideologo nazista nutriva una ammirazione particolare per il suprematista  statunitense Lothrop Stoddard, il quale fu il primo autore ad introdurre il termine “under man”, che compare nel titolo di un’opera pubblicata a New York nel 1922 (The Revolt Against Civilization: The Menace of the Under-man). Stoddard individua nella guerra civile tra bianchi, ovvero nella guerra di secessione americana e successivamente nella prima guerra mondiale, l’elemento decisivo del declino del ruolo dell’Europa e della «solidarietà bianca», di fronte all’emergere delle nazioni coloniali[104]. Dal termine inglese under-man adoperato da Stoddard sarebbe derivata la traduzione tedesca Untermensch, che secondo Losurdo è il «termine-chiave suscettibile di esprimere in modo chiaro e concentrato la carica di de-umanizzazione e di violenza genocida insita nell’ideologia nazista»[105].

Lothrop  Stoddard

La reintroduzione della schiavitù in Europa e il progetto di rilancio del ruolo imperiale europeo nel mondo risultano essere il coronamento di quello che per i teorici nazisti appare il destino imperiale dell’Europa. Condotta con sistematicità dalle politiche colonialistiche europee ammantate di progressismo liberale dalla metà del secolo XX, la missione civilizzatrice dell’Europa doveva essere rilanciata dal Fuhrer il quale era intenzionato a raccoglierne e riproporne l’eredità storica[106]. Secondo Mark Mazower:
Un’autostima radicata nel cristianesimo, nel capitalismo, nell’illuminismo e in una marcata supremazia ideologica incoraggiarono gli europei a considerarsi nel lungo periodo come un modello di civiltà per l’intero globo. La loro fede nella missione internazionale dell’Europa era già evidente nel XVII e XVIII secolo e raggiunse l’apice nell’epoca dell’imperialismo. Hitler ne fu sotto molti aspetti l’epitome, giungendo (attraverso il nuovo ordine nazista) più vicino di chiunque altri alla sua realizzazione[107].

Alfred Rosemberg

Betts rinviene nel dibattito suscitato dai "socialisti della cattedra" (espressione polemica nata dal liberista tedesco H.B. Oppenheim nel libro Der Kathedersozialismus del 1872, con cui si definivano un gruppo di professori polemici contro il liberalismo classico) contro le conseguenze economiche e sociali del laissez-faire e del liberalismo, l’origine delle teorie a sostegno della spinta coloniale della Germania appena unificata (sebbene anche Max Weber ne sia stato sostenitore). L’imperialismo sociale patrocinato da Gustav Schmoller indicava nella limitazione delle pressioni malthusiane e nella risoluzione dei problemi della sovrappopolazione attraverso l’emigrazione nelle colonie la via da perseguire per evitare una proletarizzazione della società tedesca[108]. A partire dalle teorie di Wakefield, di Torrens e di Schmoller, l’imperialismo sociale avrebbe posto radici del pensiero coloniale europeo «dagli anni novanta fino alla caduta del Terzo Reich di Hitler»[109]. Per stare al caso tedesco, l’idea del “grande spazio” (Grossraum) sostenuta da Carl Schmitt in un saggio del 1939, e prima di lui da Karl Haushofer, altro non è se non il tentativo di giustificare il progetto di assimilazione da parte del Reich dei paesi confinanti di lingua tedesca e, in prospettiva, di infondere senso teorico alla creazione di una grande area continentale a guida tedesca[110].

6. Conclusioni finali

La colonia, nella visione liberale, si configura come una «pattumiera, dove sono scaricati i rifiuti della società, ovvero la popolazione penitenziaria delle metropoli» e dove si esercita inoltre lo sfruttamento della forza lavoro degli schiavi deportati dall’Africa, nonché delle residue popolazioni native e dei bianchi di condizione povera (la cosiddetta “white trash”) che subiscono un trattamento simile a quello riservato alla popolazione nera[111]. Questa componente sociale di scarto, che si configura come tale all’interno dell’Europa, viene progressivamente a costituire una élite razzialmente e socialmente distinta all’interno del contesto coloniale.
Mentre su base imperiale si stabilisce una dicotomia tra centro e periferia, ovvero si stabiliscono dei confini di ammissibilità della schiavitù tra madrepatria, dove essa è esclusa (anche se zone franche permangono nella soggezione riservata ad alcune categorie di lavoratori, come i minatori Scozzesi, costretti secondo Franklin alla condizione di «absolute Slaves»[112]), e colonie, dove ne è consentito il pieno sfruttamento, nelle stesse colonie la linea di demarcazione diventa di tipo etnico, non potendosi realizzare una delimitazione puramente spaziale o territoriale della schiavitù (come sarebbe dovuto essere nelle intenzioni di Lincoln)[113]. Gli individui bianchi, anche quelli di misera condizione, entrano a far parte di uno spazio esclusivo, quello della razza bianca, mentre i neri, siano essi liberi, siano essi schiavizzati, sono sottoposti ad ogni forma di discriminazione e persecuzione per il solo fatto di appartenere ad una razza diversa da quella dei coloni[114].
È Locke a sancire questa contraddizione, che è quella del liberalismo. Egli se nella Lettera sulla tolleranza predica la libertà del culto (per i protestanti, ma non per i cattolici), invocando la difesa dei «beni civili» (il cui abuso dovrebbe essere frenato dal «timore della pena») e affermando la separazione tra potere del magistrato civile e potere religioso a cui spetta la cura delle anime, nel Secondo trattato sul governo invece ricorre a più riprese a una forma, coma la chiama Losurdo, di «de-specificazione naturalistica»[115]  a danno degli Indiani d’America (attraverso l’uso di categorie antropologiche ed etniche e non politico-morali), equiparando le popolazioni native a «bestie selvagge» e a «bestie da preda»[116]. È pur vero che Locke, almeno in via di principio, difende nella Lettera la proprietà degli “indiani pagani”[117], anche se nel Secondo trattato si assiste a delle oscillazioni quando si parla delle terre indiane come «vergini», «incolte» e «disabitate», quindi passibili di appropriazione da parte dei colonizzatori europei[118].
Le nuove élite oligarchiche borghesi, che intraprendono la propria ascesa rompendo con la tradizione delle vecchie aristocrazie terriere, predicano maggiormente l’istituto della schiavitù, mentre Jean Bodin, teorico della monarchia, respinge la schiavitù come fatto deplorevole e esecrando[119]. Condorcet, filosofo illuminista, a fine Ottocento sottolinea come gli «stati dispotici trattano i loro schiavi meglio che quelli repubblicani»[120]. Il riferimento è alla Spagna che, pur essendo un regime monarchico, sul piano dei numeri si colloca un gradino più in basso nella macchina del commercio di schiavi. L’Olanda, luogo dove invece opera il filosofo difensore della libertà Spinoza e dove Locke redige la Lettera sulla tolleranza, paese dove l’ordinamento liberale si sviluppa un secolo prima che in Inghilterra, è il paese che mostra una più dura resistenza all’abolizionismo[121] e dove il tramonto della schiavitù all’interno delle colonie avverrà solo nel 1863, nel medesimo momento in cui, nell’emisfero occidentale, «la Confederazione secessionista e schiavista del Sud degli Stati Uniti si avvia alla disfatta»[122].
Sembra che non possa dunque istituirsi un parallelismo tra monarchia assoluta e sfruttamento schiavistico da una parte, e parlamentarismo e affrancamento dalla schiavitù dall’altra[123]. Lo sfruttamento della schiavitù non cessa neppure con il trionfo del liberalismo, a seguito della rivoluzione americana, nel paese figlio della svolta liberale britannica, gli Stati Uniti[124]. Jefferson, così come gli altri padri fondatori come James Madison e George Washington, erano implicati nel commercio degli schiavi e avevano un interesse diretto nella prosecuzione intatta dell’istituto della schiavitù nelle tredici colonie. La rivoluzione americana quindi si compie all’insegna di un clamoroso paradosso: la fondazione di una repubblica formalmente fondata sulla libertà e l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma in cui la Costituzione vigente (adottata nel 1787) tace sull’esistenza della schiavitù entro i propri confini[125].
La perenne “discrasia” tra diritti ideali e diritti reali, tra teoria e pratica, così come la disparità tra mondo coloniale e mondo dei colonizzatori hanno segnato l’epoca dell’imperialismo che ha coinciso con l’affermazione del liberalismo in Europa e nel mondo (non solo nel campo dei diritti, ma anche in quello economico e sociale). Il fenomeno della diffusione planetaria degli ideali liberali e il successivo intreccio tra liberalismo e nazionalismo manifestatosi in Inghilterra e nel Vecchio continente nel XIX secolo e che operò da detonatore dell’irraggiamento coloniale europeo (si pensi all’epoca vittoriana), se ha svolto un ruolo decisivo in Europa, lo ha avuto a ben vedere nella fase successiva di decolonizzazione in larga parte del “terzo mondo” coloniale.
L’esperienza di due dei più grandi paesi resisi indipendenti a seguito della rivoluzione anticoloniale, l’uno tramite una lotta “non violenta” (l’India), l’altro tramite una lunghissima guerra civile (la Cina), ha visto proprio nell’affermazione degli ideali tipicamente europei del nazionalismo e della formazione di una classe dominante di tendenza liberale quei passaggi fondamentali sulla strada del conseguimento della emancipazione dall’Occidente, fino a renderli protagonisti, in tempi recenti, di un nuovo stadio di azzeramento progressivo del divario (o di quella «grande divergenza» per dirla con Pomeranz) con le antiche potenze colonizzatrici[126].

Note:


[1] Sul concetto generale di imperialismo si veda W. J. Mommsen, Imperialismo, in Enciclopedia del Novecento, 1978.
[2] M. Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo. Grandi narrazioni e legittimazione del dominio occidentale, Asterios, Trieste 2008, p. 53.
[3] R. F. Betts, L’alba illusoria. L’imperialismo europeo nell’Ottocento, Il Mulino, Bologna 1986, p. 161.
[4] Il liberoscambismo si era affermato in Inghilterra tra il 1846, anno dell’abolizione del dazio sui cereali (Corn Laws), e il 1860, venendo introdotto sul continente a partire dal trattato di libero scambio anglo-francese, per poi arrestarsi con l’inizio della svolta protezionista in Germania nel 1879.
[5] Cfr. D. Kennedy, Storia della decolonizzazione, Il Mulino, Bologna 2017, pp. 16-17.
[6] R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., pp. 161-163. Lo schema di colonizzazione di Wakefield fu applicato all’Australia meridionale, mentre le teorie di Torrens si prestavano a risolvere tramite l’emigrazione l’eccesso di manodopera in Irlanda. Torrens fu un sostenitore anche del protezionismo in ambito coloniale; la sua teoria su una zona imperiale di libero scambio precede di molto le tesi di Seeley e poi di Chamberlain. Cfr. A. Roncaglia, La ricchezza delle idee, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 230.  Le tesi di entrambi pesarono sulla concezione della colonizzazione come valvola di sfogo rispetto alle pressioni malthusiane di popolazione e alla sovrabbondanza di capitali.
[7] Cfr. W. J. Mommsen, Imperialismo, cit., dove si fa notare come anche in ideologi e economisti che un tempo si qualificavano come “antimperialisti” sopravvivono elementi di approvazione dell’imperialismo, che essi rifiutavano solo come mero sistema di sfruttamento monopolistico delle colonie.
[8] B. Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Mondadori, Milano 2007, p. 14.
[9] R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., pp. 220-221.
[10] R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 89.
[11] L. Canfora, La democrazia, cit., p. 148.
[12] P. Kennedy, L’antagonismo anglo-tedesco, Rizzoli, Milano 1993, p. 95.
[13] A. Caioli (a cura di), Alle soglie dell’espansione europea. La concezione dell’impero in John Robert Seeley (1883), Università degli studi di Trieste, Trieste 1994, p. 17. Di opinione diversa sarà John Stuart Mill, discepolo di Bentham, il quale difenderà l’avvio della prima guerra dell’oppio contro la Cina, scatenata a seguito della campagna contro la vendita di oppiacei condotta dai funzionari cinesi (che condusse alla distruzione di 20283 casse di oppio detenute da mercanti occidentali), in virtù del principio della libertà dell’acquirente. Cfr. J. S. Mill, Saggio sulla libertà, prefazione di Giulio Giorello e Marco Mondadori, Il Saggiatore, Milano 2006, p.116. Cfr. A. Toynbee, Civiltà al paragone, Bompiani, Milano 1983, p. 138. Betts sottolinea come Bentham abbia sostenuto anche tesi favorevoli al colonialismo, cfr. R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 160.
[14] R. F. Betts, L’alba illusoria, p. 94.
[15] A. Caioli (a cura di), Alle soglie dell’espansione europea, cit., p.21.
[16] J. S. Olson (a cura di), Historical Dictionary of European Imperialism, Breenwood Press, Westport 1991, p. 174. Tale progetto era anticamera del disegno della creazione di una federazione imperiale britannica, che era stata sostenuta con convinzione e portata alla ribalta a fine Ottocento dallo storico inglese John Robert Seeley, membro dell’Imperial Federation League. L’idea di una federazione imperiale fondata su un «sistema preferenziale reciproco» con le colonie, una sorta di Zollverein alla tedesca su base imperiale, sarà poi ripresa dal liberale Joseph Chamberlain a partire dal 1903, ma tramontò con la sconfitta della coalizione tra conservatori e liberali unionisti, partito di cui faceva parte Chamberlain. P. Bairoch, Economia e storia mondiale. I miti e i paradossi delle leggi dell’economia in un saggio polemico e provocatorio, Garzanti, Milano 2003, p. 44.
[17] Cfr. F. Cammarano, 1880-1980. Il secolo esatto, La Lettura, 12 marzo 2017.
[18] E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi. 1875-1914, Laterza, Roma-Bari 1987, ed. spec. RCS Quotidiani, Milano 2004, p. 121. Nella contrapposizione tra barbari e popoli civili, già la civiltà greco-romana aveva distinto tra polemos e statis (in Platone) nella condotta bellica, a seconda che la guerra si svolgesse tra stessi greci (statis), degenerando in guerra civile, o tra greci e barbari (polemos); questi ultimi appartenendo a un genos completamente diverso, erano ritenuti estranei alla condotta della guerra trai greci. I latini distinguevano tra bellum e seditio, il primo combattuto contro un competitor legittimo (un nemico civile romano), il secondo contro un inimicus (un barbaro estraneo alla vita civile romana). Cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 165, M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Mondolibri, Milano 2004, p. 34. Cfr. Platone, Repubblica, 469c-471b, Cicerone, De Officis, I, 38, dove distingue molto chiaramente trai due tipi di guerra, a seconda che essa sia condotta tra romani o tra barbari. In Cesare troviamo infine il ricorso alla dicotomia hostes/adversarii, utilizzata nei due Commentarii con riferimento a Galli, Germani e Britanni in un caso, ai romani fedeli a Pompeo nell’altro.
[19] E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 122.
[20] D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 38.
[21] M. Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo, cit., p. 55.
[22] E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 104. Cfr. D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p. 114.
[23] D. Scalea, Le basi ideologiche dell’unità anglosassone mondiale, Semestrale di Studi e Ricerche di Geografia, anno XXVI, fasc. 2, luglio-dicembre 2014, p. 69. Cfr. N. Ferguson, Impero, cit., p. 210.
[24] D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p. 114.
[25] R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 96, 105.
[26] E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 65.
[27] P. Kennedy, L’antagonismo anglo-tedesco cit., p. 91.
[28] R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 99.
[29] R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 139.
[30] V. I. Lenin, L’imperialismo, cit.
[31] V. I. Lenin, L’imperialismo, cit., p. 25, 33.
[32] K. Marx, Il Capitale, a cura di A. Macchioro e B. Maffi, 3 voll, I, Utet, Torino 2013, p. 938.
[33] Cfr. P. Bairoch, Economia e storia mondiale, cit., pp. 96-113.
[34] M. Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo, cit., p. 57. Cfr. E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 121
[35] D. Losurdo, L’egalite e i suoi problemi, in “Egalite/Inegalite”, Atti del Convegno organizzato dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dalla Biblioteca Comunale di Cattolica (Cattolica, 13-15 settembre 1989), a cura di A. Burgio, D. Losurdo, J. Texier, Quattroventi, Urbino, 1990, p. 140.
[36] M. Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo, cit., p. 57.
[37] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 124.
[38] G. Turi, Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’età moderna a oggi, Laterza, Roma-Bari 2012, p.17.
[39] D. Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 67.
[40] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 298.
[41] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 247.
[42] H. J. Laski, Le origini del liberalismo europeo, La Nuova Italia, Firenze 1962, p. 117. Cfr. Due trattati sul governo, II, 171.
[43] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 42. Tocqueville, acuto osservatore della società americana, sottolinea chiaramente questo aspetto: «Questa concezione aristocratica della libertà produce, presso quelli che così sono stati educati, un sentimento esaltato del loro valore individuale e una gusto appassionato per l’indipendenza», cit. in D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 123.
[44] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 71.
[45] L. Canfora, La democrazia, cit., p. 104.
[46] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 223.
[47] Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 147.
[48] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., pp. 40-41 passim.
[49] D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p.32.
[50] D. Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 216. Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 299 ss.
[51] M. A. Jones, The Limits of Liberty – American History 1607-1992, Oxford University Press, 1995, trad. it. Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, ed. RCS Libri, Milano 2004, p. 53 e pp. 78-79. Cfr. Alexander Hamilton, John Jay, James Madison, Il federalista, Raccolta di saggi scritti in difesa della Costituzione degli Stati Uniti d’America approvata il 17 settembre 1787 dalla Convenzione federale, trad. it. di Bianca Maria Tedeschini Lalli, Nistri-Lischi, Pisa 1955, p. 36.
[52] AA.VV, Atlante enciclopedico Touring. Storia moderna e contemporanea, vol. 5, Touring Club Italiano, Milano 1990, pp. 66-67.
[53] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 54.
[54] N. Ferguson, Civilization. The West and the Rest, Penguin Books, London 2011, p. 129, cit. in D. Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 155.
[55] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 46.
[56] J. Locke, Due trattati sul governo, II, 24, 85. Per la distinzione tra schiavitù dei neri e servitù bianca si veda E. Williams, Capitalismo e schiavitù, prefazione di Lucio Villari, Laterza, Bari 1971, pp. 18-22.
[57] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 13.
[58] A. M. Iacono, Congetture illuministiche sulla storia della civiltà: Kant, l’eguaglianza e il problema dell’altro, in “Egalite/Inegalite”, cit., p. 109.
[59] Cit. in A. M. Iacono, Congetture illuministiche sulla storia della civiltà, cit., pp. 109-110. Adam Smith mette in atto un’ideologia di tipo economico iniziata con Locke e la sua teoria della proprietà, interpretabile nei termini del «primato del rapporto uomo-cosa sul rapporto uomo-società». Essa sarà criticata da Marx quando ne Il Capitale sostenne: «La sfera della circolazione, o dello scambio di merci, entro i cui limiti si muove la compravendita della forza lavoro, era in realtà un Eden dei diritti innati dell’uomo. Qui regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham». Cfr. Marx Il Capitale, cit., p. 271.
[60] D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p. 135. In modo analogo ragiona Hegel, per il quale l’abolizione della servitù della gleba passa per la limitazione della libertà dei signori feudali.
[61] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 164.
[62] D. Losurdo, Idee d’Europa e ideologie della guerra, in «Idee di Europa: attualità e fragilità di un progetto antico», a cura di L. Canfora, Dedalo, Bari 1997, p. 46.
[63] Cfr. D. Losurdo, L’egalite e i suoi problemi, in Egalite/Inegalite”, cit., pp. 146-147.
[64] A. Iacono, Congetture illuministiche sulla storia della civiltà, cit., p. 113.
[65] Ibidem. L’opinione di Kant sul nero è gravata di una valutazione basata sull’esperienza degli uomini deportati dai negrieri.
[66] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 47. Id, Idee d’Europa e ideologie della guerra, cit., p. 48.
[67] Montesquieu ritiene dunque che sulla questione della schiavitù possano essere mutuate norme di antico regime.
[68] G. Fassò, Giusnaturalismo, in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio e N. Matteucci, Utet, Torino 1983, p. 438.
[69] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 24-28.
[70] D. Losurdo, Idee d’Europa e ideologie della guerra, cit., p. 48. Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 245.
[71] Aristotele, Politica, I, 4-5. Sulla natura «servile» dei barbari cfr. Politica, III, 14. San Paolo, Lettera agli Efesini. Cfr. F. Hartog, Fondamenti greci dell’idea d’Europa, in «Idee di Europa: attualità e fragilità di un progetto antico», cit., p. 24.
[72] H. J. Laski, Le origini del liberalismo europeo, cit., p. 4.
[73] D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., p. 72.
[74] D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., p. 11.
[75] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, cit., p. 18. Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 56.
[76] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, cit., p. 19.
[77] J. S. Mill, Saggio sulla libertà, cit., pp. 28-29.
[78] Cit. in D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., p. 200.
[79] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 168.
[80] Cit. in D. Losurdo, Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi, La città del sole, Napoli 2005, p. 138.
[81] Lucia Re, Il liberalismo coloniale di Alexis de Tocqueville, G. Giappichelli editore, Torino 2012, pp. 23-24.
[82] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, cit., pp. 18-19. Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 149.
[83] Uno studio sistematico su questo fenomeno è stato condotto con riferimento al Sud Africa e al Sud degli Stati Uniti, luoghi dove si è concretizzato il progetto di una democrazia razzialmente confinata alle élite bianche. L’autore cerca di cogliere il nesso anche con l’egualitarismo perseguito all’interno della comunità bianca, che ebbe più successo in Sudafrica, rispetto al Sud degli USA. Cfr. K. P. Vickery, ‘Herrenvolk’ Democracy and Egalitarianism in South Africa and the U.S. South, in «Comparative Studies in Society and History», vol. 16, n. 3 (Jun. 1974), pp. 309-328.
[84] D. Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 69.
[85] L. Canfora, La democrazia, cit., pp. 23-24.
[86] D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., pp. 11-12.
[87] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., pp. 62-63, 267. La mescolanza razziale era esplicitamente vietata in molti stati americani ancora all’inizio degli anni cinquanta. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 335.
[88] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 267. G. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 67.
[89] D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., p. 12. Si pensi a figure come quelle di Francis Galton e Herbert Spencer nell’ambito del darwinismo sociale e del positivismo e a quella di Houston Stewart Chamberlain in quello del razzismo biologico, ispirato quest’ultimo da Gobineau. Canfora segnala una importante voce fuori dal coro tra le posizioni liberali, quella di George Cornewall Lewis, cancelliere dello scacchiere con Palmerston (1855), il quale nell’opera A dialogue on the best form of Government ritenne il sistema parlamentare inadatto ad innestarsi in qualunque civiltà, criticando la posizione dei liberali razzisti più intransigenti, come quella di Julius Schwarcz, «secondo cui la “demcorazia” sarebbe appannaggio esclusivo della “razza bianca”». Cfr. L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 19-20. Sul discorso del totalitarismo e l’assimilazione di Arendt di nazismo/fascismo e comunismo sotto la definizione di totalitarismo si veda E. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1997, pp. 460-61, dove Hobsbawm afferma che il sistema sovietico non era classificabile come totalitario in quanto «non esercitava un efficace “controllo del pensiero” e ancor meno assicurava una “conversione di pensiero”, tanto che di fatto depoliticizzò i cittadini a un livello stupefacente».
[90] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009, p. 260.
[91] N. Ferguson, XX secolo. L’età della violenza. Una nuova interpretazione del Novecento, Mondadori, Milano 2008, p. 11.
[92] Ferguson fa notare come discipline nate in quest’epoca come la frenologia e l’eugenetica, promossa quest’ultima dal matematico Frances Galton e teorizzata nel suo libro Hereditary Genius (1869), erano volte a dimostrare scientificamente l’ereditarietà biologica dei caratteri psichici e fisici dell’uomo, ovvero che le «capacità naturali dell’uomo sono ereditarie», onde creare una giustificazione volta a rafforzare il dominio della razza anglosassone (e europea) sul globo. Cfr. N. Ferguson, Impero, cit., p. 219. La prima cattedra di eugenetica sarà assegnata s Karl Pearson nel 1911 presso l’University College di Londra. Sulle connessioni invece tra l’eugenetica statunitense e quella nazista si veda S. Kuhl, The nazi connection. Eugenics, American Racism, and German National Socialism, Oxford University Press, New York-Oxford, 1994.
[93] M. Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo, cit., p. 43. Cfr. B. Droz, Storia della decolonizzazione, cit., p. 34.
[94] L. Canfora, La democrazia, cit., p. 102.
[95] L. Canfora, La democrazia, cit., p. 128 ss.
[96] Cit. in D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., pp. 161-162.
[97] Cfr. Paolo Lombardi, Gianluca Nesi, Sangue e Suolo. Le radici esoteriche del Nuovo Ordine Europeo nazista, All’insegna del giglio, Firenze 2016
[98] M. Mazower, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti, Milano 2005, pp. 152-153.
[99] Cit. in D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., pp. 161-162.
[100] E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., pp. 119-120. Tra questi politici imperialisti sono da annoverare Lord Robert Cecil, che parla di popoli di “ascendenza teutonica” e Joseph Chamberlain, ministro delle colonie, che chiamò Germania e Stati Uniti alla fine del XIX secolo a stringere un’” alleanza teutonica”. Cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., p. 242.
[101] P. Kennedy, L’antagonismo anglo-tedesco, cit., p. 153 ss.
[102] Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., pp. 265-266. È del 1899 il tentativo del ministro delle colonie Joseph Chamberlain di stringere un’alleanza tra Germania e Inghilterra, tuttavia infranto dal rifiuto del ministro degli esteri e poi cancelliere Bernhard Von Bülow. Cfr. P. Kennedy, L’antagonismo anglo-tedesco, cit., p. 330 ss.
[103] D. Losurdo, Rivoluzione d’ottobre e democrazia nel mondo, La scuola di Pitagora, Napoli 2015, p. 20. Sul fascino esercitato dalle leggi raziali americane nell’ambito dell’ideologia nazista e sulle analogie con quelle di Norimberga si veda di recente pubblicazione J. Q. Whitman, Hitler’s American Model:The United States and the Making of Nazi Race Law, Princeton University Press, Princeton 2017.
[104] D. Losurdo, Idee d’Europa e ideologie della guerra, cit., p. 60.
[105] D. Losurdo, Rivoluzione d’ottobre e democrazia nel mondo, cit., pp. 20-21.
[106] Cfr. D. Losurdo, La lotta di classe, cit., pp. 173-174.
[107] M. Mazower, Le ombre dell’Europa, cit., p. 390.
[108] R. Betts, L’alba illusoria, cit., pp. 169-170.
[109] R. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 170.
[110] M. Mazower, Le ombre dell’Europa, cit., pp. 153-156. Cfr. C. Schmitt, L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale con divieto di intervento per potenze straniere. Un contributo sul concetto di impero nel diritto internazionale, in Stato, Grande spazio, Nomos, Adelphi, Milano 2015, pp. 101-198. Schmitt presenta ad una conferenza all’Università di Kiel il proprio concetto di Grossraum poche settimane dopo l’invasione da parte di Hitler della Cecoslovacchia.  Si veda anche sul giurista tedesco J.W. Bendersky, Carl Schmitt teorico del Reich, Il Mulino, Bologna 1989.
[111] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 51. Cfr. E. Williams, Capitalismo e schiavitù, cit., pp. 9-16. Williams sottolinea come i «servi bianchi» (per contratto o per riscatto, che spesso si tramutavano in schiavi tout court), costituiti da condannati, poveri e perseguitati fossero una parte consistente dell’intera popolazione emigrata nelle colonie americane. Cfr. G. Turi, Schiavi in un mondo libero, cit., pp. 11-17. Turi sottolinea come fino al XVII secolo i coloni bianchi ricchi potessero fare affidamento sui servi bianchi a contratto, finché la loro progressiva scarsità suggerì di attingere alla riserva di uomini costituita dal continente africano. Cfr. N. Isenberg, White trash. The 400-Year Untold History of Class in America, Viking, New York, 2016.
[112] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 59.
[113] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 57.
[114] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., pp. 51-54.
[115] Cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., pp. 60-67.
[116] D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., pp. 25-26. Locke opera lo stesso criterio a proposito degli Irlandesi, altra spina nel fianco del governo britannico.
[117] J. Locke, Lettera sulla tolleranza, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 34-35.
[118] Cfr. J. Locke, Due trattati sul governo, II, par. 37, 41, 74, 26 passim.
[119] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., pp. 32-33.
[120] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 18.
[121] Il movimento abolizionista si sviluppa alla fine del XVIII secolo per poi dipanarsi per circa un secolo fino agli ultimi vent’anni del XIX secolo, quando la tratta atlantica scompare.
[122] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., pp. 17-18. Va detto che la schiavitù rimase in auge oltre questa data in America meridionale. Cuba e Brasile furono gli ultimi paesi a decretarne la fine, affrancando la popolazione schiava rispettivamente nel 1880 e nel 1888. Cfr. C. H. Parker, Relazioni globali nell’età moderna 1400-1800, Il mulino, Bologna 2012, p. 240.
[123] La schiavitù di fatto proseguì nell’impero britannico fino al 1833, anno della sua abolizione che prevedeva un indennizzo dei proprietari espropriati dei loro schiavi. Il provvedimento del 1807 si riferisce all’abolizione della tratta degli schiavi, non dell’istituto della schiavitù, la quale prosegue ben oltre l’affermazione del liberalismo in Inghilterra.
[124] L’indipendenza delle colonie coincide infatti con un netto peggioramento della condizione di neri e nativi. In base al Naturalization Act del governo federale del 1790 solo i bianchi possono diventare cittadini statunitensi, mentre veniva abolita la sola schiavitù bianca. Ciò contraddiceva platealmente lo spirito di uguaglianza razziale che pure regolamentando la schiavitù permeava il Codice Nero di Luigi XIV.
[125] P. Delpiano, La schiavitù in età moderna, Laterza, Roma-Bari 2009, pp.  90-91 ss.
[126] G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Laterza, Bari 1971, p. 182 ss. Cfr. K. Pomeranz, La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, Il Mulino, Bologna 2004.

La distruzione del Serapeo di Alessandria (391 d.C.)

  Il S erapeo era un tempio dedicato alla divinità greco-egiziana Serapide . Il Serapeo di Alessandria in particolare, realizzato dall’a...