domenica 26 aprile 2020

Un provvisorio bilancio della presidenza Trump



La presidenza Trump: un provvisorio bilancio storico e politico


La presidenza Trump si è inaugurata quattro anni fa all'insegna di una doppia novità: l’una ha riguardato la revisione della tradizionale politica dei rapporti internazionali ispirata al multilateralismo liberale; l’altra si è espressa in relazione ad una politica economica tendenzialmente protezionistica che, assegnando agli Stati Uniti un ruolo di primo beneficiario degli scambi internazionali, ha teso a modificare gli squilibri nel conto finanziario statunitense e a stabilizzare il deficit commerciale. Tutto ciò è stato funzionale al rafforzamento interno della potenza nordamericana, la quale non intendendo cedere la leadership mondiale al concorrente cinese, punta a ridurre l’impegno in tema di multilateralismo al fine di rafforzarsi internamente e prepararsi meglio al confronto con Pechino. 




Il 20 gennaio 2017 il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti si è insediato sullo scranno presidenziale della più importante potenza militare al mondo. La sua amministrazione è sembrata ad alcuni analisti una sorta di “équipe di oligarchi”, singolare areopago in cui a ricoprire incarichi di governo sono stati chiamati miliardari e alti dirigenti delle corporations americane (da Goldman Sachs a Exxon per citare le più rappresentate), tendenza peraltro abbastanza inflazionata negli USA da almeno vent'anni. 

Al di là però di questi che andrebbero derubricati ad aspetti più pittoreschi del trumpismo, l’ideologia della nuova amministrazione Trump sembra avere fondamento nel puritanesimo. Il puritanesimo inglese sin dal XVII secolo ha ispirato dapprima l’emigrazione di coloni inglesi nelle terre vergini dell’America settentrionale e poi incoraggiato l’espansione statunitense nell’emisfero occidentale. L’ideologia puritana sancisce il ruolo dei nordamericani di razza anglosassone come “popolo eletto” e “nuova Israele”, il cui eco risuona nello slogan di Trump che annuncia di voler “fare nuovamente grande l’America”.[1] In questo senso la centralità del libro dell’Esodo nel puritanesimo inglese ha posto e pone in continuità Stati Uniti e Israele come entità che si richiamano a un “destino manifesto” iscritto nella loro storia. Di qui le connessioni e la sintonia tra l’America di Trump e il regime israeliano di Netanyahu, il cui rafforzamento ha portato ad un aggravamento delle relazioni tra Theran (e Tel Aviv) e Washington, che si è realizzato in seguito all'imposizione di nuove sanzioni ai danni dell’Iran. 


“Recessione geopolitica” 

A dispetto della base puritana e del messianismo presente nel progetto trumpiano, un’espressione che si presta a descrivere la nuova fase dei rapporti internazionali inaugurata da Trump è “recessione geopolitica”, ad indicare un ritiro o un ripiegamento degli USA su posizioni unilateraliste e tendenzialmente isolazioniste. La sua amministrazione, al fine di combattere gli effetti deleteri della globalizzazione, come appunto la recessione economica interna e la deindustrializzazione, provocate dalle politiche in favore di esternalizzazioni e delocalizzazioni delle imprese, ha teso ad avviare un ridimensionamento del peso internazionale, ovvero multilaterale, degli Stati Uniti, attraverso un abbandono dei tavoli internazionali e un ritorno a una sorta di “isolazionismo” vecchia maniera. 

Se leggiamo la definizione che viene data di “isolazionismo” sull’Enciclopedia Treccani, apprendiamo che “il termine si riferisce alla prassi di governo che prevalse negli USA dal primo dopoguerra al 1937, anno in cui il paese, sotto la guida di F.D. Roosevelt, abbandonò la politica di disinteresse nei confronti dei problemi europei e della sicurezza collettiva per dare effetto a un programma di riarmo e d’iniziativa internazionale che portò gli USA all’intervento nella Seconda guerra mondiale”.[2] Nella storia americana quindi esiste una tradizione di reflussi e successivi re-interventi nella sfera europea e mondiale. Trump sembra inaugurare una fase semplicemente di recessione o reflusso dell’interventismo statunitense. 

Questo scenario di “ritiro”, di regressione o addirittura di rinuncia come è stato definito, rispetto ai rapporti internazionali impostati su basi multilaterali, è stato dimostrato dall'abbandono dichiarato dei trattati internazionali sul commercio (TPP, TTIP e NAFTA) e dello sprezzo o scarsa considerazione dimostrati verso organismi internazionali come l’ONU, la NATO, l'OMS, il WTO, l'UNESCO e l’Unione europea.[3] Una recessione geopolitica che lascia spazio alla Cina, per quanto nemico acerrimo, che al forum di Davos si era fatta nuovo alfiere della globalizzazione, promettendo di diventare il mercato del mondo con un potenziale di domanda di ottomila miliardi di dollari. 

Più che di ridimensionamento del ruolo geopolitico però, si dovrebbe parlare di ridimensionamento del ruolo internazionale - in termini strettamente cooperativi - degli Stati Uniti; il che non significa abbandono della primazia geopolitica americana. Gli USA puntano ancora ad essere la superpotenza del globo, solo che tentano di farlo non più attraverso la strada del multilateralismo e dell’internazionalismo liberale ispirato al libero scambio, ma percorrendo la via di un neo-protezionismo finalizzato ad una politica di potenza, priva sostanzialmente di una proiezione militare sull'estero effettiva (se non in termini di retorica bellica), che vede gli USA come primi beneficiari economici della loro leadership internazionale. [4] La politica di Trump sembra quindi la combinazione tra elementi di protezionismo isolazionista e fattori di politica diplomatica aggressiva, che fa pensare alla politica del "big stick" di roosveltiana memoria e ci riporta indietro alla "diplomazia delle cannoniere"  in voga nell'Ottocento.

I contendenti 

Sotto la nuova amministrazione Trump l’ostilità degli USA si è diretta verso due contendenti geopolitici fondamentali: la Cina e la Germania; mentre la Russia, pur rientrando a pieno titolo nell’ “asse ostile” a Washington, ha vissuto sostanzialmente una breve tregua rispetto alle sanzioni degli Stati Uniti. Tra Trump e Putin si sono addirittura create singolari sintonie nella partita di indebolimento dell’Unione europea (e della Nato), che promettono di irrobustire la relazione trai due leaders, tutto a detrimento di Bruxelles. 

Nella volontà di accordo con Putin v’è il progetto di evitare gli effetti deleteri per l’egemonia statunitense dell’entente russo-cinese. Dietro questo progetto c’è l’influenza del pensiero e dell’esperienza di Kissinger, che ha consigliato a Trump l’accordo con il Cremlino sulle questioni più impellenti, tra cui la Libia, la Siria e la Crimea-Ucraina e una normalizzazione delle tensioni con la Nato nei paesi baltici, al fine di intaccare l’alleanza russo-cinese, proprio come lo stesso Kissinger fece nel 1971 stringendo l’intesa con Pechino e sfruttando gli effetti dello scisma sino-sovietico, ormai consumatosi da tempo (negli anni '50). [5]

Germania e Cina - per accennare a considerazioni di ordine economico internazionale - costituiscono i paesi col più ampio surplus commerciale al mondo. Il primo lo ha accumulato per merito della posizione di vantaggio assunta grazie alla moneta unica, che lo ha portato ad essere il membro del G20 con il più grande surplus commerciale (pari al 9% del PIL);[6] il secondo ha accresciuto la propria eccedenza commerciale grazie al fatto di essere diventato negli ultimi trent’anni e passa la più grande “fabbrica” del mondo, dove ha luogo la produzione della gran parte dei beni e servizi mondiale (ruolo che in un capitolo passato della globalizzazione aveva assunto l’Inghilterra). 

Gli Stati Uniti hanno goduto per converso - e continuano a godere per il momento – di un predominio del dollaro sul mercato valutario e di capitali internazionale, potendo vantare il possesso di una valuta che è adoperata come moneta di riferimento per gli scambi. Ciò controbilanciava il loro ruolo di compratore mondiale di beni che gli Stati Uniti acquistano contribuendo alla crescita dei paesi esportatori (e che farebbe segnare di per sé una fuoriuscita netta di dollari). Segni di inquietudine tra le due sponde del Pacifico (Cina e USA) sul fronte della bilancia finanziaria sono già evidenti con la riduzione della partecipazione al debito USA della Cina, di cui principale finanziatore è divenuto il Giappone dopo un decennio. 

Il primo segnale di uno scontro con i due giganti mondiali è stato l’avvio di una guerra commerciale con conseguenze pesanti per l'economia mondiale e per gli stessi assetti internazionali. Tuttavia, va anche riconosciuto, la riduzione dei deficit commerciali - al di là dei metodi discutibili con cui questa viene imposta ai partners - non è di per sé un male e il commercio internazionale può non passare necessariamente per la strada di accordi multilaterali, che possono anche danneggiare altri paesi a vantaggio di singoli.[7] Secondo le regole del WTO e il trattato GATT del 1947 infatti i paesi con un elevato avanzo commerciale possono essere passibili anche di sanzioni per riequilibrare la loro bilancia commerciale. [8]

Se la Cina è stata per gli Usa un tradizionale avversario geopolitico, anche se la vecchia amministrazione Obama aveva attenuato i termini dello scontro commerciale - rafforzando però la contesa sul piano militare - la Germania, passati quasi trent’anni dalla sua riunificazione, diventa un nuovo e peculiare avversario della partita di Trump. Ciò a causa del ruolo di preminenza e mal celata egemonia assunti nel mercato unico europeo e nell’Eurozona (il dumping tedesco viene fatto soprattutto a spese dei vicini europei), che lascia presentire una trasformazione del gigante tedesco, in un futuro non remoto, in un contendente economico e militare di portata mondiale.[9]

Una ostilità dichiarata contro la Germania potrebbe essere però una mossa pericolosa, potendo spingere Berlino a tracciare scenari, anche qui in un panorama quanto mai temporalmente prossimo, in cui si ritenga realistico un raccordo del triangolo Mosca-Berlino-Pechino, nel segno di una nuova "ostpolitik".[10] Tant’è che colui che ha ricoperto il ruolo di ministro degli esteri  e vice-cancelliere della Germania, Sigmar Gabriel, è un dichiarato filo-russo e filo-iraniano, disponibile ad avviare una politica di collaborazione con Mosca, fondata sulla rimozione delle sanzioni, sulla scia del pregresso “schroederismo”.[11]

Non va trascurato inoltre il Messico come nuovo antagonista geopolitico. Il popoloso paese nordamericano è tuttavia di proporzioni economiche e militari assai più ridotte e con un ruolo di attore regionale, ma potrebbe conseguire un domani un peso specifico decisivo nel “cortile di casa” degli USA. La barriera di delimitazione al confine col Messico che Trump intende rafforzare e ultimare, vera e propria linea di faglia geopolitica, già esiste da due decenni. La sua utilità in termini geopolitici non è solo funzionale ad arginare l’arrivo di immigrati clandestini messicani (e potenzialmente impedire l’alterazione dell'equilibrio etnico degli USA a favore della componente ispanica), ma soprattutto a mettere al riparo gli USA dal pericolo dell’emersione di un forte movimento irredentista messicano, in virtù della comune appartenenza etnica, storica e linguistica tra le contigue aree di confine messicane e statunitensi.[12] Inoltre il Messico vanta, al pari di Cina e Germania, un grosso avanzo commerciale nei confronti degli Stati Uniti e potrebbe diventare in futuro un paese retto da un governo non più filo-americano come quello attuale. Trump sembra aver avviato contro questi tre paesi uno scontro duro in materia di commercio internazionale che potrebbe sfociare in guerra commerciale aperta. 

I possibili scenari futuri 

Con un’eventuale futura rottura del Nafta, Messico e Canada dovrebbero riscrivere accordi bilaterali con Washington. Lo stesso vale per l’Unione europea, dove Berlino dovrà venire a patti con gli USA e decidersi sul futuro della costruzione europea, rinegoziando il proprio ruolo egemonico. Infine vanno paventati rischi di una rottura o frammentazione dell’Eurozona, come conseguenza di una denuncia americana sempre più insistente della politica mercantilista della Germania e del crescere delle contraddizioni in seno all'UEM. 

La relazione speciale con Londra, corroborata dai sodalizi Trump-May e Trmp-Johnson, sembra essere la premessa anche in questo caso ad accordi bilaterali funzionali ad una integrazione della Gran Bretagna nella sfera anglo-americana, tanto per quanto attiene al mercato unico, quanto all’unione doganale. 

Appare ormai evidente che tensioni latenti nel sistema-mondo indotte dalla crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2008 e dal graduale volgere al termine dell’” era americana” (per citare l’opera di Charles A. Kupchan), stiano emergendo oggi sotto le forme di nuovi equilibri (o squilibri) geopolitici, persino all’interno dello stesso (un tempo) monolitico blocco euro-atlantico. Se gli Stati Uniti cedono la leadership globale, la Cina si appresta a raccoglierla, mentre le strategie degli USA vanno incontro a sempre più marcate incertezze e sempre più stridenti contraddizioni. 

È del tutto chiaro che i sommovimenti geopolitici globali e la “recessione” strategica degli USA avviano trasformazioni profonde nel bilancio della politica delle potenze mondiale. Come ha sottolineato lo stesso Kupchan: “…i pilastri democratici stanno traballando. Pur avendo idee spesso opposte, democratici e repubblicani non hanno mai messo in discussione l’ordine liberal-democratico su cui si basa il mondo occidentale emerso dalla fine del Secondo conflitto mondiale”. L’elezione di Trump ha però “costretto a domande dolorose che mai avremmo pensato di porci nel XXI secolo; ad esempio se l’esistenza stessa della Ue sia in pericolo e l’America sia destinata a mutare il suo DNA”.[13]

(articolo originariamente pubblicato sul fascicolo n. 45 della rivista "Eurasia", qui riproposto con modifiche e adattamenti)

Note

[1] http://www.marx21.it/index.php/internazionale/stati-uniti-e-canada/27652-trump-e-le-tensioni-del-blocco-di-potere-negli-stati-uniti 


[2] http://www.treccani.it/enciclopedia/isolazionismo/ 


[3] http://www.corriere.it/esteri/17_gennaio_24/viviamo-recessione-geopoliticaora-si-aprono-praterie-la-cina-ce40a794-e1ae-11e6-9d91-77d9cd8f321e.shtml?refresh_ce-cp 


[4] http://www.corriere.it/cultura/17_gennaio_21/nuova-dottrina-usa-2c445614-df3a-11e6-ac31-10863be346e7.shtml 


[5] http://www.lastampa.it/2017/02/01/esteri/il-ritorno-di-kissinger-per-favorire-la-distensione-con-il-cremlino-CSgXeRx1mVvztUECzMJEKM/pagina.html 


[6] Gli Stati Uniti sono il partner commerciale con il deficit più grande nei confronti della Germania (60 miliardi di Euro). 


[7] http://www.lastampa.it/2017/01/17/cultura/opinioni/editoriali/i-nuovi-assetti-degli-scambi-internazionali-rGLrPHXi2OV9E95F7vRMEM/pagina.html 


[8] http://vocidallagermania.blogspot.it/2017/01/lo-smarrimento-dellestabilshment.html 


[9] http://vocidallagermania.blogspot.it/2016/10/la-nuova-weltpolitik-tedesca.html 


[10] http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=50689 


[11] http://www.limesonline.com/cartaceo/fra-germania-e-russia-torna-di-moda-lo-schroederismo?prv=true 


[12] http://www.agenzianova.com/r/30/atlantide#a-1495671 


[13] http://www.corriere.it/esteri/17_febbraio_01/cambiamento-radicale-valori-cdf4dc72-e7f0-11e6-8168-2d40923ac04f.shtml

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