venerdì 24 aprile 2020

La condizione degli afroamericani e le lotte per i diritti civili negli Stati Uniti





14 novembre 1960, Ruby Bridges all'uscita da scuola scortata dalla polizia.



La condizione degli afroamericani e le lotte per i diritti civili negli Stati Uniti: dalla seconda ricostruzione a George Bush Jr





La storia del privilegio e della superiorità razziale dell’uomo bianco negli Stati Uniti può essere divisa  in quattro lunghi periodi: il primo è rappresentato dalla fase caratterizzata dall’arrivo dall’Africa di una massa sterminata di schiavi e dalla grande tratta degli schiavi che dal continente nero erano trasportati in America, il secondo è segnato dalla guerra d’Indipendenza e dalla proclamazione degli Stati Uniti d’America, il terzo coincide con la fase “post bellum” che gli storici chiamano della Ricostruzione e infine il quarto e ultimo inizia con la fase della decolonizzazione, proseguendo negli anni Cinquanta con gli interventi del governo federale nella politica degli stati del Sud e con il movimento per i diritti civili (lunga fase nota come seconda ricostruzione), sino all’elezione a presidente degli Stati Uniti d’America di Barack Obama, il primo presidente afroamericano della storia dell’America. La fine della segregazione a partire dalla seconda ricostruzione portò, in particolare negli anni sessanta, a smantellare l'insieme delle leggi Jim Crow che istituivano il sistema segregazionista denominato "separati ma uguali". Va premesso inoltre che il razzismo è un'ideologia che giustifica la permanenza delle diseguaglianze culturali e di potere esistenti legando concettualmente queste ultime a fattori organici, dipendenti dalla costituzione anatomica e fisiologica dell'individuo; esso è in altre parole un'ideologia inventata dalla classe dominante per giustificare e permettere la prosecuzione del proprio predominio su altri gruppi minoritari. Ogni gruppo etnico mantiene una propria identità di gruppo come risposta alla presenza di altri e differenti gruppi umani, dotati di culture diverse; esso esprime una comunanza di caratteri culturali che è affine alla parentela familiare, ma differisce da questa perché come scrive Max Weber, "la comunanza etnica (Gemeinsamkeit)... è solo un'identità presunta". 




I primordi delle lotte civili 


La parte più tremendamente razzista degli Stati Uniti era il Sud del paese, dove vigeva una totale e rigida esclusione e segregazione degli afroamericani, mentre nella parte Nord le organizzazioni afroamericane erano riuscite a rivendicare e a ottenere un seppur parziale riconoscimento nello status di organizzazioni autonome e di associazioni sindacali nazionali. Se nel Nord le comunità afroamericane erano riconosciute come parte integrante della società (anche se vigeva una segregazione residenziale di fatto), nel Sud gli afroamericani non potevano assolutamente oltrepassare quella linea razziale che li separava dalla società dei bianchi: le due comunità erano rigidamente separate. 

Il primo avvenimento che permise di comprendere la rigida discriminazione del Sud nei confronti degli afroamericani riguardò la donna afroamericana Rosa Parks, che si rifiutò di cedere il posto a un uomo bianco sull’autobus (dicembre 1955). Essa venne arrestata e dal suo arresto e processo iniziarono una serie di proteste e manifestazioni della comunità afroamericana in tutti gli Stati Uniti. Il 17 maggio 1954, quattro mesi prima della protesta della signora Parks, la Corte Suprema aveva dichiarato «incostituzionale» la segregazione nelle scuole pubbliche. E da allora molte persone iniziarono a domandarsi: “se ci si può sedere accanto nelle scuole perché dev’essere vietato nei bus, nei bar, nelle spiagge, negli stadi?”.

La tragica situazione del Sud per le comunità afroamericane fu nascosta dai media. Sulla questione razziale calava un silenzio inquietante provocato dall'ignoranza e dal pregiudizio dei bianchi nei confronti della popolazione nera e dalla totale estraneità alle questioni delle comunità afroamericane. Il silenzio fu rotto all’inizio degli anni sessanta dai giovani bianchi che fondarono nel 1960 la Students for a Democratic Society (Società Democratica degli Studenti). I suoi fondatori erano stufi del silenzio e dell’estraneità stratificata che dilagava nel Nord degli Stati Uniti; essi avevano scoperto l’esistenza dell’ingiustizia sociale e della vergogna che le istituzioni gettavano su se stesse. 

Il vero problema era che non si era preparati a una discussione a sfondo socio-razziale ma soprattutto si manifestava ottimismo nei confronti delle istituzioni, che ben presto si sarebbe rivelato totalmente ingiustificato. I movimenti di protesta dei bianchi nacquero grazie a giovani e in parte studenti che assunsero come loro slogan “dal silenzio all’attivismo”: era una generazione non più silenziosa, il cui scopo era di contraddire la passività e la sottomissione. I vari movimenti studenteschi che nacquero, ad esempio la Student Peace Union (Studenti Uniti per la Pace), iniziarono a creare iniziative di rottura del consenso sul piano sociale nei confronti della Guerra fredda, spesso per risposta alle sollecitazioni provenienti dalle lotte afroamericane contro la segregazione nel Sud. 


Rosa Parks nel 1956 



Dalla nascita della Students for a Democratic Society all'avvento del Black Panther Party


Lo Students for a Democratic Society divenne il bacino di raccolta di numerosi studenti che ricercavano un proprio pensiero intellettuale e critico, d’insoddisfazione e risentimento nei confronti della Guerra fredda e dell’ingiustizia sociale che colpiva le comunità afroamericane. I movimenti di protesta giovanile si legarono direttamente o indirettamente alle lotte delle organizzazioni degli afroamericani per il riconoscimento dei diritti civili. Il 1° febbraio 1960 quattro ragazzi afroamericani decisero di infrangere la legge che in tutto il Sud proibiva a neri e bianchi di sedersi e mangiare o bere all'interno dello stesso locale pubblico, tra i simboli del sistema dell'apartheid. I quattro ragazzi attuarono la loro protesta sedendosi educatamente al bancone di un bar di un grande emporio nel centro di Greensboro; i quattro non furono serviti, la direzione chiamò la polizia, che però non intervenne perché non vi era pericolo di disordini. Il quartetto rimase seduto fino all'ora di chiusura e la stessa situazione si ripeté il giorno dopo e i giorni successivi con nuovi e più numerosi trasgressori; la notizia di questi sit-in si sparse in tutto il Paese e dal 3 febbraio si moltiplicarono in tutto il Sud ed entro la fine di aprile il loro numero era cresciuto in 78 comunità meridionali portando all’arresto di almeno 2000 studenti. Alla fine dell’anno sarebbero stati almeno 70.000 i giovani, maschi e femmine che avrebbero preso parte alla nuova forma di protesta. 

Nel 1960 sorse invece lo Student Nonviolent Coordinating Committee (SNCC), una delle più importanti organizzazioni negli Stati Uniti legate al movimento per i diritti civili degli afroamericani negli anni Sessanta, che dvenne ben presto un'organizzazione vera e propria con numerosi sostenitori al Nord che aiutavano con vari fondi le comunità afroamericane aderenti, specialmente quelle del Sud. Lo SNCC organizzò una nuova forma di protesta, quella dei freedom riders, ovvero gruppi di attivisti che a partire dal 1961, sfidando apertamente il sistema di separazione che vigeva negli autobus e nelle sale d’attesa in tutti gli USA -  per cui un nero non avrebbe potuto viaggiare su un mezzo pubblico e in genere in luogo pubblico accanto a un bianco (secondo il sistema “separati ma uguali”) - iniziarono a percorre tratte interstatali da Washington a New Orleans, dal Nord al Sud degli Stati Uniti. All’inizio tali manifestazioni misero in serio rischio la vita degli attivisti, che in alcune occasioni furono sul punto di essere assassinati. 

La protesta riuscì ad ogni modo ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vicenda e a mettere le autorità davanti al fatto compiuto. Difatti nello stesso anno (novembre 1961) la Interstate Commerce Commission, ente federale che presiedeva al funzionamento dei trasporti pubblici, mise al bando la segregazione razziale nelle tratte interstatali. Tale provvedimento fu seguito, nel 1962, dall’executive order 11063, del presidente Kennedy, con cui veniva proibita la discriminazione nei luoghi pubblici.

A giugno sempre del 1960 iniziò la pubblicazione della “Student Voice” (Voce dello Studente), il bollettino degli studenti che sarebbe durato fino al 1965. Nel suo primo numero fu pubblicata la Dichiarazione d’Intenti, un breve documento che indicava come idea-forza la creazione di una società e comunità perfettamente integrata, interrazziale e nella quale fosse possibile la piena realizzazione di sé attraverso il rapporto con gli altri; inoltre nella Dichiarazione si affermava il principio filosofico dell’amore come forza motrice dell’azione non violenta.

La Students for a Democratic Society fu concepita e creata all’interno del campus dell’Università del Michigan, il cui fondatore fu Alan Haber. Inizialmente motivazioni e finalità politiche rimasero indefinite, ma nei mesi successivi la formazione dello Students for a Democratic Society, ebbe maggiore rilievo grazie ai gesti di quegli studenti che si sentivano chiamare in causa dalle vicende meridionali del Paese al punto dal recarsi al Sud e partecipare alle iniziative organizzate dalle comunità afroamericane. 

Il passo successivo fu quello della crescente adesione individuale all'organizzazione che servì a cementare quel senso di appartenenza, di comunanza d’intenti a livello regionale, nazionale e internazionale. la società passò dalla nascita virtuale alla sua comparsa reale e politica tra l’11 e il 15 giugno 1962. L’organizzazione aveva raggiunto gli ottocento membri collegati attivamente fra loro in varie università del Paese; il luogo in cui avvenne il rito fondativo dell’organizzazione fu la cittadina di Port Huron, nei pressi di Detroit, dove in quell'occasione fu approvato il Port Huron Statement (Lo statuto di Port Huron), un lungo documento analitico e programmatico dell’organizzazione ma anche un punto di riferimento politico-culturale per moltissimi giovani. 

L’aspetto più importante che balza subito agli occhi è la scoperta attraverso il Port Huron Stetement della vera realtà degli Stati Uniti, legata tradizionalmente a immagini convenzionali, mistificazioni e reticenze. Contro la retorica del benessere americano, il Port Huron Statement affermava il forte disagio dei giovani nei confronti del potere accademico e politico, narrava di un paese diviso su base razziale e alle prese con una dilagante povertà: i giovani bianchi pretendevano una risposta di democrazia reale, una creazione di una nuova società fondata non più sul potere di classe e sulla razza ma fondata sull’amore, sulla riflessione e la creatività. 

Il 1965 fu un anno decisivo, di svolta per la Students for a Democratic Society. Il numero degli iscritti crebbe a 1500, un anno dopo erano tre volte tanto. Quest’aumento esponenziale degli iscritti fu dovuto all'azione di contrasto pubblico nei confronti dell’iniziativa del governo Johnson di dare il via a un’escalation bellica in Vietnam. Nel giro di un anno, non solo aumentarono i numeri degli iscritti ma la Students for a Democratic Society raggiunse un livello di visibilità mediatica mai raggiunto prima e nei mesi successivi si diffusero all’interno delle università i teach-in (lezioni allargate a molti partecipanti su temi specifici di grande interesse) e si svolsero altre manifestazioni contro la guerra in Vietnam. La Students for a Democratic Society divenne il fulcro della protesta, ma non l’unico; le manifestazioni contro la guerra continuarono e s’ingrandirono, diventando milioni le persone che si schierarono contro la guerra non solo in Vietnam ma contro tutte le guerre. 

Il processo di rinnovamento della società portato avanti dal radicalismo bianco della New Left terminò con la dissoluzione della Students for a Democratic Society; probabilmente le nuove manifestazioni contro la guerra avevano catalizzato l’attenzione dei media controllati dal governo che riuscirono a scoprire che l’organizzazione studentesca aveva avviato un programma per incoraggiare i giovani a dichiararsi obiettori di coscienza, con lo scopo di intralciare il lavoro degli uffici di leva. 

L’organizzazione fu fatta oggetto non solo di grande attenzione mediatica, ma la sua presenza divenne anche indesiderata da parte dell’autorità pubblica. La Students for a Democratic Society fu denunciata nell’aula del Senato degli Stati Uniti e il ministro della Giustizia americano Katzenbach annunciò l’apertura di un’indagine nei confronti dell’organizzazione studentesca affermando anche che incoraggiava il comunismo all’interno degli Stati Uniti. Dopo le prime manifestazioni di ostilità nei confronti dell’escalation bellica americana in Vietnam, il presidente Johnson premette affinché tutte le forze investigative raccogliessero informazioni sui movimenti contro la guerra. Il momento decisivo fu l’occupazione a New York nell’aprile del 1968 della Columbia University, dove l’attivismo studentesco prese il carattere specifico della contestazione per il ruolo che la Columbia ricopriva nella ricerca a fini bellici. 

Le direttive delle varie agenzie governative vedevano il ricorso oltre che ai classici metodi investigativi, anche alle infiltrazioni all’interno dei vari movimenti studenteschi e all’uso di lettere anonime che miravano a creare divisioni tra i membri dei movimenti. Praticata era la diffusione di notizie false, denigratorie e infine l’utilizzo di agenti specializzati in azioni estreme per favorire la disgregazione delle organizzazioni studentesche. 

La lenta disgregazione delle varie organizzazioni studentesche portò alla formazione di associazioni estremiste in difesa delle comunità afroamericane. Il gruppo più conosciuto e più cruento fu il Black Panther Party (Partito della Pantera Nera), che proclamava il diritto all’autodifesa dei neri e la reazione violenta ai soprusi della polizia, accompagnando tale proposito con l’esibizione pubblica di armi da fuoco e varie azioni cruente come ad esempio l’irruzione e l’occupazione dell’aula del Parlamento statale della California a Sacramento il 2 maggio 1967. 


Il Black Panther Party in poco tempo divenne la maggiore organizzazione politica afroamericana; ciò portò le agenzie governative a controllarla con la massima attenzione. In concreto le agenzie governative infiltrarono spie e agenti all’interno della Black Panther Party con il compito e l’obiettivo di creare sospetti e fratture, diffondere calunnie, istigare alla violenza e creare divisioni all’interno dell’organizzazione; tutto ciò portò all'eliminazione fisica oppure all’arresto di dirigenti e militanti dell'organizzazione.

Il risultato fu anche quello di privare l’organizzazione dei suoi dirigenti e di indirizzare le loro energie, le loro forze in funzione delle battaglie giudiziarie, indebolendo così la loro azione politica e inoltre permettendo ai media di diffondere un’immagine negativa del Black Panther Party. Questa situazione fu presa a pretesto dalle forze repressive per l’attuazione di azioni e pratiche ancora più illegali e cruente; tutto ciò portò alla crisi all’inizio degli anni settanta e infine alla paralisi del partito e al suo ridimensionamento a livello locale. 


La svolta nelle lotte degli afroamericani e l'iniziativa di Martin Luther King


Nella seconda metà degli anni sessanta apparvero evidenti i problemi di povertà e convivenza nelle varie città, si sollevarono forti proteste e manifestazioni, prima nel ghetto nero di Harlem a New York nel 1964, poi a Los Angeles, poi a Detroit, a Newark e altri grandi centri urbani. 

Un vero conflitto urbano si ebbe l’11 agosto del 1965 a Watts, un sobborgo di Los Angeles, che da quel momento in poi sarà evocato dagli storici della Seconda Ricostruzione, con cui si intende la fase successiva alla seconda guerra mondiale caratterizzata (al pari della prima Ricostruzione) da una grande stagione di lotte per i diritti civili degli afroamericani, nonché dalla forte volontà da parte degli afroamericani d’integrazione nella società. Si aprì così una stagione di sommosse nei quartieri neri delle città degli Stati Uniti che sarebbe culminata nell’assassinio di Martin Luther King tre anni dopo. 

La rabbia repressa delle comunità afroamericane esplose, la cui causa non era dovuta alla condizione economica che comunque era migliorata per gli afroamericani, ma alla ripartizione non proporzionale tra bianchi e neri dei benefici economici, determinando livelli di vita subumani per i neri. La rivolta di Watts non è certamente la prima di un ghetto nero negli anni Sessanta, ma segna uno spartiacque nella storia della comunità afroamericana perché per la prima volta il movimento per i diritti civili non riuscì a dirigerla, a intercettarla ma piuttosto a inglobarla. Come sottolinea Stefano Luconi: «gli afro-americani del Nord erano pienamente consapevoli del fatto che la parità dei diritti civili e politici non avrebbe comportato automaticamente un miglioramento del proprio tenore di vita». 

La mossa perseguita da King fu proprio quella di trasferire la lotta per i diritti civili al Nord, fondando il Chicago Freedom Movement all’inizio del 1966. Chicago rappresentava la seconda città più popolosa d’America e quella in cui esisteva la più alta concentrazione di afro-americani (ca. 700.000), confinati nei ghetti di South Side e West Side. New York fu esclusa da King come centro di coordinamento della lotta dei neri proprio per la lunga tradizione di militanza afroamericana presente a Chicago. Nel 1967 King avrebbe poi lasciato la direzione della attività di militanza a Jesse Jackson facendo ritorno a sud, dove sarebbe stato assassinato a Memphis nel 1968. L’azione di King era stata di indubbia rilevanza nel raggiungimento dei provvedimenti di uguaglianza dei diritti civili e politici dei neri come il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Rights Act del 1965.







A far uscire il Civil Rights Act dalle secche parlamentari in cui era piombato, fu proprio l’omicidio di Kennedy, avvenuto a Dallas il 22 novembre 1963. Il successore di Kennedy, Johnson, autore del compromesso che aveva indebolito il Civil Rights Act del 1957, decise di rilanciare la questione dei diritti civili nell’intento di promuovere la propria presidenza in chiave progressista. Il 28 agosto 1963 si era svolta a Washinton l’imponente marcia dei 250.000 manifestanti guidati da King (che tenne un discorso davanti al Lincoln Memorial in cui pronunciò la famosa frase "I have a dream") per protestare contro la discriminazione e scuotere il governo al fine di far approvare una legge definitiva. Johnson era stato candidato come vice-presidente nel 1960 al fianco di Kennedy proprio per rassicurare l’elettorato bianco più sensibile al mantenimento dello status quo in tema di diritti dei neri. Peraltro lo stesso Kennedy si era sempre rifiutato di identificare la propria presidenza con la causa dei neri. L’intento di Johnson, giunto al potere, divenne però quello di rompere gli indugi e chiudere con la questione razziale, facendo approvare un provvedimento di riconoscimento completo dei diritti dei neri senza scendere a compromessi con i conservatori del Sud. 

Ma c’era un altro elemento, ovvero l’esigenza di rilanciare a livello intenzionale il ruolo dell’America come alfiere dei diritti civili e della democrazia. Il ruolo degli USA come rappresentante del mondo liberto in contrapposizione all'Unione Sovietica era diventato incompatibile con il mantenimento di un regime di discriminazione legale o di fatto. La guerra in Vietnam inoltre stava mettendo il governo statunitense in serie difficoltà a livello interno e internazionale, favorendo una presa di distanza mondiale dal modello americano. Oltretutto il 1960 e in generale il periodo tra il 1957 e il 1963 fu la fase della grande stagione della decolonizzazione dell’Africa, in cui molti stati africani si erano sottratti al dominio coloniale europeo. In questo momento diventava dunque di vitale importanza fornire un’immagine nuova degli USA, soprattutto nel contesto della decolonizzazione, e compensare così quantomeno le proteste suscitate dalla guerra nel sud-est asiatico. D’altro canto appariva difficile arginare la forza d’urto del comunismo, nel contesto della guerra fredda, senza mettere fine alla supremazia razziale ancora in vigore. Il ruolo del comunismo e dell'attivismo di sinistra finiva con lo svolgere anche un ruolo decisivo nella cancellazione negli USA della discriminazione razziale e nella promozione della democrazia. 

La Great Society di Johnson aveva creato grandi prospettive, aveva promesso pari opportunità ma rimanevano divergenze e discrasie di fatto che scavavano un solco nella società americana, tra le comunità nere, su cui pesava l’esclusione economica e una discriminazione razziale (il tasso di disoccupazione dei neri era mediamente sempre il doppio di quello dei bianchi), e quelle bianche, destinatarie di privilegi e favori. 

L’evento di Watts fu considerato dai giovani neri una vittoria, perché essi erano stati presi in considerazione dai bianchi, riuscendo a costruire un’identità che fino allora appariva poco visibile. La rabbia dei giovani neri era esistenziale, tanto che sembrava loro di essere ignorati in una società che non dava opportunità di miglioramento. Le cause delle rivolte erano molte: la prima più importante era di natura storica e politica, relativa all’eguaglianza legale, poi economica e infine, ma non ultima, di carattere culturale. 

La firma del del Voting Rights Act il 6 agosto 1965, soli 5 giorni prima dagli avvenimenti del ghetto di Watts fu un altro passo, seppur lieve, verso l'uguaglianza legale dei neri; in quest'occasione si prese atto in maniera definitiva che il razzismo non poteva essere parte integrante della società americana. Gli eventi di Watts giunsero a guastare questo successo e furono la presa d’atto da parte della comunità afro americana del permanere di forti sentimenti razzisti, nonostante i provvedimenti di apertura del governo federale. 

Eppure per Johnson, la cui firma riposa in calce al Voting Rights Act, la questione dei diritti degli afroamericani si era chiusa con il Civil Rights Act e i diritti politici dei neri potevano essere garantiti dall’approvazione nel 1964 del XXIV emendamento che vietava la limitazione del diritto di voto per casi di mancato pagamento di tasse. Il ruolo di King nell’approvazione del Voting Rights Act fu anche in questo caso determinante. Nel febbraio 1965 quando King tentò di far registrare alcuni afroamericani presso l’ufficio elettorale di Selma, scoppiano scontri in cui rimase ucciso un giovane di colore. Tali eventi furono ripresi da Johnson nel discorso che pronunciò davanti al Congresso chiedendo l’approvazione di una normativa a tutela del diritto di voto dei neri. Il Voting Rights Act, approvato il 6 agosto 1965, avocava allo stato (al dipartimento di Giustizia) l’approvazione del nullaosta preventivo alla modifica delle leggi dei singoli stati in materia di voto.

In realtà al Nord, come la Sud, esisteva come già accennato una disparità economica abissale: nel 1965 soltanto il 3% dei posti di lavoro era stato dato a degli afroamericani. Ciò produceva forme violente di discriminazione e disuguaglianza tra bianchi e neri. È in questa fase che la disperazione dei ghetti aumenta di fronte all'ostilità della classe media dei bianchi, all'isolamento politico e alla sperequazione economica. È in questo contesto che la cultura afroamericana cova la rivendicazione delle proprie origini, le sue radici e il proprio orgoglio nero nei confronti della società dei bianchi. 

La situazione delle rivolte dei ghetti neri stava significando anche il fallimento politico dell’amministrazione Johnson nell'intento di poter riuscire a integrare i neri nel sistema politico urbano, secondo quanto affermano i sociologi Frances Fox Piven e Richard Cloward. I fallimenti di Johnson attirarono anche l’insoddisfazione dei bianchi, sia delle frange più estremiste e apertamente segregazioniste, sia di quelle più moderate e favorevoli a qualche riconoscimento ai neri. Le elezioni del 1968, che portarono al tramonto dell’egemonia democratica, furono vinte da una coalizione conservatrice in cui si riconosceva l’elettorato del Sud, accanto ai bianchi dei sobborghi delle grandi aree metropolitane del Nord. 

Sull'onda dei movimenti per i diritti civili e della sempre più forte presenza sociale dei neri nelle città, la loro percentuale di partecipazione era incrementata e inoltre era anche aumentata la loro percentuale di presenza nella sfera politica del Paese. Dopo le rivolte, tuttavia, il presidente Johnson nominò una commissione per indagare le cause dei disordini. Il rapporto che la commissione pubblicò affermava che le rivolte avevano ulteriormente acuito le divisioni tra neri e bianchi e che all’interno del Paese si stavano formando due società, una nera e una bianca, totalmente separate e che la causa maggiore di tutto ciò era lo scarso appoggio popolare da parte dei bianchi. 

Le rivolte metropolitane oltre alla denuncia, all'attacco contro l’ordine sociale e politico, aggiungevano la denuncia dello sfruttamento economico collegato alla sfera del potere politico del Paese. Si manifestava nel cuore delle città, negli agglomerati urbani, il forte dissenso per la situazione economica, gli affitti alti e i salari normalmente più bassi per gli afroamericani; la disoccupazione era almeno doppia rispetto a quella bianca, mentre i servizi di welfare erano inesistenti per gli afroamericani e la violenza della polizia giungeva a forma estreme. Quest’ultimo punto fornì il pretesto perfetto per scatenare le rivolte metropolitane. 

Il messaggio delle nuove organizzazioni nate in quel periodo era nuovo, era diverso, non era più indirizzato contro la denuncia della vergogna morale della segregazione, ma era indirizzato contro il privilegio economico dell’uomo bianco e contro il ghetto simbolo di oppressione, dello status del potere economico-politico dell’uomo bianco. La risposta violenta era ormai inevitabile, a tal punto che si creò una situazione di totale paura all'interno delle città, ma era purtroppo l’unico modo di porre fine a un silenzio ipocrita sul sistema di discriminazione che aveva del vergognoso agli occhi del mondo. 

Il progetto di riscatto della comunità nera di Robert Kennedy


Robert Kennedy, procuratore generale nonché fratello del presidente John Kennedy fu un alfiere nel riconoscimento del malessere della comunità afroamericana e particolarmente attivo nella lotta per i diritti degli afroamericani. Kennedy tuttavia riteneva che i ghetti dovessero essere mantenuti, ma in forme diverse. Era giunto a questo pensiero dopo un lungo e tormentato percorso personale e da inflessibile rappresentante della legge era divenuto trai primi sostenitori e partecipanti della battaglia della comunità afroamericana. 

Aveva visitato il ghetto afroamericano di New York, dopo quello di Oakland; aveva anche partecipato a una marcia nel Sud del Paese per la questione dei diritti civili. Kennedy riuscì soprattutto a sviluppare un’affinità con le comunità afroamericane di carattere emotivo, grazie alla quale riuscì a raggiungere il cuore dell’altra parte dell’America ferita e disillusa. Egli inoltre parlava con il cuore adoperando parole cariche di speranza, riuscendo a trasmettere una visione positiva dell’America. 

Kennedy iniziò a guardare il problema della questione razziale da un punto di visto prettamente economico, poiché giunse all'idea che per gli afroamericani la realtà anche al di fuori dai ghetti (qualora questi fossero stati chiusi), potesse rivelarsi inaccettabile e che essi non fossero abbastanza qualificati per i lavori di alta professionalità richiesti dal mercato del lavoro; era quindi necessario riqualificare, rigenerare i loro ghetti. La comunità razziale doveva tornare a essere per gli afroamericani un luogo di crescita, speranza e d’identità. 

Kennedy riteneva che una delle più consistenti minoranze razziali negli USA (all'epoca la prima per importanza), cioè la comunità afroamericana, dovesse formare una propria comunità soltanto quando fosse riuscita a esprimere a pieno la propria cultura e la propria identità; solo allora era possibile iniziare a procedere nel processo d’integrazione con i bianchi. La priorità per Kennedy era la ricostruzione della comunità afroamericana: il punto focale era contribuire a formare la loro identità tramite il miglioramento della dimensione economica. 

La comunità afroamericana dal punto di vista economico fu aiutata dal governo federale, dai privati ma soprattutto Kennedy fece sì che migliorasse, facendosi promotore di un progetto a Bedford-Stuyvesant: posti di lavoro, community center e case nuove. Kennedy criticava l’idea che solo il governo doveva adoperarsi per riuscire a migliorare la situazione economica della comunità afroamericana: l’impegno doveva essere assunto da tutti, dall'intera società americana. 

Il piano di Kennedy puntava a una soluzione innovativa al problema. Egli dichiarò: «Non possiamo permetterci la perdita del gettito fiscale che riceveremmo dalla comunità afroamericana. Le baraccopoli sono troppo costose, non possiamo permetterci di mantenerle, dobbiamo cambiare la loro natura da luoghi di spesa a comunità di contribuenti». 

Robert Kennedy aveva il sogno di riunificare il Paese intorno a due parole: pace e giustizia. Nei suoi discorsi superava gli ostacoli che derivavano dalle barriere razziali, ideologiche e politiche, incarnando una nuova generazione, capace di parlare con tutte le minoranze etniche, non solo con quella afroamericana. In definitiva, l’obiettivo primario di Kennedy era di riuscire a creare un’alleanza tra giovani, classe media e classe ricca dei bianchi, non trascurando i poveri di ogni razza e le minoranze etniche di ogni tipo, non solo quella afroamericana. 

Il Black Power


Verso la fine degli anni Sessanta nacque una forma di "nazionalismo" nero potremmo definirlo, chiamato Black Power. Il Black Power non riuscì a mettere in discussione la superiorità, il privilegio razziale dei bianchi, ma rispose in modo deciso al suprematismo, affermando l’identità della negritudine, che contribuì alla formazione di una nuova categoria, di una nuova identità sociale dell’afroamericano, un processo lungo e molto complesso volto alla costruzione di una coscienza nera e al recupero delle proprie origini. 

Il nero riuscì a creare una propria dimensione artistica e antropologica e trovò nel colore della sua pelle una fonte d’aspirazione, come affermava l’attivista politico afroamericano Huey P. Newton, fondatore del Black Panther Party. L’essere nero non stava più a significare uno stato d’inferiorità grazie al Black Power, ma anzi i neri potevano porsi a pari livello dei bianchi. Tale movimento contriuì alla nascita di una nuova razza, di un’altra identità, di un’altra cultura afroamericane.

Il Black Power raggiunse i massimi livelli di visibilità e notorietà il 16 giugno del 1966 quando fu rilasciato dopo che era stato in prigione ben ventisette volte l’attivista trinidadiano-americano Stokely Carmichael. Inoltre il Black Power permise a molti neri di controllare le proprie vite dal punto di vista politico, psicologico ed economico. La costruzione parallela di un’identità nera separata rispetto a quella bianca portava a rifiutare l’antropologia bianca anche sotto il profilo religioso. Il cristianesimo era visto come religione dell’uomo bianco sfruttatore e in quanto tale andava rifiutata. Fu così che molti neri si rivolsero a una versione particolare dell’Islam, né sunnita né sciita, ma nella sua variante della Nation of Islam (NOI). Essa conobbe un grande sviluppo e una breve stagione di grande popolarità grazie all’attivista nero Malcolm Little, noto come Malcolm X, che giunse ad essere il numero due del NOI dopo Elijah Muhammad grazie alle sue doti oratorie e la capacità di fare proseliti. 


Da Nixon a Reagan: la risposta della destra conservatrice


Qualcosa cambiò quando il repubblicano Richard Nixon all’elezione delle primarie del partito repubblicano attuò una nuova strategia politica, puntando sull’elettorato bianco che difendeva il privilegio razziale e che intendeva punire i democratici che avevano posto fine al sistema segregazionista. Nixon puntava ad allargare il divario tra democratici e il Sud del Paese: la sua azione fu di spezzare l’alleanza tra bianchi meno abbienti e la minoranza afroamericana, di metterle l'una contro l’altra e alla fine Nixon riuscì in tal modo a conquistare il consenso del Sud e a vincere le elezioni. Da quel momento in poi le campagne elettorali politiche americane si basarono sull’azione di attrarre verso il Partito repubblicano la popolazione bianca segregazionista senza però giocare la carta razziale. 

Nixon diede un forte impulso alle azioni d’intelligence e dell’Fbi contro i leader e gli attivisti neri per le elezioni presidenziali per il suo secondo mandato. L’altra strategia di Nixon fu di conquistare il voto dei bianchi che volevano fortemente il ripristino delle leggi razziali, come afferma Stefano Luconi docente specializzato in storia degli Stati Uniti nella sua opera “La questione razziale negli Stati Uniti”: «Il presidente Nixon elaborò la cosiddetta “Southern strategy”, un programma volto a soddisfare le richieste politiche dell’elettorato più ostile all’integrazione razziale ». Nixon aveva dato il via a un nuovo tipo di politica della destra e aveva soprattutto trovato il modo di conquistare il Sud del Paese. 

Con la Southern strategy Nixon puntava a soddisfare l’elettorato bianco più ostile alla integrazione razziale, favorendo una interpretazione restrittiva del Civil Rights Act e l’abolizione della clausola del Voting Rights Act (che prevedeva la supervisione del governo federale delle registrazioni elettorali dei neri). Insomma un tentativo di sottrarre i diritti conquistati ai neri. 

Un problema grave era quello dell’integrazione nelle scuole, dove continui erano i casi di conflitti tra studenti bianchi e neri per l’accesso agli istituti scolastici, in cui esistevano quote riservate alle minoranze razziali (il cosiddetto busing). La decisione di confermare il busing da parte della Corte suprema nel 1971 avvenne con la sentenza Swann v. Charlotte-Mecklenburg Board of Education. Per quanto producesse insoddisfazione nei bianchi, dal momento che poteva portare alla esclusione di studenti bianchi anche meritevoli, il sistema delle quote era l’unico modo per superare il razzismo. Come scrisse il giudice Harry Blackmun «Per superare il razzismo dobbiamo tenere conto della razza. Non c’è altro modo. E per trattare alcune persone in modo equo, dobbiamo trattarle in maniera diversa». 

In seguito l’amministrazione Nixon avrebbe modificato il proprio orientamento, abbandonando le posizioni più ostili all’integrazione e favorendo un avvicinamento dell’elettorato nero, di cui non voleva perdere il peso elettorale (la cosiddetta black majority, la maggioranza silenziosa nera). Nixon puntava ora ad ottenere la rielezione nel 1972 chiaramente anche grazie ai voti neri. Ciò nondimeno, Nixon non volle mostrarsi tollerante nei confronti del Black Power e i gruppi affini. 

Il docente di scienze politiche Fabrizio Tonello nel suo libro “Da Saigon a Oklahoma City ” afferma che il partito repubblicano decise dal 1968 di utilizzare la carta razziale a suo vantaggio ma di abbandonare ogni politica di tipo razzista, fattore che costituì la chiave di una serie di vittorie elettorali. Nixon non si limitò a conquistare il voto dei bianchi sudisti, ma come affermava al tempo il politologo Kevin Phillips nel suo articolo intitolato “The Emerging Republican Majority", intorno a Nixon si era aggregata una nuova coalizione di destra formata dall’elettorato conservatore del Sud e dai residenti delle grandi aree metropolitane del Nordest.

I due storici americani Thomas Sugrue e John Skrentny nei loro studi sulla politica di Nixon hanno definito quella repubblicana come una «strategia di costruzione dello spazio simbolico dell’etnicità bianca», che consisteva nello sfruttare l’inquietudine delle rivendicazioni dei neri nei confronti dei bianchi provenienti dall’Italia, dall’Irlanda e dalla Grecia, ponendo gli uni contro gli altri. I repubblicani cercavano di volgere a loro favore le paure dei bianchi per le rivendicazioni dei neri, senza mettere in discussione le conquiste del movimento dei diritti civili dei neri, introducendo l’idea che a subire le discriminazioni ormai erano le comunità dei bianchi. 

Sempre i due storici americani Sugrue e Skrentny hanno affermato che Nixon promosse l’idea che l’etnicità bianca rappresentasse una sorta di sistema di valori in grado di preservare la tradizione e la disciplina della famiglia americana. Richard Nixon sarà ricordato come il presidente degli Stati Uniti che ha condotto una politica ambigua e di repressione nei confronti della comunità afroamericana. 

Dopo Nixon, anche Reagan utilizzerà un linguaggio ambiguo, ad esempio affermando che i diritti civili erano sotto la giurisdizione del governo federale, ma delle istituzioni dei singoli stati. In tal modo la politica presidenziale rimuoveva il problema, senza affrontarlo. Il motivo per cui il Partito repubblicano raccoglieva il notevole consenso della popolazione bianca segregazionista risiedeva nel fatto che il loro privilegio razziale aveva assunto nuove forme. 

Ronald Reagan cresciuto in una famiglia della middle-class di origine irlandese e scozzese nell’Illinois, divenne il nuovo simbolo di una destra dura e della crescente radicalizzazione del Partito repubblicano. Reagan vinse le elezioni presidenziali nel 1980, battendo il presidente in carica Jimmy Carter e insediandosi alla Casa Bianca per un decennio. L’era di Reagan sembrò l’incrocio tra due fenomeni: il primo coincidente nel consolidamento di una nuova coalizione di destra che persisteva nella difesa dei valori tradizionali; il secondo relativo all'appoggio a una nuova forma di economia di stampo neoliberista. Questi due fenomeni porteranno alla nascita della cosiddetta “Rivoluzione conservatrice ”, cui Reagan ha legato il proprio nome. 

Reagan vinse le elezioni presidenziali del 1980 ma soprattutto quelle del 1984 grazie all’emergere di una “ coalizione reaganiana ”, composta di bianchi dei grandi centri industriali del Sud e dell’Ovest, abitanti delle zone rurali del Midwest, colletti blu, cioè operai, e colletti bianchi impiegati del Nord–Est; inoltre Reagan beneficiò anche dell’appoggio dei democratici conservatori del Sud chiamati “ Reagan Democrats ” e persino di cattolici, ebrei e ispanici. 

Reagan non dovette affrontare una crisi politica o economica ma culturale. Il Paese versava in una situazione di recessione e impotenza che ne minava la solidità. Quando fu eletto presidente, fece approvare dal Congresso il piano per il rilancio della produttività, ridusse il potere dei sindacati e riconsegnò ai singoli stati la gestione della politica razziale. Ma il gesto più importante, sebbene solo di facciata, che compì in tema razziale fu di istituire il Martin Luther King Day, la festa dedicata appunto a Martin Luther King. 

Una volta crollato il muro segregazionista e le leggi Jim Crow che avevano costituito il cuore della legislazione anti nera del Sud, cadde anche la barriera di diffidenza degli stati del Nord che in generale rimaneva verso l'intero mondo del Sud, il quale iniziò a poter ottene la possibilità di partecipare alla guida del Paese- Fu dunque chiara la scelta di Reagan di preferire come vicepresidente un texano, George W. Bush Senior. Nel 1989 finalmente il Partito repubblicano sarà pronto a far eleggere un proprio candidato del Sud, ovvero George W. Bush Senior, il quale favorì l’inserimento negli alti ranghi dell’amministrazione di figure eminenti di colore. Stessa strategia perseguirà il figlio George W. Bush Junior giunto alla presidenza (si pensi alle figure di Colin Powell e Condoleezza Rice).

Questa fase è chiamata dagli storici meridionalizzazione della politica americana, suddivisa in tre periodi: il primo, iniziato con Nixon, è caratterizzato dalla rivolta contro l’invadenza del governo federale e la protesta contro la mancanza di ordine e legge; il secondo è rappresentato da Reagan e dal connubio tra riforma politica ed economica e infine il terzo coincide con l’epoca di George W. Bush Senior, che segna l’alleanza tra religione e politica e l’acuirsi delle dispute culturali. 

Le ideologie conservatrici per quanto riguarda il problema razziale affermano che tale problema vada confinato nella sfera di un pregiudizio psicologico, che le differenze costituiscano devianze e che i valori della famiglia siano costantemente a rischio. I tre pilasti su cui poggia il partito repubblicano, sono appunto: individuo, famiglia e patria. L’americano è stato abituato “a farsi da solo” in campo economico, a proteggere la sua famiglia dai disordini, dalle differenze culturali e a collocare la patria sopra di tutto. 

Il Partito repubblicano a partire dall'elezione di Nixon ha dominato la politica americana per quarant’anni, dal 1968 al 2008, ovvero sino alla presidenza di George Bush J. Quest’epoca ha rappresentato l’era conservatrice in America, l'epoca di un’America poco propensa a occuparsi della questione razziale ma pronta a intervenire per disinnescare possibili minacce al privilegio bianco. Per quanto a partire da Johnson l’elettorato nero sia apparso sempre più allineato alle politiche del Partito democratico (in quanto aveva indubbiamente lottato per l’affermazione dei diritti degli afroamericani), col passare del tempo l’elemento razziale ha smesso di costituire un fattore a favore del voto nero verso i democratici. Inoltre l’elettorato bianco a partire dagli anni Ottanta non si rivolse più ai repubblicani seguendo il malcontento verso l’integrazione razziale, ma sempre più inseguendo la tematica della riduzione delle tasse e i problemi legati alla crescita economica. Con la presidenza Carter e poi con l’avvento di Clinton si vide come anche lo stesso partito democratico tendeva a evitare una identificazione completa con la causa dei neri, accantonando il discorso sull’affirmative action e il busing in campagna elettorale per evitare di perdere consenso trai bianchi. Con l’espressione affirmative action si intende qualsiasi azione o provvedimento politico che mira a ristabilire e promuovere principi di equitaà raziale, etnica e sociale. Essa si esprime anche con misure che riservano quote preferenziali alle minoranze nell’istruzione o nelle rappresentanze politiche. La progressiva abolizione dell’affirmative action dagli ordinamenti statali negli USA ha determinato una riduzione delle sfere di presenza degli afroamericani nelle università, così come negli organismi rappresentativi. La politica del Solid South (lett. "Sud compatto, unanime, solido") si riferisce al periodo di forte supporto elettorale da parte del Sud degli Stati Uniti per il Partito Democratico, in un periodo di quasi un secolo che va dal 1877, anno in cui ha termine la prima ricostruzione, al 1964, anno del pieno sviluppo dei movimenti di massa per i diritti civili degli afroamericani.

Proprio l’era Carter peraltro dette avvio a quella riduzione dello stato sociale dalla quale furono proprio colpiti i neri, in quanto principali fruitori dei programmi assistenziali federali. In ogni caso durante la presidenza di Carter gli USA chiusero definitivamente con l’appoggio al segregazionismo nero anche in campo internazionale, condannando l’apartheid sudafricana (vi fu la sospensione delle forniture militari al governo di Pretoria) e imponendo sanzioni alla Rhodesia proprio contro il fenomeno della segregazione che ivi imperava.


La questione razziale dagli anni Novanta alla presidenza di George Bush Jr

La questione della disuguaglianza razziale a metà degli anni Novanta fu studiata da due intellettuali conservatori, Charles Murray sociologo all’American Enterprise Institute e Richard Herrnstein psicologo dell’Università di Harvard, che elaborarono le loro tesi in un lavoro intitolato “The Bell Curve: Intelligence and Class Structure in American Life” (1994). In questo libro si affermava che capacità, intelligenza e ruolo nella società di ogni singolo individuo sono dovuti al loro patrimonio genetico, quindi alla loro razza. Inoltre vi si affermava brutalmente che: «I neri in quanto gruppo sono intellettualmente inferiori ai bianchi, quindi non potranno mai entrare a far parte della classe media e migliorare le loro condizioni di vita». La ricerca di Murray e di Herrnstein conseguì notevole successo, perché il tema essenziale andava a pescare in quel risentimento di una parte dei bianchi contro le politiche a favore degli afroamericani. Con tali affermazioni, questi studiosi non si ponevano molto lontani da un sentimento di superiorità razziale volto a riconoscere unicamente la popolazione bianca come destinataria di diritti e garanzie, secondo una lunga tradizione occidentale che trova nella Herrenvolk democracy o (per usare la traduzione inglese) nella Masterace democracy il suo antecedente più illustre (e inquietante). 

Il sociologo francese Eric Fassin sulla rivista Hérodote affermava che l'impatto maggiore della ricerca di Murray e di Herrnstein fosse quello di aver colto nel pensiero del partito repubblicano la contrapposizione tra libertà e uguaglianza razziale, avendo essi inoltre saputo offrire la visione più radicale del conservatorismo repubblicano americano. 

Nella notte del 4 febbraio del 1999 la comunità afroamericana fu colpita ancora una volta da un episodio di grave discriminazione. Il giovane studente afroamericano newyorchese Amadou Bailo Diallo fu fermato da una pattuglia di quattro agenti in borghese nel quartiere del Bronx. Alla richiesta delle generalità, Diallo infilò la mano nella tasca per estrarre i documenti, ma la reazione dei quattro agenti, per la paura che il giovane potesse estrarre una pistola, fu quella di fare fuoco sul giovane afroamericano. Questo fu uno dei più celebri di una lunga serie di casi di violenza della polizia americana ai danni di neri americani (che purtroppo proseguono a tutt'oggi). 

La reazione non si fece attendere molto da parte della comunità afroamericana, che organizzò per giorni manifestazioni chiedendo a gran voce giustizia e spesso le proteste sfociarono in incidenti e scontri con la polizia. Nel febbraio del 2000 con grande sorpresa i quattro agenti coinvolti nel fatto furono prosciolti e questo causò una vera sollevazione popolare. 

Va segnalato che la recrudescenza della discriminazione dei neri da parte della polizia ha avuto un brusco peggioramento anche per iniziativa democratica, non solo repubblicana. Neppure la presidenza di Bill Clinton ha brillato per imparzialità nei confronti della popolazione afroamericana. Il crime bill emanato dal presidente Bill Clinton nel 1994, ufficialmente voluto per contrastare la criminalità, ha determinato in realtà una improvvisa impennata del numero di detenuti nelle carceri americane, la gran parte dei quali sono proprio neri (gli Stati Uniti detengono infatti il triste primato del numero più alto di detenuti al mondo, ca. 2.200.000). La salita al potere di Clinton era seguita infatti a un crescente arroccamento del Partito democratico sulle posizioni della classe media bianca americana. Il Partito democratico sotto Lindon Johnson (e già con J. F. Kennedy) aveva vissuto infatti una stagione di eccessivo progressismo, che aveva alienato le simpatia di parte  dell’élite bianca. Ora la nuova strategia centrista dei democratici portava ad alienarsi il sostegno degli afroamericani. A ciò erano disposti i dirigenti democratici pur di ritornare al potere, dopo che l’ultimo presidente democratico era stato Jimmy Carter, giunto alla presidenza  in circostanze abbastanza eccezionali. 

Bill Clinton, governatore dell’Arkansas, era stato annunciato come “il primo presidente nero”, prima ancora di Obama, nelle famose parole di Toni Morrison, scrittrice americana. Per il fatto che Clinton fosse cresciuto senza padre, fosse nato povero, avesse un’origine operaia e suonasse il sassofono, essendo inoltre un habitué dei McDonald e un gran donnaiolo, era sembrato ad alcuni che un bianco che avesse le abitudini di un nero, potesse annunciare un’era nuova per i diritti degli afroamericani. Egli dimostrò subito invece, appena giunto al potere, di voler essere inflessibile contro il crimine nero. Respinse infatti la domanda di grazia impetrata da Rickey Ray Rector, un nero cerebroleso condannato a morte per l’omicidio di un agente di polizia, mostrando in alcune occasioni di condividere stereotipi chiaramente razziali, come quando dichiarò che la «violenza contro i bianchi arriva troppo spesso con la faccia di un nero». La stessa volontà di distanziarsi dalle posizioni della comunità nera divenne palese quando nel corso della campagna elettorale del 1992 Clinton, invitato alla Convention della National Rainbow Coalition, criticò apertamente Lisa Williamson, una cantante pop di colore per le sue dichiarazioni al di sopra delle righe contro la violenza ai danni dei neri, relegando inoltre Jesse Jackson (ritenuto successore di Martin Luter King), attivista famoso nella lotta per i diritti degli afroamericani e già candidato alle primarie del Partito democratico in diverse elezioni, in una posizione marginale. Clinton fu sempre preoccupato dal desiderio di non irritare la maggioranza bianca, con provvedimenti di welfare a favore della popolazione di colore, sottoscrivendo anzi leggi volte a ridimensionare le misure esistenti a favore dei neri poveri, come sussidi federali diretti alle famiglie disagiate con figli minori. L’era Clinton in sostanza, come scrive Luconi: «fece eco a un’inversione di tendenza rispetto al ricorso all’affirmative action e alle misure volte a ridurre le diseguaglianze razziali anche in altri settori della vita pubblica, verificatosi in sede giudiziaria a partire dalla fine degli anni Ottanta».

Vittorio Zucconi, giornalista di Repubblica, in tema di episodi di violenza della polizia, in un articolo dell’11 giugno del 2000 scrive: « "tolleranza zero" vuole dire "intolleranza razziale". Nei ghetti neri di Harlem, di East Los Angeles, di Watts, la polizia è il nemico, perché ogni ragazzo scuro all' angolo di una strada, ogni portoricano, ogni africano dinoccolato è un sospetto. Segretamente i dipartimenti di polizia usano il "racial profiling", gli stereotipi razzisti che fanno di ogni giovanotto nero un indiziato. Uno studio recente sulla brutalità poliziesca rivela che l' 83 per cento di tutti gli arresti per "probabile causa", per sempilice sospetto, colpiscono afro americani».

Rudolph Giuliani al momento dell’elezione a sindaco di New York promise di ridurre il numero dei reati, scegliendo la proposta anticrimine di James Wilson, politologo americano e preside l’Università di Harvard e George Kelling criminologo e professore dell’Università di Rutgers, i quali in un loro breve saggio intitolato “Broken Windows ” affermavano che se non si impediva di accumulare degrado e non si agiva con la prevenzione della pubblica sicurezza, non si poteva liberare le città e l’intera società dai crimini. I due autori collaborarono a lungo con gli organi di polizia immaginando un nuovo ruolo per le forze dell’ordine, al fine di rispondere alle paure dei cittadini. Con il passare degli anni si era sperimentato che l’azione delle forze dell’ordine spesso era sottoposta a limitazioni e controlli, con il risultato che perdeva la sua efficacia. Secondo Wilson e Kelling per rendere l’azione della polizia davvero incisiva, essa doveva essere in minima parte limitata e sottoposta a controlli da parte degli organi preposti. La strategia securitaria di Giuliani con l'apporto della teoria "dei vetri rotti" non ha però come noto eradicato il crimine da New York, la cui origine riposa su ben altre cause e ha ben altre origini (sociali, economiche e culturali come si è visto). 

Alessandro De Giorgi docente di diritto all’Università di San Josè nel suo saggio “Zero Tolleranza” ha scritto che nessun rilievo, rispetto alle strategie del controllo, deve essere attribuito alle condizioni sociali e di razza. Difatti tra il 1996 e il 1998 vari rapporti di Amnesty International hanno mostrato la deriva violenta e soprattutto razzista della polizia di New York. Secondo Amnesty International precisamente il 75% di chi denuncia abusi e violenze da parte della polizia è afroamericano. Infine, il presidente del consiglio circoscrizionale di Manhattan Lelland Jones, in una interessante dichiarazione, ha sostenuto che: «Con questa violenta repressione nei confronti dei membri della comunità afroamericana, si è dato il segnale che New York è governata in modo assoluto dai bianchi».

Il penultimo presidente repubblicano è stato George W. Bush Junior, che governò dal 2001 al 2009, l’uomo della vocazione in Dio e nella Bibbia, che aveva come primaria missione, quasi compito ricevuto da Dio per investitura, l’”esportazione della democrazia” e della libertà nei Paesi dove regnava il "male". Il sociologo Alessandro De Giorgi ha parlato del periodo del governo di Bush Junior come di un'epoca in cui l’intensificazione in chiave terroristica delle pratiche di racial profiling  fu ampiamente adottata dai dipartimenti di polizia nei confronti della comunità afroamericana a causa della minaccia terroristica. Jonathan Simon nel suo libro “ Il governo della paura ” parlando della situazione della sicurezza interna americana durante la presidenza di Bush Junior ha scritto che dovere della cittadinanza è osservare attentamente le persone arrestate, per essere sicuri che il governo stia colpendo persone che agiscono come terroristi, e non semplicemente per la loro immagine, per il loro colore della pelle. 

Nel paese, dopo gli attacchi alle Twin Towers dell’11 Settembre e le dichiarazioni di Bush Junior nelle quali affermava che conculcare i diritti civili era il prezzo da pagare per contrastare il terrorismo, si registrò una fiammata di violenza razziale, ma soprattutto iniziò a nascere un nuovo movimento anti – afroamericano, che sfruttava la paura del terrorismo per scagliarsi contro le minoranze razziali, in primis la comunità afroamericana. 

Alla convention della NAACP (National Association for the Advacement of colored people) del 20 luglio 2000 George W. Bush Junior fu duramente contestato dalla comunità afroamericana perché non rispettò le promesse fatte nel suo discorso precedente. In quel momento Bush Junior comprese  forse che doveva tenere presente anche le voci delle cosiddette minoranze razziali. La National Association for the Advacement of colored people era nata nel 1909, in occasione del centenario della nascita di Lincoln, con l’intento di combattere per l’abolizione della segregazione dei neri e contro la violenza ai loro danni.



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Vittorio Zucconi, Accuse veleni e colpi bassi in tv il derby allo sfascio dei democratici, La Repubblica, 27 gennaio 2008.

Vittorio Zucconi, La chitarra di Springsteen un’arma contro la polizia, LaRepubblica, 11 giugno 2000.

Alessandro De Giorgi, Zero Tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, Derive e Approdi, 2000

Luciano Canfora, Esportare la libertà. Il mito che ha fallito, Mondadori, Milano 2007.

Jonatha Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, traduzione di Alessandro De Giorgi, Raffaello Cortina, Milano, 2008.

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