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Dalla copertina del saggio di D. Losurdo "Controstoria del liberalismo" |
Un aspetto tipico dell’epoca culminate
dell’imperialismo europeo nella sua fase “classica” (anni tra il 1870 e
il 1914) è stata la dicotomia tra la retorica dei principi
idealistico-egualitari predicati sul piano nazionale dalle potenze
coloniali europee e la prassi di violenza ai danni delle popolazioni
soggette nelle colonie[1].
Tale stridente dicotomia servì sul piano pratico al fine di garantire
l’ordine interno dei paesi dell’Occidente europeo nel corso dell’età
liberale[2].
1. Introduzione
In Gran Bretagna, più che in ogni altro
paese, in virtù del forte radicamento dei principi del liberalismo, tale
contraddizione apparve evidente. L’anticolonialismo liberale era ormai
minoritario, se non scomparso del tutto, nell’epoca del trionfo
imperialistico di fine Ottocento. Il sentimento di ostilità verso lo
sfruttamento delle colonie, se è vero che è appartenuto alla tradizione
liberale, non ha però invertito la marcia dell’espansione delle potenze
europee specie nell’epoca di irraggiamento coloniale nel corso del XIX
secolo. Raymond Betts ha affermato che «l’assunto storico secondo cui
esistette un’era anti-imperialistica, tipica della “Little England”»
che, a partire dall’anno della pubblicazione dell’opera di Smith, La ricchezza delle Nazioni
(1776) si sarebbe estesa fino al periodo dell’abolizione dei dazi sul
grano in Inghilterra (1846), equivale di fatto a un «mito storico»[3]. Sebbene infatti tale periodo sia
coinciso con una fase di ripudio generale del ruolo delle colonie,
all’inizio del secolo XIX prese piede un «imperialismo del libero
scambio», guidato dall’iniziativa prevalentemente privata, contrapposto
al sistema di colonizzazione mercantile[4].
Sulla sfiducia verso una colonizzazione massiccia guidata dallo Stato, pesava da un lato l’esperienza di emancipazione conseguita dalle colonie americane (sottoposte al governo spagnolo, portoghese e inglese), influenzata dagli ideali della rivoluzione francese e stimolata dalle guerre napoleoniche, dall’altro il tramonto del modello mercantilistico di controllo coloniale fondato sulla costruzione di costosi apparati amministrativi[5]. Le teorie di Edward G. Wakefield e Robert Torrens, che teorizzavano l’emigrazione nelle colonie come valvola di sfogo rispetto alle pressioni malthusiane in Inghilterra, nei primi decenni del XIX secolo inaugurarono una nuova fase “informale” dello sviluppo del fenomeno imperialistico[6]. Sebbene il liberoscambismo premesse per la liberazione delle colonie, l’emancipazione fu ben difficilmente conseguibile come dimostra la continua espansione coloniale europea, specie dell’impero britannico[7]. Il liberalismo ideologico aveva manifestato sentimenti di rifiuto dello sfruttamento coloniale, ma nell’Inghilterra dell’età vittoriana una tale dottrina era pressoché svanita già attorno alla metà del XIX secolo, quando il pensiero liberale era giunto a maturare un atteggiamento «favorevole a un imperialismo tutto sommato remunerativo»[8].
Sulla sfiducia verso una colonizzazione massiccia guidata dallo Stato, pesava da un lato l’esperienza di emancipazione conseguita dalle colonie americane (sottoposte al governo spagnolo, portoghese e inglese), influenzata dagli ideali della rivoluzione francese e stimolata dalle guerre napoleoniche, dall’altro il tramonto del modello mercantilistico di controllo coloniale fondato sulla costruzione di costosi apparati amministrativi[5]. Le teorie di Edward G. Wakefield e Robert Torrens, che teorizzavano l’emigrazione nelle colonie come valvola di sfogo rispetto alle pressioni malthusiane in Inghilterra, nei primi decenni del XIX secolo inaugurarono una nuova fase “informale” dello sviluppo del fenomeno imperialistico[6]. Sebbene il liberoscambismo premesse per la liberazione delle colonie, l’emancipazione fu ben difficilmente conseguibile come dimostra la continua espansione coloniale europea, specie dell’impero britannico[7]. Il liberalismo ideologico aveva manifestato sentimenti di rifiuto dello sfruttamento coloniale, ma nell’Inghilterra dell’età vittoriana una tale dottrina era pressoché svanita già attorno alla metà del XIX secolo, quando il pensiero liberale era giunto a maturare un atteggiamento «favorevole a un imperialismo tutto sommato remunerativo»[8].
Betts ha rilevato due fasi nel rapporto
tra ideali liberali e colonialismo: una prima fase, coincidente con i
primi decenni del XIX secolo, in cui il liberalismo influenzò la
colonizzazione come atto di civilizzazione e mera pratica commerciale
all’insegna del “libero scambio”, e una seconda, a partire dalla seconda
metà del secolo, in cui il progressivo declino del pensiero
universalistico e liberale coincide con una sempre più accentuata
funzione imperiale diretta soprattutto al dominio e alla sottomissione
dei popoli coloniali[9].
Il mutato atteggiamento era stato riassunto da Palmerston nel 1860
quando osservò che «sotto un certo punto di vista, devo dire onestamente
che il commercio non ha bisogno di essere sostenuto dai cannoni; ma
sotto un altro, il commercio non può fiorire senza la sicurezza, e
spesso non è possibile ottenere questa sicurezza senza esibire la forza
militare»[10]. Eppure operare distinzioni e
identificazioni nitide tra i due filoni politici prevalenti in
Inghilterra (conservatori e liberali) e altrettanto nette posizioni in
tema di colonialismo può risultare difficile se non fumoso. Ciò non solo
a causa della sostanziale continuità del fenomeno imperialistico
durante l’Ottocento, che fu affrontato da governi di segno politico ora
conservatore ora liberale, ma anche in virtù della complementarietà del
ceto politico inglese, in cui spesso elementi tories giungevano a diventare esponenti whigs di orientamento anche avanzato.
La persistenza della classe politica
inglese si fondava su un impianto elettorale caratterizzato da collegi
ristretti e sull’esclusione di intere comunità e città popolose. Ciò
contribuiva a perpetuare l’esistenza di un ceto politico ristretto, la
cui egemonia era difficilmente scalfibile dal voto. Un passaggio nella
direzione del suffragio eguale fu operato solo con il Reform Bill del 1867, ai cui tempi Londra aveva diritto a soli quattro rappresentanti presso la Camera dei comuni[11]. Se non è possibile dissociare
chiaramente liberalismo e conservatorismo dal fenomeno imperialistico
ottocentesco, tanto che questi due movimenti politici vennero a
costituire alla metà del XIX secolo un solido blocco storico, è
possibile tuttavia affermare che l’imperialismo è stato un fenomeno che
ha attraversato la storia britannica e europea nel corso del XIX secolo,
fino alla prima guerra mondiale e oltre, ed è possibile sostenere che
sia stata una delle costanti e di quei dati indubitabili dai quali è
impossibile prescindere nel delineare un quadro della politica europea
di quest’epoca.
Sul piano delle relazioni internazionali
il divario teorico-pratico fra l’ideologia liberale e l’effettiva
attività politica, ben comune all’intero milieu politico inglese, sebbene più peculiare dell’ala whig, è stato ben evidenziato da Paul Kennedy:
Formalmente, tutti i membri del partito rendevano omaggio ad alcuni valori fondamentali: la libertà di commercio; la disapprovazione dei regimi autoritari dell’Europa centrorientale – da cui derivava la simpatia per le aspirazioni all’indipendenza del popolo italiano, greco e polacco; il rifiuto di alleanze vincolanti con altre potenze europee, lo scarso entusiasmo per l’espansione coloniale; e una moderata preferenza, ferma restando la necessità di preservare la supremazia marittima della Gran Bretagna, per la riduzione delle spese militari e il superamento delle controversie internazionali tramite trattative e soluzioni di compromesso piuttosto che con la guerra. Ciò nonostante, non si poteva essere certi che la politica realmente praticata sarebbe stata in armonia con questi ideali. [12]
Alcuni filosofi come il proto-liberale Jeremy
Bentham, maestro di un altro ideologo liberale come John Stuart Mill,
erano stati sfavorevoli all’imperialismo e allo sfruttamento delle
colonie accampando la non utilità delle stesse e invocando la loro
emancipazione[13].
Ma nella politica realmente praticata tali ideali dovettero trovare un
compromesso con le esigenze legate al mantenimento dell’impero, e ciò è
valido non solo per l’Inghilterra ma anche per il resto del continente. Già prima del 1914 l’anticolonialismo
aveva finito per divenire proprio delle forze politiche di sinistra e
con l’avvento di Benjamin Disraeli al potere in Inghilterra, il quale
teorizzò l’importanza dello slancio coloniale inglese durante un famoso
discorso al Crystal Palace di Londra nel 1872[14], l’imperialismo era divenuto una componente imprescindibile per le classi dominanti inglesi di ogni segno politico[15].
Disraeli pronunciò in quel discorso parole di biasimo contro i liberali anticolonialisti, dando inizio ad un epoca in cui l’imperialismo era strettamente associato agli ideali di un saldo liberalismo, benché sulla via del declino, e in cui la spinta coloniale si legava sempre più alla costruzione dell’identità nazionale. Disraeli, ritornato al potere nel 1874 succedendo a Gladstone, inaugurò un’epoca in cui le riforme per il risanamento edilizio, la sanità pubblica, le tutele sul lavoro si accompagnavano alla difesa dell’impero, il quale se andava incoraggiato nell’autogoverno, doveva essere mantenuto coeso tramite una struttura tariffaria comune e accordi di difesa reciproca[16]. L’affermazione del liberalismo in connubio con l’imperialismo segnava una crisi del liberalismo tradizionale “classico”, ma al tempo stesso fu l’inizio di una trasformazione foriera di grandi mutamenti che sarebbero giunti a maturazione nel corso del Novecento (dal ruolo dello stato, alla crisi del libero scambio, alla crescita del nazionalismo associato alla grande espansione coloniale)[17].
Disraeli pronunciò in quel discorso parole di biasimo contro i liberali anticolonialisti, dando inizio ad un epoca in cui l’imperialismo era strettamente associato agli ideali di un saldo liberalismo, benché sulla via del declino, e in cui la spinta coloniale si legava sempre più alla costruzione dell’identità nazionale. Disraeli, ritornato al potere nel 1874 succedendo a Gladstone, inaugurò un’epoca in cui le riforme per il risanamento edilizio, la sanità pubblica, le tutele sul lavoro si accompagnavano alla difesa dell’impero, il quale se andava incoraggiato nell’autogoverno, doveva essere mantenuto coeso tramite una struttura tariffaria comune e accordi di difesa reciproca[16]. L’affermazione del liberalismo in connubio con l’imperialismo segnava una crisi del liberalismo tradizionale “classico”, ma al tempo stesso fu l’inizio di una trasformazione foriera di grandi mutamenti che sarebbero giunti a maturazione nel corso del Novecento (dal ruolo dello stato, alla crisi del libero scambio, alla crescita del nazionalismo associato alla grande espansione coloniale)[17].
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Benjamin Disraeli |
2. Imperialismo sociale e “doppio standard” liberale
Eric Hobsbawm ha posto in luce il rapporto stridente e contradditorio tra le forze operanti interamente ai regimi liberali che - sulla base al darwinismo sociale allora imperante - premevano per la
prevalenza del più forte in campo economico e il resto dell’impero
abitato dalle popolazioni coloniali indigene. Tale elemento costituiva
però un fattore di duplice debolezza, un’arma «a doppio taglio»[18].
Se l’Europa si cullava nel «vivere di rendita» sulle spalle delle
popolazioni coloniali, intravedendo la decadenza dietro il venir meno di
energie che facevano leva sull’apporto di forze esterne, al tempo
stesso «gli incubi dell’impero» tendevano a fondersi «con il timore
della democrazia», in quanto la metropoli capitalista, pretendendo di
«esportare la civiltà nel mondo coloniale», incorporava un doppio
rischio, sul piano interno e sul piano internazionale[19].
L’Occidente si trovava a fa fronte oltre che al rischio di rivolta
nelle colonie, anche a dover risolvere la questione sociale interna e la
montante insofferenza della classe operaia[20].
L’imperialismo ebbe delle inevitabili
ricadute negative sul piano sociale, a dispetto dei sostenitori di un
espansionismo come valvola di sfogo dalle pressioni interne, soprattutto
in Inghilterra, dove i teorici britannici del liberalismo non si fecero
specie a sostenere l’impero come normale prassi di gestione degli
affari e della vita politica, «invocando la rilevanza politica di
categorie quali l’etnicità, le gerarchie di civiltà, e talvolta, la
razza e i legami di sangue»[21].
I sostenitori dell’imperialismo sociale
sottolineavano i «benefici economici che l’impero poteva recare,
direttamente o indirettamente, alle masse malcontente», ovvero tendevano
a configurare una nuova barriera, tra comunità bianca e le colonie,
facendo cadere quella interna alla comunità bianca che, in quel tempo,
conobbe un consistente processo di democratizzazione, sebbene segnato da
difficoltà e contrasti e limitato alla sola componente maschile della
società[22].
Tra questi imperialisti vi furono Cecil Rhodes, primo ministro della
Colonia del Capo (1890-1895) o l’altrettanto noto Alfred Milner,
autorevole sostenitore, accanto al ministro delle Colonie Joseph
Chamberlain, del federalismo imperiale britannico fondato sull’identità
di sangue anglosassone[23].
In altri termini, come rileva Losurdo, con il nuovo modello di imperialismo sociale o di “socialismo imperiale” (Imperialsozialismus)
«alle limitate riforme sociali delle classi dominanti, le classi
popolari e il proletariato sono chiamati a rispondere con il lealismo
patriottico e l’appoggio all’espansionismo coloniale»[24].
Le masse venivano chiamate a partecipare al processo espansionistico
coloniale, sostenuto dalle classi che avevano un interesse diretto nella
sua prosecuzione e espansione, in cambio di una limitata partecipazione
alla politica nazionale, la quale era volta, più che a migliorarne le
condizioni, ad eleggere i nuovi cittadini della nazione ad uno status
superiore, in cui caratterizzazione nazionale e sponsorizzazione
dell’imperialismo erano visti come forme identitarie di contrapposizione
alle colonie popolate da razze considerate inferiori.
Betts ha rilevato in effetti come
l’imperialismo nascesse dagli squilibri economici interni all’Europa
(innescati dalla seconda rivoluzione industriale) e fosse la risposta
alle pressioni del complesso militare-industriale del tempo. Tali
pressioni dettero luogo ad una sindrome da «imperialismo ansioso» (il Torschlusspanik tedesco) che condusse a un così rapido irraggiamento coloniale alla fine dell’Ottocento[25].
Sulla nuova fase di espansione iniziata
nella seconda metà del XIX secolo pesò il ruolo della crisi economica.
Alla grande depressione (esplosa nel 1873) che aveva colpito le
principali economie globali nel terzultimo decennio del XIX secolo, si
tentò di dare uno sbocco per mezzo dell’imperialismo, il quale poté
svolgere un ruolo decisivo. Come ha notato Hobsbawm «la coincidenza
cronologica tra la Depressione e la fase dinamica della spartizione
coloniale del globo è stata spesso rilevata», e di fatto proprio la
crisi degli anni Settanta, la nuova corsa alla spartizione dell’Africa,
decisa a tavolino nella Conferenza di Berlino (1884), determinano quelle
pressioni del capitale «in ricerca di investimenti più proficui» che
sono all’origine del nuovo espansionismo[26].
Paul Kennedy ribadisce che «la competizione per le colonie della metà
degli anni ottanta derivò in misura considerevole dalle angosce
economiche della decade precedente»[27].
Una conferma di tale tesi è fornita
dall’impronta lasciata da Jules Ferry nella storia del colonialismo
francese fino al 1890. Il repubblicano Ferry, nominato primo ministro
nel 1881, sebbene inizialmente scettico sul ruolo della spinta coloniale
sul piano interno, sposò poi la causa imperiale avviando dapprima
l’impresa di Tunisi, poi proseguendo nella conquista dell’Indocina, del
Madagascar e nell’estensione dei possedimenti francesi in Africa
occidentale[28].
Ferry rimase noto per aver stabilito la connessione tra politica
industriale nazionale e politica coloniale, aggiungendo a questa
saldatura, la pratica del colonialismo come civilizzazione delle razze
ritenute inferiori. Egli se in patria fu artefice di una riforma
dell’istruzione che garantiva l’obbligatorietà e gratuità
dell’istruzione elementare, al tempo stesso risultò il creatore della
presenza francese in Indocina, che sarà «descritta come l’equivalente
francese dell’India britannica nei successivi annali dell’impero»[29].
Tra i teorici marxisti della teoria
dell’imperialismo che ritennero il fattore economico preponderante nello
sviluppo del fenomeno colonialista, il saggio di Lenin del 1916
introduce la lettura dell’imperialismo come fase culminante del processo
di sviluppo capitalistico, ovvero come stadio specifico dello sviluppo
del capitalismo occidentale, ed europeo in particolare[30]. Il saggio Lenin si rifà all’opera dell’economista inglese J. A. Hobson (Imperialismo,
1902), al quale si deve l’avvio del dibattito attorno a un fenomeno
che, secondo Lenin, prende corpo attorno alla seconda metà del XX secolo
o al più nell’ultimo quarto del medesimo (in coincidenza con la guerra
ispano-americana e la guerra anglo-boera) e si conclude, nella sua fase
precipua, con lo scoppio del primo conflitto mondiale[31].
Tra coloro invece che hanno negato risolutamente una genesi economica
del colonialismo e che non attribuiscono al colonialismo, e quindi
all’imperialismo, il carattere di elemento dell’accumulazione originaria[32], si segnala la posizione dello storico Paul Bairoch[33].
A conferma del permanere di squilibri
interni agli stessi regimi liberali nonostante l’epoca del trionfo
coloniale, se si guarda bene alla realtà sociale degli stessi sistemi,
si vede come fosse perpetuata una «sistematica esclusione politica di
una varietà di gruppi e tipi di persone» anche sul piano interno e non
solo nella opposizione tra il «parassitismo delle metropoli» e il temuto
«trionfo dei barbari»[34].
«La tradizione liberale» in quest’epoca, secondo Losurdo, non avrebbe
infatti conosciuto «alcuna contraddizione tra conclamata uguaglianza
giuridica e pratica dell’esclusione dai diritti politici dei
nullatenenti e delle donne»[35].
Non solo quindi i rapporti di tipo
coloniale si trovavano «a coesistere in profonda tensione con il
discorso universalistico che scaturiva dalle idee di libertà e di
progresso sociale» ufficialmente praticate[36],
ma esistevano anche disparità sociali e tensioni all’interno del corpo
sociale e politico degli stessi regimi liberali. Come sintetizza
Losurdo, per stare al confronto con le colonie collocate nell’emisfero
americano, «quelli che su una riva dell’Atlantico si configurano come
rapporti di classe sull’altra si presentano come rapporti di razza»[37]. I Virginiani difatti, primi coloni del nuovo continente, se da un lato intendevano farla finita con l’ancien regime,
al tempo stesso tradussero in razzismo al loro arrivo in America quello
che era il disprezzo da essi nutrito per le classi inferiori: «agli
occhi dei gruppi dirigenti del paese – è stato osservato – la società
era divisa tra una classe di coloni-padroni e una di paria che
raggruppava indiani, mulatti e neri»[38].
3. Proprietà “assoluta” e autogoverno della colonia
Per spostarci sul piano delle colonie,
un’altra contraddizione tra ideali e prassi politica liberali riguardava
la coesistenza tra norme e istituzioni volte a limitare il potere della
monarchia e della classe nobiliare all’interno degli emergenti regimi
liberali (sin dall’epoca di Locke, prima ancora che di Montesquieu), a
tutela della classe possidente liberale, e il ricorso a un “potere
assoluto”, ovvero sciolto da vincoli, da parte dei coloni, spesso
proprietari di schiavi:
Il principio della limitazione del potere veniva fatto valere nell’ambito della comunità bianca, ma non per quanto riguardava il rapporto che quest’ultima intratteneva nelle colonie con la popolazione di colore e di origine coloniale; era considerato valido nell’ambito dello spazio sacro, ma non in relazione al rapporto tra spazio sacro e spazio profano[39].
L’eguaglianza rivendicata dai
proprietari delle colonie rispetto ai gentiluomini londinesi andava di
pari passo con il conculcamento dei diritti degli indigeni e con la
«reificazione dei servi che tendono a essere assimilati agli altri
oggetti di proprietà»[40].
I coloni, come osserva lo storico Macaulay, sono assimilabili a una
«casta sovrana», paragonabile a quella presente a Sparta, che esercita
un potere indiscriminato sugli schiavi[41].
Ma in realtà tale disparità non risulta
così inimmaginabile. Il potere assoluto dei proprietari era già una
pretesa dei proprietari borghesi a metà Seicento, tanto che Locke,
secondo Laski «sintetizzò, non innovò, quando disse che “il potere
supremo non può sottrarre a nessun uomo alcuna parte della sua proprietà
senza il suo consenso”»[42].
La contraddizione è quanto mai evidente nelle colonie, e non solo nella
metropoli europea, tanto che al fine di evidenziare la disparità tra
autogoverno come pretesa di libertà delle istituzioni coloniali e
pratica della schiavitù ancora Losurdo afferma:
Mentre stimola lo sviluppo della schiavitù-merce su base razziale e scava un abisso insormontabile e senza precedenti fra bianchi e popoli di colore, l’autogoverno della società civile trionfa agitando la bandiera della libertà e della lotta contro il dispotismo. Fra questi due elementi, che vedono la luce assieme nel corso di un singolare parto gemellare, si istituisce un rapporto ricco di tensioni e contraddizioni[43].
Solo con la conquista dei diritti
politici da parte della popolazione nera negli Stati Uniti a partire dal
sesto decennio del XIX secolo (e dunque con l’influenza della
rivoluzione abolizionista), la classe operaia dei bianchi otterrà in
Inghilterra, attraverso il secondo Reform Bill (1867), l’allargamento del suffragio[44]. Se il Reform Act
del 1832, che aveva portato a un primo allargamento del diritto di
voto, aveva avuto ragioni endogene all’Europa, avendo fatto seguito agli
eventi della rivoluzione di Luglio in Francia, il Reform Act del 1867 subì l’influsso determinante del successo della causa antischiavista sull’altra sponda dell’Atlantico[45]. Interessante notare anche come l’imperialismo sociale di Disraeli, che procede ad attuare il secondo Reform Act, coincida con la fase più acuta di affermazione dell’imperialismo inglese su scala globale[46].
Losurdo sostiene che l’assenza del freno
da un lato del potere civile e del governo della madrepatria (che
avrebbe voluto interdire l’espansione dei coloni al di là degli
Appalachi)[47],
dall’altro di quello delle autorità religiose, sanciscono un dominio
assoluto e un potere incondizionato, per parafrasare Locke, sulla
popolazione degli schiavi[48].
La tendenza all’instaurazione di un potere privo di vincoli nelle
colonie da parte dei proprietari precede addirittura di un secolo la
Rivoluzione americana, la quale segna il trionfo dell’autogoverno
coloniale. La rivolta di Nathaniel Bacon contro il governatorato di
William Berkeley in Virginia, una delle prime sovversioni coloniali
nelle Tredici colonie motivate dal risentimento anti-indiano, risale già
al 1676, mentre le spedizioni di William Walker in America centrale
(Nicaragua e Messico), motivate da ragioni di conquista e volte a
reintrodurre il sistema di sfruttamento schiavistico laddove era stato
abolito, si svolgono addirittura a ridosso della guerra di secessione [49]. In un discorso nel 1901 Theodore Roosvelt attuava ex post la rivendicazione dell’autogoverno come affrancamento dal contenimento territoriale imposto da Londra:
Il fattore principale nel produrre la Rivoluzione, e più tardi la guerra del 1812, fu l’incapacità della madrepatria a comprendere che gli uomini liberi, i quali avanzavano nella conquista del continente, dovevano essere incoraggiati in quest’opera. L’espressione dei duri, avventurosi uomini della frontiera era per gli statisti di Londra causa di ansietà piuttosto che di orgoglio, e il famoso Qebec Act del 1774 fu in parte architettato con lo scopo di mantenere permanentemente ad est degli Allegani le colonie di lingua inglese e conservare la possente e bella vallata dell’Ohio come terreno di caccia per i selvaggi[50].
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Theodore Roosvelt |
Una delle motivazioni principali della
guerra di indipendenza, lo conferma lo stesso Roosvelt, fu legata
all'imposizione da parte della corona inglese di vincoli all’espansione
dei coloni al di là della catena degli Appalachi. Tale limitazione venne
sancita inizialmente dal proclama di Giorgio III del 1763 e venne poi
ribadita alla vigilia della Rivoluzione dal Quebec Act del
1774. In base a questa legge i territori tra l’Ohio e il Mississippi
inglesi strappati alla Francia durante la guerra dei sette anni venivano
inclusi nella provincia del Quebec, venendo sottratti di fatto ai
coloni.
La limitazione venne severamente
contestata, tant’è che, a guerra d’indipendenza conclusa, il territorio
dei tredici Stati si estendeva ben ad Ovest della linea del proclama del
1764[51].
Il blocco all’emigrazione avrebbe ostacolato la penetrazione dei
pionieri oltre la zona di confine e posto un argine all’emigrazione
della popolazione eccedente. Il trattato di Versailles del 1783, che
sanciva il riconoscimento dell’indipendenza degli Stati Uniti, spostò
infine il confine statunitense dalla linea degli Allegani al fiume
Mississippi, favorendo l’acquisizione di nuovi territori, mentre a Nord e
a Sud si decise che il confine si sarebbe attestato ai Grandi Laghi e
al 31° parallelo[52].
Una volta che la rivoluzione dei
proprietari ha conseguito il successo e l’autogoverno è compiuto, sale
alla ribalta la questione degli schiavi. La Rivoluzione americana riapre
il dibattito sulla schiavitù riguardo alla sua ammissibilità
nell’ambito della comunità dei liberi, dibattito che sembrava placato
nell’ambito del movimento liberale (il quale sulla scorta di Montesquieu
era giunto alla conclusione della sua intollerabilità in Europa). La
questione coloniale riacquista in quest’epoca «visibilità e centralità
nuove in un paese con una cultura, una religione e una lingua di origine
europea»[53].
Si può tentare di concludere che il ruolo svolto dai padri fondatori
nella perpetuazione della schiavitù, invischiati com’erano nel possesso
degli schiavi, fu tutt’altro che irrilevante in un periodo in cui «il
movimento per l’abolizione della schiavitù era già ben sviluppato sulle
due rive dell’Atlantico»[54].
4. Pensiero liberale e questione coloniale
È lo stesso Locke, padre del liberalismo
classico, a difendere il diritto “assoluto”, ovvero sciolto da vincoli,
del proprietario di schiavi sulla propria merce umana, sostenendo la
legittimità della schiavitù perfetta. Locke distingue tra una schiavitù
“perfetta” e una schiavitù “imperfetta”: la prima si esercita in danno
dei neri e dei pellirossa nelle colonie, mentre la seconda riguarda i
servi a contratto[55].
Locke giustifica la schiavitù perfetta in situazione di guerra («dei
prigionieri presi nel corso di una guerra legittima»), mentre afferma
che un qualsiasi uomo libero può rendersi servo di un altro sotto
contratto temporaneo, anche se in questo modo cesserebbe il regime di
schiavitù del primo tipo[56].
Passando ad Adam Smith, il quale può
considerarsi iniziatore del liberalismo moderno, si constata che
l’economista inglese, pur essendo contrario alla schiavitù[57],
riteneva che il grado di uguaglianza in seno alla nazione civilizzata
risultasse più ampio del divario esistente fra nazione civile e nazione
primitiva[58].
Adoperando come metro di giudizio comparativo tra le civiltà
l’abbondanza dei beni materiali, egli affermava che «la distanza che
separa un principe europeo da un contadino industrioso e frugale è meno
grande di quella tra quest’ultimo e i vari re africani, padroni assoluti
della vita e della libertà di diecimila selvaggi nudi»[59].
Smith sosteneva che l’abolizione della schiavitù, qualora debba
attuarsi all’interno del contesto istituzionale liberale, potrà avvenire
solo a condizione di compromettere la libertà degli stessi signori
borghesi, dunque sotto un «governo dispotico»[60].
La schiavitù è ritenuta una componente di importanza tale da non poter
essere rimossa se non andando a svantaggio della classe dominante.
Se si passa a teorici liberali
settecenteschi come Hume e Kant il giudizio non muta. Hume, ritenuto
fondatore della teoria liberale del diritto, benché ritenesse necessario
abolire la schiavitù[61],
sostenne che «si può ottenere qualsiasi cosa da un negro se gli si
offre una bevanda alcolica, e si può facilmente riuscire a fargli
vendere non solo i propri figli, ma la moglie e l’amante per un barile
di acquavite»[62].
Kant invece, esponente della tradizione liberale tedesca, ben lontano
dal concepire una dimensione universale dell’uomo, che sarà fatta
propria da Hegel il quale la raccorderà con l’idea di uguaglianza[63],
sosteneva che «così sostanziale è la differenza tra queste due stirpi
umane [dei bianchi e dei neri] da essere tanto grande quanto la
differenza di colore»[64].
Pur essendo presente in Kant il «nesso fra senso dell’”alterità” e
ragione egualitaria», il che si nota in molti passaggi del suo saggio
più noto Per la pace perpetua dove risente dell’influsso degli
ideali della rivoluzione francese, invero in lui convive una concezione
razziale che comporta un giudizio di inferiorità sul nero[65].
Montesquieu fa rientrare in una concezione deterministica ambientale la riflessione sul fenomeno della schiavitù nella propria opera.
Egli giustificava la schiavitù ricorrendo all’argomento delle
differenze climatiche: essa è accettabile nei paesi con climi caldi,
mentre è inattuabile nelle regioni settentrionali del mondo, ovvero in
Europa e in Inghilterra in particolare, luogo esclusivo della libertà
(per inciso, la libertà inglese per Montesquieu discende da quella
primitiva germanica)[66]. Più che sull’abolizione tout court, il discorso di Montesquieu verte sull’emendamento dell’istituto sulla base del Code Noir, emanato più di mezzo secolo prima da Luigi XIV[67].
Anche Ugo Grozio, padre del
giusnaturalismo moderno, il quale avrebbe inteso «porre il diritto
naturale a fondamento di un diritto che potesse essere riconosciuto come
valido da tutti i popoli»[68], se da un lato idealmente celebrava il paese scaturito dalla ribellione contro Filippo II (le Province Unite), dall’altro nel De iure belli ac pacis giustificava l’istituto della schiavitù, procedendo alla degradazione dei nativi delle colonie, definiti in un unicum come «barbari». Da ciò consegue che:
In Grozio, assieme alla legittimazione implicita delle pratiche genocide in atto in America, emerge la giustificazione esplicita e insistente della schiavitù. Essa è talvolta la punizione di un comportamento delittuoso. A doverne rispondere non sono solo gli individui: «anche i popoli possono essere ridotti ad un assoggettamento pubblico a punizione di un crimine pubblico»[69].
In tutti gli autori fin qui citati
traspare con chiarezza un dato: che «l’autocoscienza dell’Europa come
rappresentante privilegiata o esclusiva della libertà» è in grado di
condurre il «senso d’identità e di comune appartenenza, nonostante la
molteplicità degli Stati che la costituiscono, ad un’entità culturale e
politica unica e infinitamente superiore a tutte le altre»[70].
Un tale senso di appartenenza conduce i medesimi autori a dichiarare la
superiorità della civiltà europea e del proprio modello civile tramite
una contestuale riduzione d’importanza dei mondi esterni rientranti
nella sfera coloniale. Il regime di soggezione, quasi attingendo a una
tradizione ideologica che affonda le radici nella storia cristiana, può
applicarsi bene ai popoli gentili, essendo la condizione di schiavo
legittima, secondo il dettato aristotelico e paolino, in chi nasce già
schiavo (o vi è destinato in quanto figlio di una “razza minore”) o vi
diventa «per una causa legittima»[71].
Risulta essere insita nell’ideologia
liberale e nella sua «disposizione d’animo», caratterizzata dalla difesa
della libertà individuale, sin dai suoi primi teorizzatori, il non
avere valore universale, «poiché il suo esercizio era limitato agli
uomini che avevano una proprietà da difendere»[72].
Se si viene allo storico britannico
Edmund Burke, si osserva come questi sottolineasse i legami
inscindibili, di razza e cultura, tra madrepatria e colonie, affermando
come fosse proprio della nazione inglese («nelle cui vene circola il
sangue della libertà»)[73]
un senso di libertà e di refrattarietà alla schiavitù come non si
vedeva in nessun altro popolo (il riferimento è quelli oppressi dalla
tirannide monarchica)[74].
L’istituto della schiavitù non è applicabile alla razza dei signori
bianchi, mentre è tollerato verso i neri e le popolazioni native[75].
Un allievo della scuola di Burke è John
Stuart Mill, che a metà Ottocento sostenne come il governo
rappresentativo fosse esclusivo degli anglosassoni, mentre il resto
della razza umana era destinato a permanere in uno stato di inferiorità[76].
Il sistema delle libertà civili risultava valido solo per «esseri umani
nella pienezza delle loro facoltà», mentre ne dovevano essere escluse
le «società arretrate in cui la razza stessa può essere considerata
minorenne», in altre parole quando «si ha a che fare con barbari»[77].
Tocqueville infine, tra gli esponenti
principali della tradizione liberale inglese sul continente, apponendo
in qualche modo un sigillo sul Manifest Destiny americano,
affermava che gli Indiani, prima dell’arrivo degli Europei, occupavano
sì i territori nordamericani, ma senza averne il possesso, «poiché solo
con l’agricoltura l’uomo si appropria del suolo e i primi abitatori
dell’America del Nord vivevano dei prodotti della caccia»[78].
Così cieca è la fiducia nel ruolo colonizzatore dell’Europa, che egli
intravede nella rivoluzione degli schiavi haitiani guidati da Toussaint
Louverture una rovina, una «sanguinosa catastrofe»[79].
In occasione della prima guerra dell’oppio contro la Cina (1839-1842),
il filosofo francese celebra «l’ultima tappa di una moltitudine di
avvenimenti della medesima natura che spingono gradualmente la razza
europea al di fuori dei suoi confini e sottomettono successivamente al
suo impero o alla sua influenza tutte le altre razze»[80].
Appare evidente come l’appoggio del colonialismo da parte del filosofo
francese ponga «in luce un “limite”, una “soglia” in senso faucaultiano»
nel suo pensiero, tale che non è pensabile attuare una sottovalutazione
del rapporto conflittuale che in lui si configura tra fedeltà agli
ideali della libertà umana e mentalità coloniale[81]. Come si è tentato di dimostrare, tale antinomia è comune a molti autori del pensiero liberale.
5. Liberalismo e Herrenvolk democracy
Su questa schematica visione
discriminatoria e giustificata da un doppio standard tra bianchi e
popoli delle colonie, si fonda la categoria politica di Herrenvolk democracy,
espressione composta di una parola tedesca e di una inglese che
letteralmente indica la “democrazia per il popolo dei signori”. Essa
trae origine dall’imperialismo e dalla realtà coloniale e la sua
applicazione effettiva ha conosciuto come teatro il Vecchio continente
per quanto concerne le colonie, e gli Stati Uniti per quanto riguarda il
territorio degli stati del Sud[82]. Nel modello Herrenvolk
la democrazia è appannaggio della razza superiore, vale a dire la
comunità aristocratica dei bianchi, la quale sola può beneficiare dei
diritti di uguaglianza. Per attuarsi essa richiede l’esclusione delle
componenti allogene dal loro godimento.[83] La democrazia razziale ristretta ai bianchi non può essere estesa a chi per stirpe e genealogia ne è escluso.
Secondo Losurdo tale forma di democrazia «attraversa in profondità la storia dell’Occidente liberale», spingendosi fino ad oggi[84], mentre Luciano Canfora sostiene che:
L’idea che l’ordinamento politico detto «democratico» fosse legato strettamente ad un fattore che è disgustoso definire razziale, ma che esattamente così è stato presentato, era convincimento diffuso nell’Occidente euro-atlantico, e forse è tuttora alla base delle iniziative a carattere imperiale offerte da ultimo all’opinione pubblica sotto la sconcertante formula «portare la democrazia».[85]
Per citare ancora Losurdo, esiste «una
linea di continuità» che «conduce da Burke a Disraeli e alle forme più
virulente di imperialismo di cui il Terzo Reich è l’erede»[86]. Disraeli se amplia la base degli organismi rappresentativi, sembra intravedere nella miscegenation un pericolo di deterioramento per la razza bianca[87].
Per Disraeli il concetto di razza è un elemento fondamentale della
storia, a tal punto che l’ascesa stessa dell’Occidente secondo il
politico inglese può spiegarsi solo in termini di superiorità razziale
dell’Europa[88]. Hannah Arendt, la quale ne Le origini del totalitarismo
sussume sotto la categoria di totalitarismo anche l’Unione Sovietica
(accanto alla Germania nazista), non eviterà di scagliarsi «contro le
“concezioni naturalistiche”, che, a partire dalla liquidazione
dell’ideale dell’egalité, si diffondono soprattutto in Inghilterra e Germania»[89].
Arendt nella sua opera più nota, a
proposito della relazione tra ruolo della burocrazia e gestione
dell’impero, fa notare come in realtà la prima attestazione del ricorso
ai campi di concentramento (fenomeno nel quale l’idea della
sottomissione di una razza o di un popolo giunge a esiti genocidi), con
il loro portato di morte definito con criteri burocratici, avvenga
presso l’amministrazione coloniale inglese tramite l’attuazione del
«massacro amministrativo»[90].
Le pagine di Arendt forniscono elementi a favore di un’interpretazione
coloniale della genesi del concetto di sterminio e più propriamente di
genocidio, così come del concetto di totalitarismo, che trova anch’esso
la propria origine nel contesto coloniale. Una tesi in qualche modo
confermata da Niall Ferguson, il quale, smentendo la filiazione
dall’ideologia totalitaria novecentesca dell’etnocidio, ha sostenuto che
«il genocidio ha preceduto il totalitarismo»[91].
Parrebbe esserci una sorta di filo
conduttore che, a partire da una certa area del liberalismo legata a
concezioni naturalistico-positivistiche e social darwinistiche (anche se
l’idea stessa maturata in ambito coloniale del dominio incontrastato di
una minoranza razzialmente e socialmente distinta già ne implica il
significato esclusivo), conduce ad alcune successive esperienze
storiche, rintracciabili nell’apartheid nel Sud degli Stati Uniti, nel
nazismo hitleriano, il cui progetto imperialistico intendeva raccogliere
l’eredità storica del colonialismo europeo, fino alla politica di
segregazione razziale attuata in Sudafrica[92].
Il ruolo del darwinismo sociale, una sorta di variante del razzismo
biologico allora dominate, è stato quello di sostegno immancabile
dell’atteggiamento imperialistico e militaristico dell’Occidente, e in
particolare della Gran Bretagna, in virtù del principio della prevalenza
del più forte (tanto sul piano sociale, quanto su quello
internazionale)[93].
Il consolidamento di quella frattura che
configura una democrazia per il popolo di signori contrapposta al resto
del mondo, si è osservato come cominci dalla politica di ampliamento
del suffragio scaturita in alcuni paesi liberali nella seconda metà del
XIX secolo, e in particolare in Inghilterra e Francia (non a caso tra le
maggiori potenze coloniali). Se sul piano interno si procede ad
abbattere la barriera tra proletariato e borghesia, procedendo ad una
democratizzazione faticosa, a tratti forzata e limitata, sul piano
internazionale si scava sempre più il solco tra Europa, patria delle
libertà, e mondo coloniale, luogo della sottomissione schiavistica. Come
nota Canfora:
Si delinea, nei due paesi che si trovarono a più stretto contatto ed in maggiore sintonia dopo il «riordino» europeo stabilito dal congresso di Vienna, il contrasto che segnerà il XIX secolo tra liberalismo e democrazia, intendendosi per liberalismo non l’astratta e pur vivificante affermazione di princìpi assoluti, ma la pratica concreta dei ceti possidenti e decisi a proteggere col suffragio ristretto la loro prevalenza sociale[94].
Si opera in questo passo una distinzione
molto netta tra liberalismo, quale ideologia delle classi dominanti
che, attraverso il suffragio ristretto e ammesso su basi censitarie,
punta a perpetrare il posto di predominio nella società della classe
abbiente, e la democrazia quale forma di governo del popolo. Questa
implica l’applicazione integrale del suffragio universale e non una sua
limitazione in termini censitari o razziali. Persino la pericolosa
marcia indietro plebiscitaria di Luigi Napoleone del 2 dicembre 1851
svolta «in nome del suffragio universale», è parte di un più vasto e
contradditorio processo di affermazione, talvolta segnato da
interruzioni brusche, della democrazia e del suffragio universale su
scala europea[95].
Quale luogo di applicazione di questa
gigantesca “discrasia” tra diritti, sul piano della contrapposizione tra
mondo europeo e mondo coloniale, la Gran Bretagna funge senz’altro da
simbolo. Non sono un mistero le simpatie del Fuhrer per l’imperialismo
anglosassone o per la democrazia razziale realizzata nel sud degli Stati
Uniti. Adolf Hitler sul Daily Mail del 1937, riferendosi al
paese patria del liberalismo, celebrava «l’attitudine coloniale
storicamente unica e la forza navale della Gran Bretagna»[96]. Nel progetto di dominio europeo hitleriano iscritto nel Generalplan Ost l’Europa
orientale sarebbe stata luogo di applicazione della legge coloniale e
bacino di manodopera a tutto beneficio del potenziale industriale della
Germania[97]. Hitler prendeva a modello l’esperienza coloniale inglese in India, puntando a creare in Ucraina un «nuovo impero indiano»[98].
Il futuro fondatore del terzo Reich auspicava inoltre l’accordo trai
due paesi nordici, o tra le «due grandi nazioni germaniche» come vengono
definite all’interno del Mein Kampf[99].
Questi appare l’epigono di una lunga tradizione di sostenitori
dell’identità teutonica sviluppatasi sin dall’Ottocento quando, come
afferma Hobsbawm, in piena epoca imperiale:
Taluni imperialisti amavano anche sottolineare le peculiari doti di conquistatori dei paesi d’origine teutonica e specialmente anglosassone, che nonostante ogni rivalità erano, si diceva, tra loro affini; idea che echeggia ancora nel rispetto a denti stretti di Hitler per l’Inghilterra[100].
Sul finire di tale secolo conobbe ampia
fortuna il «mito genealogico teutonico» che tende a far rientrare in una
unica famiglia di estrazione etnica, politica, culturale e religiosa,
Stati Uniti, Inghilterra e Germania, accomunati da istituzioni liberali,
da un comune retroterra protestante, nonché da una prodigiosa crescita
economica[101].
Se il sodalizio identitario e strategico appare conseguito tra le due
nazioni più propriamente anglosassoni (Inghilterra e Stati Uniti), di
più difficile realizzazione appare una unione tra Inghilterra e Germania
o tra quest’ultima e gli Stati Uniti, nonostante molte alte personalità
spingano verso un’alleanza tra tali paesi[102].
Ma non è solo il colonialismo inglese a
fungere da modello. Il regime di segregazione razziale in atto negli
Stati Uniti incontrava indubbie simpatie negli ambienti nazisti europei.
Verso 1930 Alfred Rosemberg, più tardi uno dei teorici ufficiali del
Reich, celebrava gli USA e in particolare il sud degli Stati Uniti,
guardando al modello di segregazione razziale ivi ancora attuato[103].
L’ideologo nazista nutriva una ammirazione particolare per il suprematista statunitense Lothrop Stoddard, il quale fu il primo autore ad introdurre il
termine “under man”, che compare nel titolo di un’opera pubblicata a New York nel 1922 (The Revolt Against Civilization: The Menace of the Under-man). Stoddard individua nella guerra civile tra bianchi, ovvero nella guerra
di secessione americana e successivamente nella prima guerra mondiale,
l’elemento decisivo del declino del ruolo dell’Europa e della
«solidarietà bianca», di fronte all’emergere delle nazioni coloniali[104]. Dal termine inglese under-man adoperato da Stoddard sarebbe derivata la traduzione tedesca Untermensch,
che secondo Losurdo è il «termine-chiave suscettibile di esprimere in
modo chiaro e concentrato la carica di de-umanizzazione e di violenza
genocida insita nell’ideologia nazista»[105].
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Lothrop Stoddard |
La reintroduzione della schiavitù in
Europa e il progetto di rilancio del ruolo imperiale europeo nel mondo
risultano essere il coronamento di quello che per i teorici nazisti
appare il destino imperiale dell’Europa. Condotta con sistematicità
dalle politiche colonialistiche europee ammantate di progressismo
liberale dalla metà del secolo XX, la missione civilizzatrice
dell’Europa doveva essere rilanciata dal Fuhrer il quale era
intenzionato a raccoglierne e riproporne l’eredità storica[106]. Secondo Mark Mazower:
Un’autostima radicata nel cristianesimo, nel capitalismo, nell’illuminismo e in una marcata supremazia ideologica incoraggiarono gli europei a considerarsi nel lungo periodo come un modello di civiltà per l’intero globo. La loro fede nella missione internazionale dell’Europa era già evidente nel XVII e XVIII secolo e raggiunse l’apice nell’epoca dell’imperialismo. Hitler ne fu sotto molti aspetti l’epitome, giungendo (attraverso il nuovo ordine nazista) più vicino di chiunque altri alla sua realizzazione[107].
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Alfred Rosemberg |
Betts rinviene nel dibattito suscitato dai "socialisti della cattedra" (espressione polemica nata dal liberista tedesco H.B. Oppenheim nel libro Der Kathedersozialismus del 1872, con cui si definivano un gruppo di professori polemici contro il liberalismo classico) contro le conseguenze economiche e sociali del laissez-faire
e del liberalismo, l’origine delle teorie a sostegno della spinta
coloniale della Germania appena unificata (sebbene anche Max Weber ne
sia stato sostenitore). L’imperialismo sociale patrocinato da
Gustav Schmoller indicava nella limitazione delle pressioni malthusiane e
nella risoluzione dei problemi della sovrappopolazione attraverso
l’emigrazione nelle colonie la via da perseguire per evitare una
proletarizzazione della società tedesca[108].
A partire dalle teorie di Wakefield, di Torrens e di Schmoller,
l’imperialismo sociale avrebbe posto radici del pensiero coloniale
europeo «dagli anni novanta fino alla caduta del Terzo Reich di Hitler»[109]. Per stare al caso tedesco, l’idea del “grande spazio” (Grossraum)
sostenuta da Carl Schmitt in un saggio del 1939, e prima di lui da Karl
Haushofer, altro non è se non il tentativo di giustificare il progetto
di assimilazione da parte del Reich dei paesi confinanti di lingua
tedesca e, in prospettiva, di infondere senso teorico alla creazione di
una grande area continentale a guida tedesca[110].
6. Conclusioni finali
La colonia, nella visione liberale, si
configura come una «pattumiera, dove sono scaricati i rifiuti della
società, ovvero la popolazione penitenziaria delle metropoli» e dove si
esercita inoltre lo sfruttamento della forza lavoro degli schiavi
deportati dall’Africa, nonché delle residue popolazioni native e dei
bianchi di condizione povera (la cosiddetta “white trash”) che subiscono un trattamento simile a quello riservato alla popolazione nera[111].
Questa componente sociale di scarto, che si configura come tale
all’interno dell’Europa, viene progressivamente a costituire una élite
razzialmente e socialmente distinta all’interno del contesto coloniale.
Mentre su base imperiale si stabilisce
una dicotomia tra centro e periferia, ovvero si stabiliscono dei confini
di ammissibilità della schiavitù tra madrepatria, dove essa è esclusa
(anche se zone franche permangono nella soggezione riservata ad alcune
categorie di lavoratori, come i minatori Scozzesi, costretti secondo
Franklin alla condizione di «absolute Slaves»[112]),
e colonie, dove ne è consentito il pieno sfruttamento, nelle stesse
colonie la linea di demarcazione diventa di tipo etnico, non potendosi
realizzare una delimitazione puramente spaziale o territoriale della
schiavitù (come sarebbe dovuto essere nelle intenzioni di Lincoln)[113].
Gli individui bianchi, anche quelli di misera condizione, entrano a far
parte di uno spazio esclusivo, quello della razza bianca, mentre i
neri, siano essi liberi, siano essi schiavizzati, sono sottoposti ad
ogni forma di discriminazione e persecuzione per il solo fatto di
appartenere ad una razza diversa da quella dei coloni[114].
È Locke a sancire questa contraddizione, che è quella del liberalismo. Egli se nella Lettera sulla tolleranza
predica la libertà del culto (per i protestanti, ma non per i
cattolici), invocando la difesa dei «beni civili» (il cui abuso dovrebbe
essere frenato dal «timore della pena») e affermando la separazione tra
potere del magistrato civile e potere religioso a cui spetta la cura
delle anime, nel Secondo trattato sul governo invece ricorre a più riprese a una forma, coma la chiama Losurdo, di «de-specificazione naturalistica»[115]
a danno degli Indiani d’America (attraverso l’uso di categorie
antropologiche ed etniche e non politico-morali), equiparando le
popolazioni native a «bestie selvagge» e a «bestie da preda»[116]. È pur vero che Locke, almeno in via di principio, difende nella Lettera la proprietà degli “indiani pagani”[117], anche se nel Secondo trattato
si assiste a delle oscillazioni quando si parla delle terre indiane
come «vergini», «incolte» e «disabitate», quindi passibili di
appropriazione da parte dei colonizzatori europei[118].
Le nuove élite oligarchiche borghesi,
che intraprendono la propria ascesa rompendo con la tradizione delle
vecchie aristocrazie terriere, predicano maggiormente l’istituto della
schiavitù, mentre Jean Bodin, teorico della monarchia, respinge la
schiavitù come fatto deplorevole e esecrando[119].
Condorcet, filosofo illuminista, a fine Ottocento sottolinea come gli
«stati dispotici trattano i loro schiavi meglio che quelli repubblicani»[120].
Il riferimento è alla Spagna che, pur essendo un regime monarchico, sul
piano dei numeri si colloca un gradino più in basso nella macchina del
commercio di schiavi. L’Olanda, luogo dove invece opera il filosofo
difensore della libertà Spinoza e dove Locke redige la Lettera sulla tolleranza,
paese dove l’ordinamento liberale si sviluppa un secolo prima che in
Inghilterra, è il paese che mostra una più dura resistenza
all’abolizionismo[121]
e dove il tramonto della schiavitù all’interno delle colonie avverrà
solo nel 1863, nel medesimo momento in cui, nell’emisfero occidentale,
«la Confederazione secessionista e schiavista del Sud degli Stati Uniti
si avvia alla disfatta»[122].
Sembra che non possa dunque istituirsi
un parallelismo tra monarchia assoluta e sfruttamento schiavistico da
una parte, e parlamentarismo e affrancamento dalla schiavitù dall’altra[123].
Lo sfruttamento della schiavitù non cessa neppure con il trionfo del
liberalismo, a seguito della rivoluzione americana, nel paese figlio
della svolta liberale britannica, gli Stati Uniti[124].
Jefferson, così come gli altri padri fondatori come James Madison e
George Washington, erano implicati nel commercio degli schiavi e avevano
un interesse diretto nella prosecuzione intatta dell’istituto della
schiavitù nelle tredici colonie. La rivoluzione americana quindi si
compie all’insegna di un clamoroso paradosso: la fondazione di una
repubblica formalmente fondata sulla libertà e l’uguaglianza di tutti
gli uomini, ma in cui la Costituzione vigente (adottata nel 1787) tace
sull’esistenza della schiavitù entro i propri confini[125].
La perenne “discrasia” tra diritti
ideali e diritti reali, tra teoria e pratica, così come la disparità tra
mondo coloniale e mondo dei colonizzatori hanno segnato l’epoca
dell’imperialismo che ha coinciso con l’affermazione del
liberalismo in Europa e nel mondo (non solo nel campo dei diritti, ma
anche in quello economico e sociale). Il fenomeno della diffusione
planetaria degli ideali liberali e il successivo intreccio tra
liberalismo e nazionalismo manifestatosi in Inghilterra e nel Vecchio
continente nel XIX secolo e che operò da detonatore dell’irraggiamento
coloniale europeo (si pensi all’epoca vittoriana), se ha svolto un ruolo
decisivo in Europa, lo ha avuto a ben vedere nella fase successiva di
decolonizzazione in larga parte del “terzo mondo” coloniale.
L’esperienza di due dei più grandi paesi
resisi indipendenti a seguito della rivoluzione anticoloniale, l’uno
tramite una lotta “non violenta” (l’India), l’altro tramite una
lunghissima guerra civile (la Cina), ha visto proprio nell’affermazione
degli ideali tipicamente europei del nazionalismo e della formazione di
una classe dominante di tendenza liberale quei passaggi fondamentali
sulla strada del conseguimento della emancipazione dall’Occidente, fino a
renderli protagonisti, in tempi recenti, di un nuovo stadio di
azzeramento progressivo del divario (o di quella «grande divergenza» per
dirla con Pomeranz) con le antiche potenze colonizzatrici[126].
(articolo originariamente pubblicato sul sito della rivista "Il pensiero storico" https://www.ilpensierostorico.com/imperialismo-schiavitu-e-democrazia-storia-di-una-contraddizione-nellambito-della-tradizione-liberale/)
[1] Sul concetto generale di imperialismo si veda W. J. Mommsen, Imperialismo, in Enciclopedia del Novecento, 1978.
[2] M. Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo. Grandi narrazioni e legittimazione del dominio occidentale, Asterios, Trieste 2008, p. 53.
[3] R. F. Betts, L’alba illusoria. L’imperialismo europeo nell’Ottocento, Il Mulino, Bologna 1986, p. 161.
[4] Il liberoscambismo si era affermato in Inghilterra tra il 1846, anno dell’abolizione del dazio sui cereali (Corn Laws),
e il 1860, venendo introdotto sul continente a partire dal trattato di
libero scambio anglo-francese, per poi arrestarsi con l’inizio della
svolta protezionista in Germania nel 1879.
[5] Cfr. D. Kennedy, Storia della decolonizzazione, Il Mulino, Bologna 2017, pp. 16-17.
[6] R. F. Betts, L’alba illusoria,
cit., pp. 161-163. Lo schema di colonizzazione di Wakefield fu
applicato all’Australia meridionale, mentre le teorie di Torrens si
prestavano a risolvere tramite l’emigrazione l’eccesso di manodopera in
Irlanda. Torrens fu un sostenitore anche del protezionismo in ambito
coloniale; la sua teoria su una zona imperiale di libero scambio precede
di molto le tesi di Seeley e poi di Chamberlain. Cfr. A. Roncaglia, La ricchezza delle idee,
Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 230. Le tesi di entrambi pesarono sulla
concezione della colonizzazione come valvola di sfogo rispetto alle
pressioni malthusiane di popolazione e alla sovrabbondanza di capitali.
[7] Cfr. W. J. Mommsen, Imperialismo,
cit., dove si fa notare come anche in ideologi e economisti che un
tempo si qualificavano come “antimperialisti” sopravvivono elementi di
approvazione dell’imperialismo, che essi rifiutavano solo come mero
sistema di sfruttamento monopolistico delle colonie.
[8] B. Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Mondadori, Milano 2007, p. 14.
[9] R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., pp. 220-221.
[10] R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 89.
[11] L. Canfora, La democrazia, cit., p. 148.
[12] P. Kennedy, L’antagonismo anglo-tedesco, Rizzoli, Milano 1993, p. 95.
[13] A. Caioli (a cura di), Alle soglie dell’espansione europea. La concezione dell’impero in John Robert Seeley (1883),
Università degli studi di Trieste, Trieste 1994, p. 17. Di opinione
diversa sarà John Stuart Mill, discepolo di Bentham, il quale difenderà
l’avvio della prima guerra dell’oppio contro la Cina, scatenata a
seguito della campagna contro la vendita di oppiacei condotta dai
funzionari cinesi (che condusse alla distruzione di 20283 casse di oppio
detenute da mercanti occidentali), in virtù del principio della libertà
dell’acquirente. Cfr. J. S. Mill, Saggio sulla libertà, prefazione di Giulio Giorello e Marco Mondadori, Il Saggiatore, Milano 2006, p.116. Cfr. A. Toynbee, Civiltà al paragone,
Bompiani, Milano 1983, p. 138. Betts sottolinea come Bentham abbia
sostenuto anche tesi favorevoli al colonialismo, cfr. R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 160.
[14] R. F. Betts, L’alba illusoria, p. 94.
[15] A. Caioli (a cura di), Alle soglie dell’espansione europea, cit., p.21.
[16] J. S. Olson (a cura di), Historical Dictionary of European Imperialism,
Breenwood Press, Westport 1991, p. 174. Tale progetto era anticamera
del disegno della creazione di una federazione imperiale britannica, che
era stata sostenuta con convinzione e portata alla ribalta a fine
Ottocento dallo storico inglese John Robert Seeley, membro dell’Imperial Federation League. L’idea di una federazione imperiale fondata su un «sistema preferenziale reciproco» con le colonie, una sorta di Zollverein
alla tedesca su base imperiale, sarà poi ripresa dal liberale Joseph
Chamberlain a partire dal 1903, ma tramontò con la sconfitta della
coalizione tra conservatori e liberali unionisti, partito di cui faceva
parte Chamberlain. P. Bairoch, Economia e storia mondiale. I miti e i paradossi delle leggi dell’economia in un saggio polemico e provocatorio, Garzanti, Milano 2003, p. 44.
[17] Cfr. F. Cammarano, 1880-1980. Il secolo esatto, La Lettura, 12 marzo 2017.
[18] E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi. 1875-1914,
Laterza, Roma-Bari 1987, ed. spec. RCS Quotidiani, Milano 2004, p. 121.
Nella contrapposizione tra barbari e popoli civili, già la civiltà
greco-romana aveva distinto tra polemos e statis (in Platone) nella condotta bellica, a seconda che la guerra si svolgesse tra stessi greci (statis), degenerando in guerra civile, o tra greci e barbari (polemos); questi ultimi appartenendo a un genos completamente diverso, erano ritenuti estranei alla condotta della guerra trai greci. I latini distinguevano tra bellum e seditio, il primo combattuto contro un competitor legittimo (un nemico civile romano), il secondo contro un inimicus (un barbaro estraneo alla vita civile romana). Cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 165, M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Mondolibri, Milano 2004, p. 34. Cfr. Platone, Repubblica, 469c-471b, Cicerone, De Officis,
I, 38, dove distingue molto chiaramente trai due tipi di guerra, a
seconda che essa sia condotta tra romani o tra barbari. In Cesare
troviamo infine il ricorso alla dicotomia hostes/adversarii, utilizzata nei due Commentarii con riferimento a Galli, Germani e Britanni in un caso, ai romani fedeli a Pompeo nell’altro.
[19] E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 122.
[20] D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 38.
[21] M. Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo, cit., p. 55.
[22] E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 104. Cfr. D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p. 114.
[23] D. Scalea, Le basi ideologiche dell’unità anglosassone mondiale, Semestrale di Studi e Ricerche di Geografia, anno XXVI, fasc. 2, luglio-dicembre 2014, p. 69. Cfr. N. Ferguson, Impero, cit., p. 210.
[24] D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p. 114.
[25] R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 96, 105.
[26] E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 65.
[27] P. Kennedy, L’antagonismo anglo-tedesco cit., p. 91.
[28] R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 99.
[29] R. F. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 139.
[30] V. I. Lenin, L’imperialismo, cit.
[31] V. I. Lenin, L’imperialismo, cit., p. 25, 33.
[32] K. Marx, Il Capitale, a cura di A. Macchioro e B. Maffi, 3 voll, I, Utet, Torino 2013, p. 938.
[33] Cfr. P. Bairoch, Economia e storia mondiale, cit., pp. 96-113.
[34] M. Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo, cit., p. 57. Cfr. E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 121
[35] D. Losurdo, L’egalite e i suoi problemi, in “Egalite/Inegalite”,
Atti del Convegno organizzato dall’Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici e dalla Biblioteca Comunale di Cattolica (Cattolica, 13-15
settembre 1989), a cura di A. Burgio, D. Losurdo, J. Texier,
Quattroventi, Urbino, 1990, p. 140.
[36] M. Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo, cit., p. 57.
[37] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 124.
[38] G. Turi, Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’età moderna a oggi, Laterza, Roma-Bari 2012, p.17.
[39] D. Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 67.
[40] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 298.
[41] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 247.
[42] H. J. Laski, Le origini del liberalismo europeo, La Nuova Italia, Firenze 1962, p. 117. Cfr. Due trattati sul governo, II, 171.
[43] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo,
cit., p. 42. Tocqueville, acuto osservatore della società americana,
sottolinea chiaramente questo aspetto: «Questa concezione aristocratica
della libertà produce, presso quelli che così sono stati educati, un
sentimento esaltato del loro valore individuale e una gusto appassionato
per l’indipendenza», cit. in D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 123.
[44] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 71.
[45] L. Canfora, La democrazia, cit., p. 104.
[46] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 223.
[47] Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 147.
[48] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., pp. 40-41 passim.
[49] D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p.32.
[50] D. Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 216. Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 299 ss.
[51] M. A. Jones, The Limits of Liberty – American History 1607-1992, Oxford University Press, 1995, trad. it. Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, ed. RCS Libri, Milano 2004, p. 53 e pp. 78-79. Cfr. Alexander Hamilton, John Jay, James Madison, Il
federalista, Raccolta di saggi scritti in difesa della Costituzione
degli Stati Uniti d’America approvata il 17 settembre 1787 dalla
Convenzione federale, trad. it. di Bianca Maria Tedeschini Lalli, Nistri-Lischi, Pisa 1955, p. 36.
[52] AA.VV, Atlante enciclopedico Touring. Storia moderna e contemporanea, vol. 5, Touring Club Italiano, Milano 1990, pp. 66-67.
[53] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 54.
[54] N. Ferguson, Civilization. The West and the Rest, Penguin Books, London 2011, p. 129, cit. in D. Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 155.
[55] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 46.
[56] J. Locke, Due trattati sul governo, II, 24, 85. Per la distinzione tra schiavitù dei neri e servitù bianca si veda E. Williams, Capitalismo e schiavitù, prefazione di Lucio Villari, Laterza, Bari 1971, pp. 18-22.
[57] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 13.
[58] A. M. Iacono, Congetture illuministiche sulla storia della civiltà: Kant, l’eguaglianza e il problema dell’altro, in “Egalite/Inegalite”, cit., p. 109.
[59] Cit. in A. M. Iacono, Congetture illuministiche sulla storia della civiltà,
cit., pp. 109-110. Adam Smith mette in atto un’ideologia di tipo
economico iniziata con Locke e la sua teoria della proprietà,
interpretabile nei termini del «primato del rapporto uomo-cosa sul rapporto uomo-società». Essa sarà criticata da Marx quando ne Il Capitale sostenne: «La
sfera della circolazione, o dello scambio di merci, entro i cui limiti
si muove la compravendita della forza lavoro, era in realtà un Eden dei
diritti innati dell’uomo. Qui regnano soltanto Libertà, Eguaglianza,
Proprietà e Bentham». Cfr. Marx Il Capitale, cit., p. 271.
[60] D. Losurdo, La lotta di classe,
cit., p. 135. In modo analogo ragiona Hegel, per il quale l’abolizione
della servitù della gleba passa per la limitazione della libertà dei
signori feudali.
[61] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 164.
[62] D. Losurdo, Idee d’Europa e ideologie della guerra, in «Idee di Europa: attualità e fragilità di un progetto antico», a cura di L. Canfora, Dedalo, Bari 1997, p. 46.
[63] Cfr. D. Losurdo, L’egalite e i suoi problemi, in “Egalite/Inegalite”, cit., pp. 146-147.
[64] A. Iacono, Congetture illuministiche sulla storia della civiltà, cit., p. 113.
[65] Ibidem. L’opinione di Kant sul nero è gravata di una valutazione basata sull’esperienza degli uomini deportati dai negrieri.
[66] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 47. Id, Idee d’Europa e ideologie della guerra, cit., p. 48.
[67] Montesquieu ritiene dunque che sulla questione della schiavitù possano essere mutuate norme di antico regime.
[68] G. Fassò, Giusnaturalismo, in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio e N. Matteucci, Utet, Torino 1983, p. 438.
[69] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 24-28.
[70] D. Losurdo, Idee d’Europa e ideologie della guerra, cit., p. 48. Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 245.
[71] Aristotele, Politica, I, 4-5. Sulla natura «servile» dei barbari cfr. Politica, III, 14. San Paolo, Lettera agli Efesini. Cfr. F. Hartog, Fondamenti greci dell’idea d’Europa, in «Idee di Europa: attualità e fragilità di un progetto antico», cit., p. 24.
[72] H. J. Laski, Le origini del liberalismo europeo, cit., p. 4.
[73] D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., p. 72.
[74] D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., p. 11.
[75] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, cit., p. 18. Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 56.
[76] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, cit., p. 19.
[77] J. S. Mill, Saggio sulla libertà, cit., pp. 28-29.
[78] Cit. in D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., p. 200.
[79] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 168.
[80] Cit. in D. Losurdo, Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi, La città del sole, Napoli 2005, p. 138.
[81] Lucia Re, Il liberalismo coloniale di Alexis de Tocqueville, G. Giappichelli editore, Torino 2012, pp. 23-24.
[82] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, cit., pp. 18-19. Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 149.
[83]
Uno studio sistematico su questo fenomeno è stato condotto con
riferimento al Sud Africa e al Sud degli Stati Uniti, luoghi dove si è
concretizzato il progetto di una democrazia razzialmente confinata alle
élite bianche. L’autore cerca di cogliere il nesso anche con
l’egualitarismo perseguito all’interno della comunità bianca, che ebbe
più successo in Sudafrica, rispetto al Sud degli USA. Cfr. K. P.
Vickery, ‘Herrenvolk’ Democracy and Egalitarianism in South Africa and the U.S. South, in «Comparative Studies in Society and History», vol. 16, n. 3 (Jun. 1974), pp. 309-328.
[84] D. Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 69.
[85] L. Canfora, La democrazia, cit., pp. 23-24.
[86] D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., pp. 11-12.
[87] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo,
cit., pp. 62-63, 267. La mescolanza razziale era esplicitamente vietata
in molti stati americani ancora all’inizio degli anni cinquanta. D.
Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 335.
[88] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 267. G. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 67.
[89] D. Losurdo, Il revisionismo storico,
cit., p. 12. Si pensi a figure come quelle di Francis Galton e Herbert
Spencer nell’ambito del darwinismo sociale e del positivismo e a quella
di Houston Stewart Chamberlain in quello del razzismo biologico,
ispirato quest’ultimo da Gobineau. Canfora segnala una importante voce
fuori dal coro tra le posizioni liberali, quella di George Cornewall
Lewis, cancelliere dello scacchiere con Palmerston (1855), il quale
nell’opera A dialogue on the best form of Government ritenne il
sistema parlamentare inadatto ad innestarsi in qualunque civiltà,
criticando la posizione dei liberali razzisti più intransigenti, come
quella di Julius Schwarcz, «secondo cui la “demcorazia” sarebbe
appannaggio esclusivo della “razza bianca”». Cfr. L. Canfora, Critica della retorica democratica,
Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 19-20. Sul discorso del totalitarismo e
l’assimilazione di Arendt di nazismo/fascismo e comunismo sotto la
definizione di totalitarismo si veda E. Hobsbawm, Il secolo breve,
Rizzoli, Milano 1997, pp. 460-61, dove Hobsbawm afferma che il sistema
sovietico non era classificabile come totalitario in quanto «non
esercitava un efficace “controllo del pensiero” e ancor meno assicurava
una “conversione di pensiero”, tanto che di fatto depoliticizzò i
cittadini a un livello stupefacente».
[90] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009, p. 260.
[91] N. Ferguson, XX secolo. L’età della violenza. Una nuova interpretazione del Novecento, Mondadori, Milano 2008, p. 11.
[92]
Ferguson fa notare come discipline nate in quest’epoca come la
frenologia e l’eugenetica, promossa quest’ultima dal matematico Frances
Galton e teorizzata nel suo libro Hereditary Genius (1869),
erano volte a dimostrare scientificamente l’ereditarietà biologica dei
caratteri psichici e fisici dell’uomo, ovvero che le «capacità naturali
dell’uomo sono ereditarie», onde creare una giustificazione volta a
rafforzare il dominio della razza anglosassone (e europea) sul globo.
Cfr. N. Ferguson, Impero, cit., p. 219. La prima cattedra di
eugenetica sarà assegnata s Karl Pearson nel 1911 presso l’University
College di Londra. Sulle connessioni invece tra l’eugenetica
statunitense e quella nazista si veda S. Kuhl, The nazi connection. Eugenics, American Racism, and German National Socialism, Oxford University Press, New York-Oxford, 1994.
[93] M. Di Meglio, La parabola dell’eurocentrismo, cit., p. 43. Cfr. B. Droz, Storia della decolonizzazione, cit., p. 34.
[94] L. Canfora, La democrazia, cit., p. 102.
[95] L. Canfora, La democrazia, cit., p. 128 ss.
[96] Cit. in D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., pp. 161-162.
[97] Cfr. Paolo Lombardi, Gianluca Nesi, Sangue e Suolo. Le radici esoteriche del Nuovo Ordine Europeo nazista, All’insegna del giglio, Firenze 2016
[98] M. Mazower, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti, Milano 2005, pp. 152-153.
[99] Cit. in D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., pp. 161-162.
[100] E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi,
cit., pp. 119-120. Tra questi politici imperialisti sono da annoverare
Lord Robert Cecil, che parla di popoli di “ascendenza teutonica” e
Joseph Chamberlain, ministro delle colonie, che chiamò Germania e Stati
Uniti alla fine del XIX secolo a stringere un’” alleanza teutonica”.
Cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., p. 242.
[101] P. Kennedy, L’antagonismo anglo-tedesco, cit., p. 153 ss.
[102] Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo,
cit., pp. 265-266. È del 1899 il tentativo del ministro delle colonie
Joseph Chamberlain di stringere un’alleanza tra Germania e Inghilterra,
tuttavia infranto dal rifiuto del ministro degli esteri e poi
cancelliere Bernhard Von Bülow. Cfr. P. Kennedy, L’antagonismo anglo-tedesco, cit., p. 330 ss.
[103] D. Losurdo, Rivoluzione d’ottobre e democrazia nel mondo,
La scuola di Pitagora, Napoli 2015, p. 20. Sul fascino esercitato dalle
leggi raziali americane nell’ambito dell’ideologia nazista e sulle
analogie con quelle di Norimberga si veda di recente pubblicazione J. Q.
Whitman, Hitler’s American Model:The United States and the Making of Nazi Race Law, Princeton University Press, Princeton 2017.
[104] D. Losurdo, Idee d’Europa e ideologie della guerra, cit., p. 60.
[105] D. Losurdo, Rivoluzione d’ottobre e democrazia nel mondo, cit., pp. 20-21.
[106] Cfr. D. Losurdo, La lotta di classe, cit., pp. 173-174.
[107] M. Mazower, Le ombre dell’Europa, cit., p. 390.
[108] R. Betts, L’alba illusoria, cit., pp. 169-170.
[109] R. Betts, L’alba illusoria, cit., p. 170.
[110] M. Mazower, Le ombre dell’Europa, cit., pp. 153-156. Cfr. C. Schmitt, L’ordinamento
dei grandi spazi nel diritto internazionale con divieto di intervento
per potenze straniere. Un contributo sul concetto di impero nel diritto
internazionale, in Stato, Grande spazio, Nomos, Adelphi, Milano 2015, pp. 101-198. Schmitt presenta ad una conferenza all’Università di Kiel il proprio concetto di Grossraum poche settimane dopo l’invasione da parte di Hitler della Cecoslovacchia. Si veda anche sul giurista tedesco J.W. Bendersky, Carl Schmitt teorico del Reich, Il Mulino, Bologna 1989.
[111] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 51. Cfr. E. Williams, Capitalismo e schiavitù,
cit., pp. 9-16. Williams sottolinea come i «servi bianchi» (per
contratto o per riscatto, che spesso si tramutavano in schiavi tout court),
costituiti da condannati, poveri e perseguitati fossero una parte
consistente dell’intera popolazione emigrata nelle colonie americane.
Cfr. G. Turi, Schiavi in un mondo libero, cit., pp.
11-17. Turi sottolinea come fino al XVII secolo i coloni bianchi ricchi
potessero fare affidamento sui servi bianchi a contratto, finché la loro
progressiva scarsità suggerì di attingere alla riserva di uomini
costituita dal continente africano. Cfr. N. Isenberg, White trash. The 400-Year Untold History of Class in America, Viking, New York, 2016.
[112] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 59.
[113] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 57.
[114] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., pp. 51-54.
[115] Cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., pp. 60-67.
[116] D. Losurdo, Il revisionismo storico, cit., pp. 25-26. Locke opera lo stesso criterio a proposito degli Irlandesi, altra spina nel fianco del governo britannico.
[117] J. Locke, Lettera sulla tolleranza, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 34-35.
[118] Cfr. J. Locke, Due trattati sul governo, II, par. 37, 41, 74, 26 passim.
[119] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., pp. 32-33.
[120] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cit., p. 18.
[121]
Il movimento abolizionista si sviluppa alla fine del XVIII secolo per
poi dipanarsi per circa un secolo fino agli ultimi vent’anni del XIX
secolo, quando la tratta atlantica scompare.
[122] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo,
cit., pp. 17-18. Va detto che la schiavitù rimase in auge oltre questa
data in America meridionale. Cuba e Brasile furono gli ultimi paesi a
decretarne la fine, affrancando la popolazione schiava rispettivamente
nel 1880 e nel 1888. Cfr. C. H. Parker, Relazioni globali nell’età moderna 1400-1800, Il mulino, Bologna 2012, p. 240.
[123]
La schiavitù di fatto proseguì nell’impero britannico fino al 1833,
anno della sua abolizione che prevedeva un indennizzo dei proprietari
espropriati dei loro schiavi. Il provvedimento del 1807 si riferisce
all’abolizione della tratta degli schiavi, non dell’istituto della
schiavitù, la quale prosegue ben oltre l’affermazione del liberalismo in
Inghilterra.
[124] L’indipendenza delle colonie coincide infatti con un netto peggioramento della condizione di neri e nativi. In base al Naturalization Act
del governo federale del 1790 solo i bianchi possono diventare
cittadini statunitensi, mentre veniva abolita la sola schiavitù bianca.
Ciò contraddiceva platealmente lo spirito di uguaglianza razziale che
pure regolamentando la schiavitù permeava il Codice Nero di Luigi XIV.
[125] P. Delpiano, La schiavitù in età moderna, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 90-91 ss.
[126] G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Laterza, Bari 1971, p. 182 ss. Cfr. K. Pomeranz, La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, Il Mulino, Bologna 2004.
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