mercoledì 29 aprile 2020

La sfida tra realismo e egemonia liberale


La sfida tra realismo e egemonia liberale


In questo articolo di recensione al volume "La grande illusione" di J. Mearsheimer si prospetta lo scenario della prossima crisi definitiva della visione internazionalista liberale e l'avvento di un nuovo paradigma realista nelle relazioni internazionali, nelle more della ristrutturazione di un rinnovato peso della politica delle grandi potenze a discapito dello scontro tra blocchi.


 
Mearsheimer nelle vesti di Machiavelli


La critica serrata che John Mearsheimer rivolge al liberalismo politico nel saggio La grande illusione (intr. di Raffaele Marchetti, trad. di Roberto Merlini, Luiss University Press, Roma 2019, pp. 328) non costituisce solo una grande requisitoria nei confronti della politica estera degli Stati Uniti degli ultimi venticinque anni, segnati dal «momento unipolare» e dalla loro pressoché indiscussa egemonia globale, ma rappresenta anche una larvata decostruzione dell’intera filosofia politica che è a fondamento dello stesso «Leviatano liberale» (definizione di John Ikenberry). 

Il tentativo operato dai dirigenti politici di Washington di diffondere la democrazia liberale rovesciando i regimi autoritari ostili, con l’obiettivo di creare un mondo popolato esclusivamente da democrazie liberali, non ha condotto ad una diffusione a livello mondiale della liberal-democrazia, sostiene Mearsheimer. Non solo: ha indebolito lo stesso liberalismo, minando le istituzioni internazionali create con l’obiettivo di promuovere un’economia mondiale aperta (l’interdipendenza economica è un fattore unificante per il liberalismo) e di dirimere mediante arbitrato le controversie tra le nazioni.

La tesi di fondo del politologo statunitense è che nei rapporti internazionali «il liberalismo non può competere con il nazionalismo e con il realismo». Gli Stati Uniti non hanno fatto i conti con questi due ostacoli che si sono frapposti alla loro “crociata” per la democrazia (iniziata da W. Wilson all’indomani dell’intervento americano nella prima guerra mondiale), indirizzata a promuovere la diffusione su scala mondiale del liberalismo. Se la prima ideologia, quella nazionalistica, è senz’altro uno dei più tenaci impedimenti all’esportazione del sistema liberale, in quanto, fondandosi sull’autodeterminazione dei popoli, pone un pressoché insormontabile argine all’occupazione o influenza di altri Stati,  il realismo politico, che si fonda sull’idea che il sistema internazionale sia anarchico e non gerarchico, contraddice la diffusione del modello liberale, in quanto ritiene che solo uno Stato mondiale sia in grado di garantire la stabilità internazionale di cui abbisogna un mondo popolato quasi esclusivamente da Stati nazionali. Se seguissero la logica realista, gli Stati dovrebbero unicamente preoccuparsi di garantire la propria sopravvivenza nell’arena internazionale, muovendosi in essa secondo la logica dell’equilibrio di potenza. Gli Stati Uniti, al contrario, per preservare il loro sistema liberale su scala mondiale, hanno dovuto agire come gendarme del mondo, ma sono andati incontro a un clamoroso fallimento, giacché a un crescente impegno in vari scenari dello scacchiere mondiale, hanno dovuto far seguire necessari arretramenti, dovuti a fallimenti locali o a pressioni interne, che hanno minato l’innesto del loro modello liberale.

C’è un’altra pericolosa conseguenza della tendenza alla proiezione sull’estero del progressismo liberale, che, in nome della protezione dei diritti umani impone di eradicare il pericolo costituito dagli Stati autoritari per promuovere la pace mondiale, virtualmente assicurata dalla presenza di soli Stati liberali nel mondo. La conseguenza, scrive l’Autore, è quella di provocare una progressiva erosione del liberalismo in patria, a causa della creazione di un imponente apparato di sicurezza interno volto a supportare le ardite imprese belliche all’estero. 

La tesi di Mearsheimer è che «il liberalismo praticato all’estero compromette il liberalismo praticato in patria». La libertà assegnata dai paesi liberali ai propri cittadini (anche a coloro che rifiutano i principi liberali) espone gli Stati fedeli al credo liberale ad un rischio, già paventato da James Madison nel Federalist n. 10, di incentivare fazioni politiche dirette a rovesciare il potere della maggioranza costituita. Il principio di tolleranza, cardine della concezione liberale, pone perciò in pericolo l’esistenza dello stesso Stato liberale. Per evitare un tale scenario, il liberalismo ha sviluppato una tendenza all’intolleranza verso i dissidenti. Come scrive Mearsheimer, «nel liberalismo è presente un senso sia di vulnerabilità sia di superiorità che promuove l’intolleranza nonostante l’enfasi della teoria sull’uso della tolleranza per mantenere l’armonia interna». Un tale paradosso espone gli Stati liberali al rischio autoritario e financo li conduce a limitare fortemente la libertà dei propri cittadini, al punto da compromettere la democrazia. Il principio di tolleranza viene accantonato quando uno Stato liberale si confronta con un rivale che viola i diritti dei suoi cittadini, sino a comportare il restringimento delle libertà interne al fine di convogliare le energie del paese verso l’obiettivo della sopravvivenza contro un nemico esterno minaccioso. 

Ciclicamente, in situazioni di insicurezza geopolitica o di guerra civile, i dirigenti politici americani hanno limitato seriamente i diritti individuali, specie in coincidenza di guerre e pericoli esterni. Si pensi, ad esempio, alla sospensione dell’habeas corpus da parte di Lincoln durante a guerra civile, all’incarcerazione dei cittadini nippo-americani durante la seconda guerra mondiale o alla persecuzione dei sostenitori del comunismo durante la guerra fredda. Come metteva in guardia James Madison, «nessun paese può preservare la propria libertà se è costantemente in guerra». Alexander Hamilton, sempre nel Federalist, aveva sostenuto che l’insicurezza politica e il rischio di guerra conducono a esecutivi potenti che potrebbero restringere le libertà individuali, accelerando la trasformazione in senso monarchico dell’ordinamento politico. Scrive Mearsheimer che «gli Stati Uniti hanno scatenato ben sette conflitti dalla fine della guerra fredda e sono continuamente in guerra dal mese successivo all’11 settembre […]. Ciò ha reso ancora più potente il più formidabile sistema di sicurezza che esisteva già nel 1991, quando è crollata l’Unione sovietica».

Mearsheimer sfata il mito dell’internazionalismo liberale offensivo ricorrendo alla critica di due principi cardine dell’interventismo democratico, ma a ben guardare presenti anche nella visione realista: la teoria della pace democratica e quella dell’interdipendenza economica. La critica che egli muove riguarda l’importanza che i liberali assegnano ai due obiettivi sistemici come fattori di prevenzione del conflitto. Non basta che questi ultimi facciano aumentare la cooperazione tra Stati, ma serve che entrambi facciano in modo che la guerra sia del tutto impossibile. Se la prima teoria afferma che gli Stati democratici tenderebbero a non farsi la guerra reciprocamente, la seconda sostiene che un’economia internazionale aperta, non chiusa da barriere protezionistiche, favorirebbe maggiormente la cooperazione, stornando il rischio di guerra fra paesi. 

Secondo Mearsheimer entrambi questi assunti hanno grosse lacune. Intanto è falso che non ci siano mai state guerre fra Stati democratici e che le norme liberali siano un fattore di pacificazione, perché l’età contemporanea annovera almeno quattro casi di democrazie che hanno combattuto tra loro (Germania imperiale contro Gran Bretagna, Francia, Italia e Stati Uniti durante la prima guerra mondiale, Gran Bretagna contro Repubblica sudafricana e Stato libero dell’Orange durante la guerra boera, Pakistan contro India durante le quattro guerre indo-pakistane, Stati Uniti contro Spagna durante la guerra ispano-americana). Spesso inoltre le democrazie non solo si alleano con gli Stati autoritari contro altre democrazie, ma si adoperano, come fanno spesso gli Stati Uniti, a rovesciare altre democrazie. 

L’antica teoria dell’interdipendenza, perorata da Kant e Constant, parte dal presupposto che l’obiettivo principale degli Stati sia la prosperità, non la competizione per la sicurezza, ma secondo il politologo americano i calcoli politici e strategici spesso hanno un peso maggiore di quelli economici. Un esempio della fallacia dell’argomentazione dell’interdipendenza come fattore di pace è il ricorso alle sanzioni economiche contro i paesi recalcitranti o che violano i diritti umani. In questi casi i paesi colpiti dalle sanzioni o esclusi dai circuiti economici continuano nella loro condotta anche a costo di perdite economiche enormi. La spiegazione è nel peso che gli Stati annettono al nazionalismo, rispetto ai calcoli economici e commerciali, nonché nella grande rilevanza della logica dell’equilibrio di potere. Un esempio recente ci viene dalla crisi ucraina: la Russia pur sottoposta a sanzioni non ha restituito la penisola di Crimea, anche a costo di una forte contrapposizione con Kiev. 

Nel capitolo conclusivo del suo saggio l’autore si chiede quanto ancora gli USA siano disposti a sobbarcarsi il peso dell’egemonia liberale. La risposta sta nella dinamica che assumerà l’assetto internazionale in futuro. Se l’ago della bilancia penderà a favore del multipolarismo sarà molto difficile per gli Stati Uniti perseguire l’esportazione del liberalismo, perché la presenza di altre potenze impedirà loro di continuare a mantenere l’egemonia globale. L’America perciò dovrà orientarsi verso i dettami del realismo. L’ascesa impetuosa della Cina e la resurrezione della potenza russa la spingono a tornare a confrontarsi con potenziali concorrenti per il potere mondiale e dunque a adottare la logica realista. La politica adottata da Trump sembra favorire una recessione geopolitica rispetto all’interventismo pregresso (perseguito anche da Obama), anche se negli apparati statunitensi le sirene dell’egemonia liberale appaiono ancora molto forti e forse non rimane per i sostenitori del realismo che sperare in una prosecuzione dell’ascesa cinese in grado di porre gli Stati Uniti di fronte alla velleità del loro disegno egemonico. 

martedì 28 aprile 2020

"La Confindustria punta sul M.E.C. per liquidare l'industria di Stato"


 "La Confindustria punta sul M.E.C. per liquidare l'industria di Stato"


 Si ripropone in questo post parte di un articolo di prima pagina dell'Unità del 21 luglio 1957 che pone in una prospettiva diversa (di classe) l'iniziativa di integrazione europea che allora, alla vigilia dei trattati di Roma, le forze politiche al potere nei paesi fondatori, principalmente cristiano sociali, intendevano portare avanti in particolar modo a beneficio dell'oligopolio - nell'ottica del PCI - industriale europeo e a danno dei lavoratori. Il PCI, in particolare, di cui l'Unità era organo d'informazione, intravedeva nei trattati la volontà di: "imporre una gestione 'economica' delle partecipazioni statali, cioè ridurle al minimo; astenersi da ogni tipo di nazionalizzazione e 'paranazionalizzazione' (...); 'arrivare al massimo della libertà nel campo agricolo' (...)". 


L’Unità, 21 luglio 1957


«II discorso dell'on. Malagodi sui trattati del Mercato comune e dell'Euratom ha caratterizzato la seduta di fine settimana della Camera. Nessuno meglio del leader liberale i cui legami con la Confindustria e la Confida sono noti a tutti, poteva esprimere giudizi indicativi sui trattati: ogni sua argomentazione ha mostrato con grande chiarezza il vero volto dell'operazione che il governo italiano si accinge a varare. Infatti, dopo le consuete generiche espressioni di fiducia del Mercato comune come risolutore di tutti i principali problemi italiani, dopo le insulse osservazioni sulle critiche che ai trattati muovono non solo i comunisti, ma anche i socialisti (queste critiche secondo il portavoce della Confintesa sarebbero “reazionarie”), Malagodi è arrivato al nodo. “Dai trattati — egli ha rilevato — non possono non derivare logiche conseguenze di politica interna poiché non è possibile seguire un indirizzo (che è quello della massima libertà ai potenti monopoli interni e interazionali) per applicare il Mercato comune e l'Euratom, e uno diverso all'interno del paese. Le “logiche Conseguenze” Malagodi le ha enunciate con tutta tranquillità: imporre una gestione “ economica” delle partecipazioni statali, cioè ridurle al minimo; astenersi da ogni tipo di nazionalizzazione e “paranazionalizzazione” (e egli ha indicato, come esempio, il riscatto delle concessioni telefoniche, “demagogico e senza alcuna utilità economica”); “arrivare al massimo della libertà nel campo agricolo” attraverso il rigetto di ogni norma democratica sui contratti agrari, la revisione del sistema fiscale delle sovraimposte locali, dei contributi unificati e dell’imponibile di mano d'opera e la fine di ogni suddivisione della terra: tutto ciò per “non togliere ai proprietari ogni interesse” e metterli in condizione di far fronte alla concorrenza straniera; ridimensionare il sistema previdenziale “perché costi di meno”: rivedere i “controlli inutili e vessatori” sulla produzione industriale e “riesaminare” in proposito le norme fiscali, per favorire i magnati dell’industria. Se non si agisse in tal modo, l'Italia non potrebbe usufruire dei “vantaggi” dei trattati europei; e, per poter seguire questo indirizzo — ha precisato il leader liberale — occorrerà anche “rivedere lo schema Vanoni”: il che, in parole povere, significa metterlo definitivamente da parte, dato che esso indica esattamente la via opposta a quella suggerita da Malagodi. Malagodi ha dato per scontato che quanto da lui indicato debba essere seguito se si vorranno applicare davvero i trattati. Di fronte a ciò, egli si è chiesto, perché mai i socialisti hanno deciso di non votare contro? Secondo Malagodi, ciò si deve al “tatticismo di chi vuole lasciarsi aperta qualche porticina” e all'istinto della realtà del quale “molti socialisti che non hanno provenienza marxista” sono forniti. Comunque, Malagodi se ne è mostrato soddisfatto, notando che “è la prima volta che concetti di libertà toccano questa parte"[…].»



(“La Confindustria punta sul M.E.C. per liquidare l’industria di Stato”, L’Unità, 21 luglio 1957)

lunedì 27 aprile 2020

La riunificazione tedesca e la nascita della moneta unica


 La riunificazione tedesca e la nascita della moneta unica: rapporti e implicazioni



Il fantasma della riunificazione tedesca, susseguente al crollo del muro di Berlino e un riemergere della “sindrome di Versailles” alla fine del 1989 hanno condizionato il rafforzamento della prospettiva di unificazione europea e il processo di unione valutaria per mezzo della moneta comune dell’Euro (prima di questo c’era stato l’ingresso della Lira nella fascia ristretta di fluttuazione dello SME). All'indomani della caduta del muro le cancellerie europee (F. Mitterand e G. Andreotti su tutti) apparivano in preda alla psicosi di una possibile nuova “Grande Germania”. Arrimer l’Allemagne (“imbrigliare la Germania”) fu la risposta al pericolo di nuove prospettive egemoniche tedesche: vincolarla nel progetto di unificazione monetaria per inibirne le “spinte” espansioniste. La riunificazione fu accettata, così, da Francia e Inghilterra e ridimensionata (si pensava all'epoca) nella sua portata storica, venendo a confluire nel contesto dell'integrazione comunitaria.







La Germania, un paese che ha raggiunto di recente l’unificazione (al pari dell’Italia), quando sulle ceneri dell’impero di Napoleone III sorse quello guglielmino, uscita pesantemente penalizzata dal punto di vista economico e territoriale da due conflitti mondiali, appariva destinata dalla storia a recuperare un ruolo di protagonista nella compagine europea. Il patto della riunificazione raggiunto nel 1990 consisté quindi nell’avallo al suo compimento in cambio dell’” europeizzazione” del marco. (1) La fine del mondo bipolare aveva determinato il venir meno di quelle regole non scritte che avevano condizionato la politica europea durante la guerra fredda, ponendo la necessità di nuovi equilibri, e quindi di un’unione in senso federale europea,  pur sempre sotto l’egida statunitense.

L’Italia fu particolarmente investita dal cambio di passo della storia sancito dalla caduta del muro e a nulla valsero i tentativi andreottiani di salvare la vecchia classe politica, allora arroccata nella coalizione del “Pentapartito”. (2) L’adesione all’euro da parte delle nostre classi dirigenti, evento che si tentò di differire inutilmente(3), ha provocato conseguenze politiche rilevanti e dai risvolti imprevedibili, soprattutto nel nostro paese, contribuendo ad alimentare una crisi della rappresentanza e della legittimità della classe politica di fronte all’opinione pubblica (già pesantemente minata a cavallo tra “prima” e “seconda repubblica” dai noti scandali di corruzione).(4)
La situazione attuale però ci porta a fare delle riflessioni su un bilancio storico del progetto europeo e della creazione della grande area valutaria dell’euro. La crisi di funzionamento di questo modello è giunta a tal punto da contemplare scenari di dissolvimento (“piani b” di uscita), che comportano delle analisi sulle conseguenze di un’eventuale uscita unilaterale o concertata trai paesi europei, sulle quali tuttavia non mi soffermerò in questo articolo.(5)

L’eventuale fine dell’eurozona, che dovrebbe essere affidata alla competenza di una seria classe politica (la situazione in Italia in questo senso non è buona), potrà essere determinata in futuro dall’esito di una valutazione costi-benefici da parte della stessa Germania. Quest’ultima infatti, che era scettica sul progetto di unificazione monetaria, si è ritrovata a goderne tutti i benefici e di fatto ad averne la leadership indiscussa. Rivelando la totale ristrettezza di visioni di chi ha pensato di poter contenere la Germania costringendo altri stati ad adottarne, de facto, una sorta di parità di cambio.

L’accelerazione dell’unificazione fu segnata da quel “documento di contabili”,(6) come lo definì F. Cossiga, ovvero il Trattato di Maastricht (1992), che fissava i “criteri di convergenza” dei paesi europei. Questi prevedevano un’inflazione massima all’1,5, il divieto di svalutazione, un disavanzo pubblico non superiore al 3% (numero perfetto dal significato vagamente spirituale)(7) in rapporto al Pil – si noti l’assenza di limitazioni all’indebitamento privato- e un debito pubblico non superiore al 60% del Pil.

L’Europa, così, nata nella vaghezza di Maastricht, con le proprie irreggimentazioni contabili, procederebbe “per catastrofi” secondo L. Caracciolo(8). Essa pensò di anteporre l’unificazione monetaria a quella fiscale e politica (secondo il motto di Napoleone “l’intendance suivra”), mettendo le basi per uno squilibrio nella struttura europea, in cui esiste una “periferia” europea costretta a una titolarità formale al prezzo di una subalternità politica sostanziale,(9) all’interno di una struttura sovranazionale sottomessa agli ukase della zona “core” (sostanzialmente mitteleuropea), ovvero dell’”euronucleo” (Germania e suoi satelliti(10) riedizione di un disegno franco-carolingio o di un’area commerciale allargata sul modello del Zollverein prussiano, una specie di unione doganale rispolverata su scala europea). Questa "core Europe" (Europa nucleo) ha costretto, soprattutto negli ultimi anni, con l’aggravamento della crisi, i paesi deboli ed esposti a crisi di rifinanziamento (principalmente mediterranei), ad adottare politiche fiscali restrittive, a colpi di tagli di spesa pubblica, aumenti delle imposte e piani di rientro dal debito socialmente insostenibili.(11)

I condizionamenti della tecnostruttura europea e dei creditori esteri hanno obbligato i paesi della porzione meridionale del continente (ai quali v’è da aggiungere l’anomalo caso dell’Irlanda) negli ultimi tre anni a una iterazione sine die dello “stato di eccezione” (della sospensione, in sostanza, del processo democratico di indizione delle elezioni politiche dalle quali emerge una maggioranza e un governo del paese), collocando al potere ministri e talvolta interi esecutivi tecnocratici, fedeli esecutori delle prescrizioni di Bruxelles, di Francoforte e di Berlino. Gli interessi nazionali sono così sottoposti al “vincolo esterno”, non già di un’Europa politica e legittimata democraticamente, ma di altri stati sovrani e organizzazioni sovranazionali (Ue, FMI, MES). (12) Senza contare che a partire dal 2010 negli USA, nonostante i contestuali interventi espansivi voluti da B. Obama, la strada imboccata in Europa al fine di risolvere la crisi è stata innestata su politiche di austerità fortemente depressive sul piano economico (se ne hanno precedenti simili nel 1937 con F. D. Roosvelt(13), nel biennio 1930-32 con Heincrich Bruning(14) e in America latina come conseguenza della crisi debitoria negli anni ‘80).

L’imposizione di queste politiche deflattive (austerity) induce diminuzione dei prezzi, disincentivando gli investimenti, ristagno del mercato per la debolezza della domanda, regressione della produzione industriale e dei redditi. Queste hanno ragion d’essere in una situazione in cui c’è l’esigenza di raffreddare un mercato in preda a un boom incontrollato o a bolle speculative, frenando la domanda e restringendo il credito, non in una fase recessiva. In secondo e ultimo luogo tutte le politiche di consolidamento del valore della moneta (nel caso dell’euro si tratta di un’operazione costitutiva e istituzionalizzata) si ripercuotono sui salari, con una riduzione del costo del lavoro per stimolare la competitività.

Un altro aspetto da sottolineare del progetto europeo è quello ideologico. L’ideologia e la propaganda intorno alla moneta comune, che inibiscono un approccio razionale al problema, hanno accecato la ragione di molti, presentando lo scenario dell’”unificazione politica” e della moneta unica come quello “del migliore dei mondi possibili”; hanno posto di fronte a una prospettiva irreversibile (a dispetto del rifiuto popolare dei referendum del 2005 in Francia e Olanda), diffondendo messaggi intorno alla prospettiva edenica di una unione benefica delle economie europee, tanto da occultare il disegno originario che soggiaceva al progetto europeo, presentandocelo in una prospettiva deterministica e teleologica, come se, senza di esso, gli stati nazionali sarebbero andati incontro alla collisione: gli “staterelli” del vecchio continente sarebbero stati tanti "vasi di coccio", per usare un'espressione manzoniana, destinati alla frantumazione trai grandi otri metallici della Cina, degli USA, delle nuove potenze del BRICS. Un modo, forse, per giustificare i cambi fissi (tanto cari all’oligopolio finanziario mondiale, perché impediscono di ricorrere all’arma della svalutazione(15), riducendo il debito o stimolando la competitività e la crescita) e agevolare il piano “para-coloniale”, sponsorizzato dal mainstream liberoscambista. 

Il progetto dell’euro, ispirato a un’ideologia economica liberista e ordoliberale (variante neoliberale tedesca), determina conseguenze economiche negative,  ampiamente illustrate all’interno delle letterature economiche. In primo luogo esso si fonda su un’idea di disinflazione permanente (mantenimento dell’inflazione su percentuali stabili o rigide), (16)che fa risentire ancora di più i suoi effetti in occasione dell’esplosione della crisi (con le “cure” di austerità somministrate ai paesi a rischio default, “tratti in salvo” con operazioni di bailout tutt’altro che caritatevoli), che prosciuga le risorse del sistema economico, frena l’economia e i consumi, e innesca strette creditizie, per la sola ragione, in passato, di calmierare l’inflazione. L’idea che ha guidato l’adesione all’euro è stata infatti ampiamente appoggiata e sostenuta dalle classi dirigenti, dai gruppi di interesse, dalle consorterie finanziarie e dalle classi dirigenti: si sarebbe ottenuto, attraverso l’ancoraggio al cambio fisso e al “vincolo esterno” la riduzione del potere contrattuale dei sindacati, la flessibilità e la segmentazione del mercato del lavoro (dovendo i costi della svalutazione spostarsi inevitabilmente sul mercato interno e sui costi dei beni, quindi del lavoro).(17) Una rigidità del tasso di cambio che obbligasse quindi a una svalutazione interna (dei salari), piuttosto che un cambio fluttuante, in luogo di un’inflazione che colpisse tutti, compresi evidentemente i più ricchi.(18)

L’ideologia mercantilista e la logica del protezionismo hanno animato invece l’adesione al progetto europeo da parte della Germania. La deflazione dei salari attuata attraverso la riforma del lavoro del 2003 ideata da Peter Hartz, sotto il governo Schröder, che ha ridotto la domanda interna, compensata però da una crescita economica legata all’export e da un aumento della produttività, si inserisce in tale logica. Essa fu tesa anche a reprimere i consumi interni e a riequilibrare la bilancia commerciale sulle esportazioni (fondamentale sostitutivo della politica di potenza militare), che si incarica di difendere nel proprio statuto la stessa Bundesbank. L’idea che si possa svalutare a danno di altri è improntata a un mercantilismo spicciolo(19) che contrasta fortemente con lo “spirito comunitario” e che è stato recentemente criticato dal Tesoro americano e dal FMI.(20) La svalutazione salariale ha reso più competitiva l’economia tedesca, che oggi si fonda su un modello sbilanciato sulle esportazioni all’interno della zona euro e ormai anche al di fuori di questa, su salari minimi ridotti e su una bassa inflazione che rende più appetibili gli investimenti.

Non pochi esperti hanno evidenziato che come soluzione a tale asimmetria, sarebbe necessario un forte inflazionamento da parte della Germania per riequilibrare la diversità dei differenziali di inflazione in termini reali tra nord e sud Europa (segnato dal carovita). Ma ciò è ben lungi dall’essere attuato. Il mancato assolvimento al ruolo di generatore di domanda europea, cui la Germania era ben poco disposta, ha reso e rende poco sostenibile per le industrie importatrici, per lo più periferici, la permanenza nell’eurozona. Del resto, l’avversione tedesca all’inflazione, tipica del modello industriale renano tendenzialmente refrattario al lassismo fiscale (più che la mancata elaborazione del dramma di Weimar), rendeva incompatibile la Germania con la funzione di paese creatore internazionale di valuta, ruolo assolto in altre epoche dall’Inghilterra, con scarsa efficacia, tra prima e seconda guerra mondiale e dagli Stati Uniti fino alla rottura del sistema di Bretton Woods.(21)

A livello geopolitico l’unificazione europea ha posto la questione della proiezione su uno scenario continentale dell’Italia, anziché sul Mediterraneo (che è concepito più come “frontiera” che come spazio naturale), più confacente alla sua realtà storica e politica. Ciò costituisce un altro vizio alla base dell’adesione al progetto di Unione europea. Lo scenario continentale franco-carolingio caro alla Germania, ha provocato un sacrificio in termini di aspirazioni geostrategiche più utili all’Italia.

L’Europa, testa di ponte geopolitica degli Stati Uniti,(22) attualmente sottoposta al sovradimensionato ruolo della tecnostruttura BCE-Commissione europea e della Germania (ciò di cui iniziano a soffrire i gollisti d’oltralpe), paese leader, vede crescere le divergenze al suo interno, lungo le “linee di faglia” sopracitate tra nord e sud del continente o tra “centro” e “periferia”. Il processo di unificazione, sospinto nell’epoca post-guerra fredda in una temperie il cui portato ideologico e politico conduceva a preferire le aggregazioni territoriali su comuni basi culturali ed etniche (secondo la lezione di Samuel Huntington) - nel quadro della risistemazione geopolitica globale seguita alla caduta del vecchio ordinamento bipolare – oggi che si va compiendo tra mille criticità, sembra riproporre una revisione di quel criterio di ordinamento del mondo, nonché una rivisitazione delle dinamiche interne alla stessa Europa.


NOTE


(1) Lucio Caracciolo, Euro No. Non morire per Maastricht, Laterza, Bari 1997 p. 23
(2) L. Caracciolo, L’Italia alla ricerca di se stessa, in G.Sabbatucci, V.Vidotto (a c. di), Storia d’Italia, vol. VI, L’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1999.
(3) L’Italia tentò di procrastinare, nonostante l’imposizione dell’”eurotassa”, l’adesione all’UEM, cosa che, secondo quanto ha rivelato l’ex ministro I. Visco, non venne accettata da francesi e tedeschi, i quali erano coscienti che l’Euro senza la partecipazione dell’Italia non sarebbe stato praticabile, timorosi di una lira svalutata in un'area a cambio fisso, vd. “Alla Germania nell’euro servivamo proprio perché deboli”, Il fatto quotidiano, 13 maggio 2012
(4) http://temi.repubblica.it/limes/e-ora-di-scegliere-tra-euro-ed-europa/46534?printpage=undefined
(5) Sulla questione dell’opportunità dell’uscita dall’euro, cui l’autore si mostra favorevole, mi sento di rimandare a un utile articolo di J. Sapir http://www.sinistrainrete.info/europa/3694-jacques-sapir-uscire-dalleuro.html
(6) Cit. in Caracciolo, op. cit. p. 29.
(7) http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-01-29/parla-inventore-formula-3percento-deficitpil-parametro-deciso-meno-un-ora-102114.shtml?uuid=ABJHQ0s
(8) L’espressione è usata nello stesso pamphlet “Euro no. Non morire per Maastricht” (p. 17) pubblicato contemporaneamente ad un altro nella stessa collana, ma di fede contraria, intitolato “Euro si. Morire per Maastricht”, opera dell’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta, pubblicati entrambi per Laterza nel 1997.
(9) Caracciolo, op. cit, p. 45.
(10) Trai paesi che le gravitano attorno, inseriti nella sua “sfera d’influenza”, dai quali riceve e nei quali indirizza importanti flussi migratori e commerciali: Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Liechtenstein, Polonia, Slovenia, Croazia, Svizzera, Repubbliche Baltiche, Olanda e Lussemburgo.
(11) Il caso della Grecia e delle conseguenze dei piani di salvataggio imposti al paese ellenico stanno a dimostrare l'inumanità dei meccanismi di rientro  e delle condizionalità dietro cui vengono forniti i finanziamenti europei.
(12) A margine, va detto che in assenza di una struttura politica centrale (espressione della volontà popolare), nonché di un coordinamento (la famosa “convergenza” fissata nei trattati europei) e di reali contropartite democratiche alla cessione di sovranità fiscale, la risoluzione degli shock attuali non potrà che avere sbocco nella sottomissione a un patto fiscale e nella subalternità a organizzazioni sovranazionali o entità finanziarie (quale è ad es. il Meccanismo europeo di stabilità), che non hanno alcunché di democratico e di condiviso con i rispettivi popoli europei (che hanno ragione d’essere in relazione alla propria appartenenza ai rispettivi stati nazione, dal momento che non è mai esistito e mai esisterà un unico popolo europeo).
(13) P. Krugman, “Lo spettro del 1937”, Il sole24ore, 23 ottobre 2012
(14) Uguali politiche economiche restrittive furono adottate dal II governo McDonald (1929-1931) in Gran Bretagna.
(15) La svalutazione monetaria si accompagna a un aumento dei prezzi dei beni esteri e sfavorisce le importazioni; determina un incremento delle esportazioni, perché favorisce in virtù di prezzi inferiori l’incremento della domanda estera di beni nazionali; l’Italia ha ricorso alla svalutazione, contrariamente a quanto si sostiene (l’ideologia dei “mercati” ha demonizzato tale strumento perché sarebbe foriera di inflazione, anche se non esiste alcuna correlazione trai due fenomeni), in poche occasioni storiche in maniera marcata (nel 1976 e nel 1981) e sempre ricorrendovi per scopi difensivi e mai ingaggiando guerre monetarie con altri paesi, in particolare in coincidenza con forti incremento dei prezzi determinati dall’aumento del costo del petrolio o in occasione di crisi di rifinanziamento (svalutazione del 1993), quando lo stato, spese le riserve di valuta, non ha altra scelta che abbattere il valore della divisa.
(16) Una disciplina antinflazionistica che come scrisse P. Krugman “everyone knew Germany had always wanted and would always want in future” ( http://web.mit.edu/krugman/www/euronote.html ).
(17) Alberto Bagnai, Il tramonto dell’euro, Imprimatur, Milano 2013, passim
(18) Un processo già iniziato, peraltro, dal 1981 con il “divorzio” della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro ( http://www.ilsole24ore.com/fc?cmd=art&artId=891110&chId=30 ). La separazione consistette nella cessazione di acquisti di bot da parte della Banca d’Italia e nell’indipendenza della banca centrale dall’esecutivo, esito del trionfo delle teorie monetariste (che colmarono il vuoto lasciato dall’ideologia post-keynesiana, ormai tramontata), in quel tempo alla ribalta grazie all’influenza allora esercitata dalla scuola di Chicago e dal premio Nobel Milton Friedman. Il principio dell’indipendenza della banca centrale diventerà uno dei pilastri dell’ideologia europeista, venendo fissato nel trattato di Maastricht attraverso l’esplicito divieto di “monetizzazione” dei debiti pubblici.
(19) M. De Cecco, L’etica tedesca e lo spirito dell’euro, La Repubblica, 26 marzo 2013
(20) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-10-31/gli-stati-uniti-contro-germania-esporta-deflazione-tutto-mondo-103913.shtml?uuid=ABoZQYa http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-11-03/dopo-affondo-usa-anche-fmi-pressing-berlino-riducete-surplus-bilancia-commerciale-150404.shtml?uuid=ABfov9a
(21) M. De Cecco, F. Maronta, Berlino, Roma e i dolori del giovane euro, in «Limes» 4/ 2013, http://keynesblog.com/2013/05/20/berlino-roma-e-i-dolori-del-giovane-euro/
(22) Zbigniew Brzezinski, A Geostrategy for Eurasia, “Foreign Affairs”, Sept.-Oct. 1997

Lo Scisma d’Oriente del 1054


Lo Scisma d’Oriente del 1054



Il prevalere delle fazioni più estremiste in seno alle Chiese romana e costantinopolitana determinò la rottura delle relazioni tra il patriarcato bizantino e il papato nel 1054, così come ad agire nel senso della separazione furono le manovre del patriarca Michele Cerulario, subentrato ad Alessio nel 1043. I tentativi operati da alcuni storici di ricondurre la rottura dei rapporti ecclesiastici agli eventi successivi alla scomunica di Cerulario del 1054 (in particolare al sacco crociato del 1204), piuttosto che alle infruttuose trattative sull’Unione che portarono alle reciproche scomuniche di Cerulario e Leone IX, appaiono inesatti, in quanto lo scisma fra Roma e Bisanzio risulta già compiuto alla metà dell’XI secolo, come dimostrato proprio dalle trattative per l’Unione in questa fase.



Michele Cerulario, miniatura del XII secolo



Il retroterra storico e politico della frattura fra Roma e Bisanzio (nota come Scisma d’Oriente) è quello della rivolta di Melo da Bari contro la dominazione bizantina (1009), appoggiato dai Longobardi e successivamente dai Normanni. Al centro c’era il conflitto più generale che animava il contesto geopolitico del Mezzogiorno e i possedimenti bizantini in Puglia e Campania, contesi tra il IX secolo e l’XI secolo fra tre potenze: il papato, l’Impero di Germania e quello di Bisanzio. Una quarta potenza, quella musulmana, ruotava attorno a questo scenario, anche se la sua presenza territoriale nel Sud Italia era divenuta ormai irrilevante nell’XI secolo (se si esclude la Sicilia, in mano alla dinastia araba dei Kalbiti, che vedrà cadere Palermo in mano normanna nel 1072). Una quinta forza, quella dei Longobardi, era ormai marginalizzata (Bari era stata un gastaldato longobardo) e ridotta all’obbedienza imperiale e pontificia, per quanto depositaria di fasce di autonomia.

Le questioni dottrinarie, al pari delle vicende politiche e belliche, ebbero un loro peso nell’aggravare lo iato religioso tra Oriente e Occidente, in particolare la questione della Processione dello Spirito Santo (vertente sul fatto se la Terza persona dello Spirito dovesse considerarsi procedente dalla prima e non insieme dalla prima e dalla seconda come nella liturgia occidentale), comunemente nota come questione del “filioque”, ma i conflitti per il potere ebbero un ruolo decisivo nel determinare la rottura, come l’appoggio del papa alla rivolta di Melo e l’avvicinamento del papato all’Impero di Germania nel contesto della lotta contro gli Arabi e i Bizantini, le due principali potenze mediterranee del tempo. 

Dalla rottura con Bisanzio in poi, sanzionata dalle bolle di scomunica emesse da Leone IX e Michele Cerulario, il papato volgerà per sempre le spalle a Bisanzio. Eppure, per secoli, i papi non avevano smesso di considerarsi parte di una compagine imperiale i cui unici depositari erano gli imperatori di Costantinopoli (dove il basileus poteva considerarsi unico legittimo successore degli imperatori romani), il cui primato era stato contestato dall’evento dell’impero di Germania (noto come Sacro Romano Impero). Roma, che fino all’VIII secolo permane bizantina, con la conquista carolingia e la successiva incoronazione di Carlo Magno a imperatore, cessò di riconoscersi nella Pars Orientis, per assegnare un nuovo ruolo all’Impero carolingio all’interno dell’Europa cristiana. Carlo Magno al tempo stesso, ricevendo l’investitura papale, rafforzava l’autorità del papa e indeboliva quella dell’Impero bizantino, a quel tempo guidato da una imperatrice donna, Irene, mentre infuriava la lotta iconoclasta.[1] Poco dopo il consumarsi dello Scisma d’Oriente, però, la lotta per le investiture avrebbe incrinato profondamente i rapporti tra papato e Impero di Germania. 

Come sottolineano Giovanni Tabacco e Grado G. Merlo, la disputa in materia disciplinare tra Roma e i patriarcati orientali concorse a determinare la rottura del 1054: «…l’anima della resistenza bizantina agli sviluppi dell’idea papale romana fu Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli, altrettanto energico propugnatore dell’autonomia ecclesiastica di fronte al potere del principe […] quanto avversario di una supremazia romana che non si mantenesse nei termini di un primato soprattutto onorifico».[2] Le più importanti sedi episcopali d’Oriente, ovvero le sedi patriarcali di Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria, difendevano infatti l’antico ordinamento pentarchico, risalente all’origine della storia cristiana e all’assetto stabilito dai primi concili, ma una direzione collegiale della Chiesa non era nelle minime intenzioni del papato. Al tempo stesso però Cerulario era sostenitore di un’autocefalia costantinopolitana che contrastava con l’aspirazione ad una monarchia universale del papato e che al tempo stesso contraddiceva la pentarchia difesa dai patriarcati orientali. 

Su un piano parallelo al conflitto di ordine disciplinare c’era la disputa sulla liturgia e la giurisdizione delle chiese dell’Italia meridionale, di non minore peso nel contesto delle lotte tra Normanni e Bizantini e tra questi ultimi e i Longobardi per il predominio e il controllo del Sud Italia. L’arrivo dei primi contingenti di uomini provenienti dalla Normandia non è chiaro se sia stato provocato da un esplicito invito rivolto dal principe di Salerno Guaimario IV, costretto a difendersi dalle incursioni saracene, ma di sicuro i primi Normanni giunti nel Mezzogiorno (250 all’inizio del XI secolo, giunti fino a 2500 alla fine del secolo) si schierarono a favore del ribelle Melo. [3] L’emigrazione normanna era funzionale ai vari interessi delle parti coinvolte nella lotta del Mezzogiorno, tanto ai Longobardi per sostenere lo scontro con Bisanzio, quanto ai ribelli capeggiati da Melo, per conseguire una emancipazione da quest’ultima, nonché al papato stesso, di cui in futuro diverranno braccio d’azione (inquadrati legalmente come vassalli del potere pontificio).[4] La rivolta di Melo, appoggiato dal principato di Salerno, favorì peraltro l’ingresso delle bande mercenarie normanne. Già tra il 1011 e il 1013 il catepano Basilio Mesardonites riusciva però a ristabilire l’ordine, riprendendo Bari e nel 1018 presso Canne le forze normanne venivano decimate.[5] L’appoggio stesso alla causa di Melo da parte del papato deve essere letto in chiave antibizantina, sul cui sfondo si pone la questione liturgica della volontà del papato di ristabilire l’autorità e giurisdizione pontificie e quindi anche la liturgia latina sul Mezzogiorno (fenomeno che nella storia del cristianesimo prende il nome di Rekatholisierung). [6]
 
Un altro campo di scontro per il controllo delle chiese e nello specifico del monopolio dell’evangelizzazione erano i Balcani e l’area slava, dove era in atto da circa due secoli il passaggio degli slavi al cristianesimo. [7] Il conflitto tra Chiesa greca e romana riguardava la conversione degli Slavi in Serbia e Macedonia, nonché in Russia (questi ultimi convertiti a partire dal X secolo). Disputato era anche il controllo della Chiesa bulgara, passata all’obbedienza costantinopolitana con la conversione di re Boris (dopo il battesimo Michele), che il patriarcato di Bisanzio affermava per questo motivo essere incontrovertibilmente sotto la propria giurisdizione. Proprio sul controllo della Chiesa bulgara si verificò il primo grande scontro tra Bisanzio e Roma quando il patriarca Fozio fece scomunicare dal sinodo di Costantinopoli papa Niccolò per le intrusioni papali nelle vicende bizantine, appellandosi al “filioque”.[8]

Il Mezzogiorno era naturalmente rivendicato anche dall’impero di Germania, dove gli imperatori dopo Ottone I rivendicarono i territori della Langobardia minor alla sovranità imperiale. Alle rivendicazioni dell’Impero si sommavano quelle del papato che, facendo leva sull’apocrifa Donatio Constantini, aspirava ad affermare il proprio dominio sui territori italici. La rottura della comunione tra le Chiese d’Oriente e Occidente va colta inoltre nel contesto più generale dello scontro proprio tra i due imperi, ovvero tra l’Impero di Germania e l’Impero bizantino. La necessità di un accordo tra papato e Impero germanico (nel 1052 Leone si incontrava con Enrico III per convincerlo a scendere in Italia contro i Normanni), risalente però a tempo addietro all’anno ufficiale della rottura dei rapporti ecclesiastici tra Oriente e Occidente, era motivata dall’esigenza di confronto, in particolare del papato, da un lato contro i Bizantini e dall’altro contro gli Arabi.

La figura di Michele Cerulario è del resto particolare e andrebbe analizzata maggiormente per capire le cause dello scisma. Essa denota un tratto di leadership e ambizione non sconosciuta ai patriarchi costantinopolitani. Nel 1040, tre anni prima di succedere al patriarcato, fu coinvolto in una congiura ordita contro l’imperatore Michele IV Paflagone (1034-1041) e sostenuta da ambienti aristocratici. Secondo Giovanni Skylitze sarebbe stato il Cerulario candidato al trono per succedere a Michele IV. [9] Con l’ascesa di Costantino IX Monomaco (1042-1055), Cerulario divenne uno dei più stretti consiglieri del basileus. Dopo la nomina a protosincello da parte di Alessio, carica che ne faceva di fatto il successore, con la morte di questi, venne elevato al patriarcato. Già dopo l’elevazione al soglio patriarcale, Michele non inaugurava la carica all’insegna dei buoni rapporti con Roma, decidendo di non inviare la lettera sinodale, con cui veniva annunciata la successione, a Benedetto IX. Lo stesso nome del papa non veniva pronunciato durante gli uffici liturgici, ma ciò avveniva già dai tempi in cui sulla cattedra patriarcale sedeva Sergio (999-1019), durante il pontificato di Giovanni XVIII. [10]

Mentre ciò accadeva sul piano dei rapporti tra patriarcati orientali e papato, ancora nei domini bizantini pugliesi il figlio del ribelle Melo (morto a Bamberga nel 1020 dove veniva solennemente tumulato nella Cattedrale per volere di un riconoscente Enrico II), Argiro, nonostante fosse stato allevato a Bisanzio dove era stato tradotto in giovane età per essere educato al costume bizantino, tornava a condurre la rivolta nel contesto di una lotta dinastica in seno all’impero. All’inizio sostenuto da Normanni e Longobardi, dopo un acuto ripensamento veniva nominato catepano, segnando la riconciliazione (per quanto temporanea) con Bisanzio dopo i falliti tentativi del generale bizantino Giorgio Maniace di riconquistare il Sud Italia con la forza. Evidente il cambio di politica maturato alla corte di Costantino IX, dove si comprese che la priorità doveva essere non combattere il ribelle Argiro, ma il crescente peso dei Normanni nella regione (invisi tanto al papato, quanto ai bizantini). I Normanni, privati del loro capo, in quanto Argiro era stato nominato dalle bande mercenarie normanne nel 1042 “principe e duca d’Italia”, si rivolsero al principe di Salerno Guaimario.[11] Argiro, nel tentativo di liquidare la questione normanna, si fece latore di un accordo tra papato, Impero di Germania (su cui regnava Enrico III) e basileus d’Oriente contro i Normanni. Di portata geniale il disegno di Argiro e di Costantino IX, che se fosse andato in porto avrebbe potuto mettere fuori gioco le fazioni “separatiste” in seno alla due Chiese, consentendo di unire gli sforzi contro i Normanni. 

Tale accordo, potendo determinare un ripristino della normalità dei rapporti tra Roma e Bisanzio, avrebbe potuto nuocere all’autonomia del patriarcato di Costantinopoli, spesso in competizione, come si è già visto, con l’imperatore bizantino. Difatti Cerulario, alla testa del partito antiromano maggioritario in Costantinopoli, prese misure volte ad aggravare i rapporti già tesi con Roma, come l’ordine di chiusura delle chiese e dei monasteri di rito latino a Costantinopoli appellandosi alla questione degli azzimi, decisa dopo aver ricevuto uno scritto del melkita Ibn Botlan.[12]

La vittoria conseguita dai Normanni a Civitate nel 1053 (18 giugno), dove trovava la disfatta una coalizione di forze comprendenti cavalieri tedeschi, conti latini (longobardi) e forze bizantine, che non riuscirono a congiungersi sul campo grazie all’estrema rapidità dell’azione normanna, scompaginava il quadro. Leone IX veniva fatto prigioniero dai Normanni (23 giugno), segnando la sconfitta completa dei progetti del papato (e di Bisanzio) di liberarsi del crescente peso delle bande di Normanni ormai infeudate nel Mezzogiorno. I Normanni sarebbero in seguito venuti a patto con il papato con la firma nel 1059 del concordato di Melfi e con il matrimonio tra Roberto il Guiscardo e Sichelgaita, figlia di Guaimario IV, imprimendo un carattere chiaramente antibizantino alla futura monarchia normanna di Sicilia. Tale accordo avrebbe comportato il passaggio degli eventuali territori strappati al potere bizantino dalla giurisdizione ecclesiale bizantina a quella romana.  

A Bisanzio la sconfitta del progetto argiriano e pontificio faceva scatenare i sostenitori di Cerulario che provocavano una violenta campagna pubblicitaria contro Roma. Nel 1053 la tensione tra Roma e Bisanzio è leggibile nella lettera inviata dall’arcivescovo Leone di Ochrida all’omologo Giovanni di Trani in cui venivano denunciati i delitti dei “latini”. Tra le accuse imputate alle chiese di rito latino l’uso del pane azimo durante la cerimonia dell’eucarestia, proibito a Bisanzio, dove si faceva ricorso al pane fermentato. [13]Il documento di Leone, trasmesso a Leone IX, suscitò una altrettanto piccata risposta del cardinale Umberto di Silvacandida, capo del partito anti-bizantino a Roma. 

Un ultimo ma fallimentare tentativo di intesa con il patriarcato venne cercato proprio da Leone IX con l’invio (nel gennaio 1054) di una delegazione a Costantinopoli, di cui facevano parte, oltre allo stesso Umberto di Silvacandida, il cancelliere Federico di Lorena e l’arcivescovo Pietro di Amalfi. Giunti nel 1054 nella capitale bizantina i delegati vennero volutamente presentati da Michele Cerulario, sempre deciso a ostacolare qualsiasi possibilità di accordo col papato, agli occhi di Costantino IX come emissari del “ribelle” Argiro. I legati, sperando in un appoggio dell’imperatore, pronto a sacrificare Cerulario per mantenere la pace con Roma, il 16 luglio 1054 scomunicarono Cerulario depositando una bolla di scomunica sull’altare di Santa Sofia. [14] C’è da notare che l’ambasceria, dopo la morte di Leone intervenuta ad aprile (poche settimane dopo la liberazione dalla prigionia), non avrebbe più dovuto avere valore, ma essa proseguì ugualmente il proprio mandato, agevolando i tentativi di Cerulario di delegittimarla. [15] Il potente patriarca per tutta risposta, suscitò un tumulto in Costantinopoli per evitare ogni contatto tra la delegazione e il basileus, minando definitivamente qualsiasi possibilità di riconciliazione. Alla scomunica della delegazione romana, a seguito del riallineamento del debole e altalenante Costantino IX sulle posizioni del patriarca, seguì naturalmente la scomunica da parte del sinodo residenziale verso i legati latini, mentre l’imperatore provvedeva a far bruciare l’anatema lasciato da Umberto da Silvacandida unitamente alla bolla di scomunica.[16]

Per quanto i tentativi di riappacificazione e contatti si siano avuti dopo il 1054, come quelli operati da Gregorio VII e Michele VII Ducas o quelli di Urbano II con Alessio I Comneno, tuttavia nessuna trattativa ebbe esito completo. Un episodio importante fu il Concilio di Bari del 1098, che vide riuniti 189 padri tra il 4 e il 10 ottobre di quell’anno. Urbano II, la cui attività iniziale a favore dell’Oriente cristiano è considerata all’origine della prima crociata, intendeva riallacciare i rapporti con l’Oriente e nel far questo trovava una convergenza di interessi con Ruggero “il Granconte”, favorevole su questo punto. Quest’ultimo, impegnato nell’opera di consolidamento dello stato normanno in Sicilia e nel Sud Italia, non nutriva ambizioni antibizantine come il predecessore Roberto il Guiscardo, desiderando chiudere la controversia per favorire il rafforzamento dei suoi domini, dove rilevante era la componente greca. [17]
 
La separazione definitiva tra Chiesa orientale e occidentale, già di fatto esistente ai tempi della contesa tra Cerulario e il partito di cui era capo Umberto, oltre ad essere indicativa di una posizione di debolezza dell’Impero di Bisanzio e al tempo stesso di una gran forza assunta dalle rispettive sedi patriarcali di Roma e Costantinopoli, costituì un evento di portata negativa per Bisanzio che così cessava di poter aspirare a un dominio universale e conseguentemente falliva nel riappropriarsi dei territori dell’Italia meridionale (nel 1071 con la conquista di Bari avveniva la cacciata dei Bizantini dal Meridione). Lo strapotere assunto dalla sede patriarcale divenne manifesto quando, alla morte di Costantino Monomaco, Cerulario si adoperò per contrastare il successore designato da Teodora (moglie di Constatino, succeduta al marito), Michele VI Stratiotico, sostenendo la sedizione delle truppe d’Asia guidate da Isacco Comneno, iniziatore della dinastia dei Comneni. Ma fu proprio l’ascesa di Isacco a segnare l’inizio del declino della potenza politica di Cerulario.





Bibliografia

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Pasquale Corsi, Bisanzio e il Mezzogiorno d’Italia. Nuovi studi, Vito Radio editore, Putignano 2012
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Vera Von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale. Dal IX all’XI secolo, Ecumenica editrice, Bari 1978.
Il Concilio di Bari del 1098, Atti del convegno storico internazionale e celebrazioni del IX centenario del Concilio, a cura di Salvatore Palese e Giancarlo Locatelli, Edipuglia, Bari 1999

 Note

[1] Massimo Montanari, Storia Medievale, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 62.
[2] Giovanni Tabacco, Grado G. Merlo, Medioevo, Il Mulino, Bologna 1981, 1989, ed. spec. RCS libri, Milano 2004, pp. 216-217.
[3] Hubert Houben, I Normanni, Il Mulino, Bologna 2013, p. 60.
[4] Salvatore Tramontana, Il mezzogiorno dai Normanni agli Svevi, in La storia: i grandi problemi dal Medioevo all'Età Contemporanea, a cura di Nicola Tranfaglia, Massimo Firpo, vol. II, tomo 2, “Il Medioevo”, Utet, Torino 1986, pp. 494-495.
[5] Pasquale Corsi, Bisanzio e il Mezzogiorno d’Italia. Nuovi studi, Vito Radio editore, Putignano 2012, p. 32.
[6] P. Corsi, Bisanzio e il Mezzogiorno d’Italia, cit., pp. 33, 129.
[7] Giovanni Vitolo, Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione, Sansoni, Firenze, 2000, pp. 186-188.
[8] Georg Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, Einaudi, Torino 1968, 1999, p. 211.
[9] P. Corsi, Bisanzio e il Mezzogiorno d’Italia, cit., p.  34.
[10] Cesare Alzati, La Chiesa ortodossa, in Cristianesimo, a cura di Giovanni Filoramo, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 468.
[11] Vera Von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale. Dal IX all’XI secolo, Ecumenica editrice, Bari 1978, p. 61.
[12] C. Alzati, La Chiesa ortodossa, cit., ivi.
[13] Tra gli altri motivi di contrasto fra le due chiese, già denunciati dal patriarca costantinopolitano Fozio, il digiuno quaresimale del sabato, la confermazione episcopale e il divieto di matrimonio dei preti.
[14] P. Corsi, Bisanzio e il Mezzogiorno d’Italia, cit., p. 36. L’imperatore era sinceramente disposto a un accordo in extremis con il papato, cosciente del fatto che i domini bizantini in Italia versavano in uno stato disastroso, mentre la cattività del papa acuiva la minaccia normanna.  
[15] Michel Parisse, Leone IX, papa, santo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 64, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005 <http://www.treccani.it/enciclopedia/leone-ix-papa-santo_(Dizionario-Biografico)/>
[16] C. Alzati, La Chiesa ortodossa, cit., p. 469.
[17] Carmelo Capizzi, Il concilio di Bari (1098): riflessi e silenzi nella tradizione bizantina e nella storiografia orientale, in «Il Concilio di Bari del 1098», Atti del Convegno storico internazionale e celebrazioni del IX centenario del Concilio, a cura di Salvatore Palese e Giancarlo Locatelli, Edipuglia, Bari 1999, pp. 72-75.

La distruzione del Serapeo di Alessandria (391 d.C.)

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