Conosciamo dei brani significativi della
letteratura antica dai quali traspare la visione dell’imperialismo romano
attraverso la lente del nemico. Il punto di vista è quello però dello storico
romano che tenta di calare sé stesso nella mentalità barbarica.
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Congiura di Giulio Civile, Rembrandt, 1661 |
La storia di
Roma è disseminata di tentativi di ribellione e di sganciamento dall’orbita
imperiale[1],
avvenuti in nome del ritorno all’antica libertà perduta, arma ideologica
utilizzata spesso anche in termini retorici. Giulio Civile vittorioso sulle
legioni è salutato come “campione di libertà” in Gallia e Germania (Historiae, IV 17). Nelle parole dello
stesso Civile: “Si piegassero, se
volevano, al servaggio, la Siria, l'Asia e l'Oriente intero, incallito alla
soggezione dei tiranni; eran vivi ancora in Gallia individui
nati avanti l'imposizione dei tributi” (Historiae, IV, 17, 8;
trad. F. Mascialino). Arminio al fratello Flavo arruolato trai romani rammenta
“il valore sacro della patria, l’avita libertà, gli dei della nazione
germanica…” (Annales, II, 10), ma poi
lo stesso Arminio è vittima dello “spirito di libertà del suo popolo”, cadendo
per tradimento dei suoi congiunti (Annales,
II, 88). I Cherusci, ancora dopo la morte di Arminio, ridotti a stato cliente,
si riuniscono a concione “per sostenere che l’antica libertà della Germania era
finita e che prendeva il sopravvento la potenza romana” (Annales, XI, 16). Il britanno Carataco, prima dello scontro
decisivo coi Romani, “giurava che quel giorno e quella battaglia valevano come
l’inizio o della riconquistata libertà o di una schiavitù eterna”, salvo poi
ridimensionare inconsapevolmente il suo patriottismo dopo la sconfitta, quando,
una volta deportato a Roma, dinnanzi alla tribuna imperiale ammette: “Ho avuto
cavalli, uomini, armi, ricchezze: c’è da stupirsi se ho opposto resistenza per
non perderli?” (Annales, XII, 34 e
37). La rivolta di Aristonico contro Roma, proclamatosi Eumene III e successore
dello zio Attalo al regno di Pergamo, si appoggiò sui ceti popolari (comprese
larghe masse di schiavi) e sulle città dell’interno più arretrate (i romani
stringevano infatti sempre forti legami con le élite provinciali) per il solo fatto che non aveva riscosso
successo trai ceti elevati e i grossi centri costieri. Petilio Ceriale (Historiae, IV, 73) nel discorso ai
Treviri e ai Lingoni, pur ammettendo che i Germani “mettono avanti il discorso
della libertà ed altre belle parole”, afferma che “non ci fu mai nessuno che,
desideroso di ridurre gli altri in schiavitù e di imporre il proprio dominio,
non abbia abusato di questi termini” (trad. F. Dessì).
Tacito sembra temere i Germani ben più dei Parti per la loro orgogliosa difesa
delle libertà avite,[2]
anche se negli Annales, quando
riferisce della questione armena e delle voci che giungevano dell’attivismo
militare del regno Partico, appare ugualmente preoccupato.[3] L’epistula
Mithridatis[4],
contenuta nel quarto libro frammentario delle Historiae di Sallustio e, nella ricostruzione forse non del tutto
fantasiosa dello storico, indirizzata da un Mitridate VI alle corde al sovrano
dell’Impero Partico Arsace, appare un documento interessante per valutare la
percezione che, dalla prospettiva romana, i popoli stranieri avevano
dell’allora rampante imperialismo repubblicano[5].
Sallustio lo interpreta come movente di conflitti manovrati dalla oligarchie,
sfruttati da queste per accumulare profitti.[6]
Quella che però emerge dall’epistula
Mithridatis è una condanna moralistica dell’imperialismo e stessa
interpretazione se ne dà nel Bellum Iugurthinum
(81). Iniziato con le guerre romano-cartaginesi, proseguito con la guerra alla
Macedonia del re Filippo, al seleucide Antioco, poi al figlio di Filippo
Perseo, dopodiché all’antico fedele condottiero numida Giugurta[7] e
poi ancora con le acquisizioni (indebite a parere di Sallustio-Mitridate) dei
regni di Pergamo e Bitinia, fino alla sottomissione di Creta e dell’Egitto,
esso ha portato potere, come proclama un appassionato Catilina, a “pochi
potenti”, ed “è a loro che re e tetrarchi pagano i loro tributi, popoli e
nazioni pagano l’imposta”. Infatti una “è la ragione per cui i Romani fan
guerra contro tutti, popolazioni e stati – repubbliche o regni -: l’insaziabile
brama di dominio e di ricchezze”.[8] La
lettera di Mitridate esalta proprio quest’aspetto, la polemica diretta da
Sallustio contro gli oligarchi e le élite
che fanno le guerre a spese del popolo romano per arricchire sé stesse.
Mitridate si sofferma in particolare sulle guerre condotte in Oriente (“ridotto
sotto la loro proprietà”), ed echi del regime di “rapina” (termine che ricorre
spesso) instaurato dai Romani nelle province della regione si ritrovano in
tutta l’Epistula.
I richiami alla libertà perduta, conculcata
dal regime oppressivo romano, risuonano in discorsi famosi, come quelli di
Critognanto[9], che
incita a soccorrere Alesia, di Calgaco, prima della battaglia di monte Graupio[10],
e di Giulio Civile capeggiatore della rivolta dei Batavi[11],
ricostruiti da Tacito e Cesare. Il progetto
di Civile andava ben oltre la mera rivolta a fini di bottino contro il potere
romano. Nella mente del batavo c’era un progetto politico preciso: creare una
unione amministrativa tra le province germaniche, assieme ad alcuni popoli
oltre la frontiera, e le Gallie, rappresentate dal treviro Giulio Classico e
dal lingone Giulio Sabino (si notino i nomi romani a indicare che possedevano
regolare cittadinanza). Fu un esperimento secessionista, ma che si fondava su
basi ben meno solide di quelle su cui Postumo, nel III sec., costituirà un vero
Imperium Galliarum, poi abbattuto da
Aureliano. Il progetto di Civile (unire la Germania e le Gallie) era del tutto
contrario al modello strategico e geopolitico di riferimento coniato già da
Cesare (De Bello Gallico, I, 31) e
poi concretizzatosi a partire dalla disfatta di Varo (quando i confini
imperiali furono segnati sul Reno anziché sull’Elba, fiume di cui al tempo di
Tacito non rimarrà che il solo ricordo, cfr. Germania, 41, 2): contrapporre le Gallie civilizzate sotto la
protezione di Roma a una Germania barbarica e arretrata. Per di più i romani
legittimavano il loro dominio sulla Gallia (come abbiamo visto nel discorso di
Ceriale, vd. Historiae, IV, 73, 5)
giustificandolo con la richiesta d’aiuto rivolta dalle tribù galle a Cesare,
ponendo sempre la necessità di evitare che “un altro Ariovisto” passasse il
Reno.
Non mancano numerosi riferimenti alla
corruzione esercitata dall’influsso del modo di vita dell’Urbe sulla sanità del costume barbaro.[12]
Riferimenti evidenti alla lettera di Mitridate si colgono nel discorso di
Calgaco, nel quale i romani sono dipinti come “rapinatori del mondo” e “avidi
se il nemico è ricco, smaniosi di dominio se è povero”.[13]
Quello che chiamano “sotto falso nome” impero si è costruito grazie a furti,
massacri e rapine, e là dove “dicono di aver portato la pace”, piuttosto “hanno
fatto deserto”.[14] Quando
Calgaco fa riferimento al peso delle leve, delle imposte e degli insulti[15]
la mente corre alle parole di Civile, allorché durante un banchetto notturno in
un bosco sacro, nel quale cerca di tirare a sé nella rivolta i capi tribù, si
dà ad “enumerare le ingiustizie, le rapine e gli altri mali della schiavitù”,
condannando il presente di servaggio e l’arbitrio di prefetti e centurioni
“sazi di preda e di sangue”, mentre il vero potere romano è assente e “non si
vede l’ombra di un legato” (quando
legatum cum imperio venire?).[16]
Critognato, il cui discorso si distingue per singularem ac nefariam crudelitatem nelle parole di Cesare, invita
a non condannare la Gallia per “stolta temerarietà” (stultitia ac temeritate)[17],
e implora i connazionali acciocché non scambino la resa per “l’onta suprema
della schiavitù” (turpidissimam
servitutem deditionis nomine appellant),[18]
così come ivi sprona più volte i connazionali perché evitino che l’intera
Gallia venga condannata al giogo eterno della servitù. L’arverno pone davanti
la condizione del resto della Gallia: “ridotta a provincia, perso il suo
diritto e le sue leggi, prostrata sotto le scuri dei fasci”, essa “geme in
perpetua servitù”.[19]
[1]
La missione storica del popolo romano è “regere
imperio populos… paci imponere mores” (Aeneis,
VI, 851-52); la divinità afferma che “Imperium
sine fine dedi” (Ib., 279), una
fine intesa sia in termini storici che geografici.
[2]
Cfr. Germania, 37,
dove Tacito si chiede: “Che altro infatti, fuori della strage di Crasso, compensata dalla perdita di Pacoro, ci potrebbe contrapporre l'Oriente,
piegato sotto i piedi di un Ventidio?”. Ancora in forma di quesito retorico in Annales, II, 2: “Dove era mai finita la
gloria di chi aveva trucidato Crasso e scacciato Antonio, se un servo di
Cesare, coi segni della schiavitù subita per tanti anni, veniva adesso a
comandare sui Parti?”.
[3]
Cfr. Annales, XIII, 6, dove ci si
chiede come il diciassettenne Nerone “potesse sobbarcarsi un carico tanto
gravoso e allontanare il pericolo”. Mastellone Iovane (1989), pp. 145-163.
[4]
Sallustio, Historiae, IV, 69 M.
[5]
È cosa nota che l’imperialismo, privo di una forma istituzionale concentrata
attorno a un imperatore (in assenza di principato), si affermi già durante la
fase della tarda Res Publica.
[6]
Ciò emerge nel discorso di Catilina (De
Catilinae coniuratione, 20, 2-17), dove però non si contesta l’imperialismo
in sé, ma la mancata redistribuzione delle ricchezze che deriva dalla sua
azione di conquista, e nell’Epistula (Historiae, IV, 5).
[7]
Giugurta, colui per il cui valore i Romani “ci sono diventati amicissimi”
diceva Micipsa (Bellum Iugurthinum,
X, 2) in punto di morte, è uno dei casi di ex fedeli militari al
servizio di Roma, poi passati a combatterla. Si pensi anche alle figure di
Giulio Vindice, di Arminio, di Giulio Civile e di Tacfarina, tutti un tempo
militanti nelle truppe ausiliarie dell’impero.
[8]
De Catilinae coniuratione, ivi.
[9]
De Bello Gallico, VII, 77
[10]
Agricola, 30-32
[11]
Historiae, IV, 17 e 32.
[12]
Cfr. Annales II, 2, sulla degenerazione
del principe Vonone, ormai ridotto in lettiga più che appassionato alle cacce,
come era nella tradizione partica; ib.,
VI, 32, sulla “assuefazione alla vita di Roma” di Fraate; ancora ib., XI, 16, in merito al re Italico,
destinato dai Romani al popolo dei Catti, su cui c’era da esser sospettosi
perché allevato a Roma e quindi “infettato dall’educazione ricevuta”; Historiae, IV, 64, 5, laddove nel
discorso agli abitanti di Colonia Agrippina si fa invito a questi ultimi
affinché riprendano in considerazione “le tradizioni e il modo di vivere dei
vostri padri”. Numerosi altri furono gli esempi di rampolli principeschi e
sovrani cresciuti (o invecchiati, come Maroboduo) a Roma da bambini e poi
rispediti a governare le province d’origine.
Questa assimilazione delle élite rientra in un processo di
acculturazione che ebbe un’importanza chiaramente programmatica presso i
romani.
[13]
Agricola, 30, 6
[14]
Agricola, 30, 7, cfr. Sallustio, Historiae, 17 e 20, quando dice che lì
dove il nemico offre un bottino più ricco (spolia
maxuma), si rivolgono le mire di conquista.
[15]
Agricola, 31, 1-3
[16]
Historiae, IV, 14.
[17]
De Bello Gallico, VII, 77, 9
[18]
Ib., VII, 77, 3
[19]
Ib., VII, 77, 16
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