domenica 26 aprile 2020

L'impero romano dal punto di vista dei barbari

Lo sguardo dei barbari sull’impero





Conosciamo dei brani significativi della letteratura antica dai quali traspare la visione dell’imperialismo romano attraverso la lente del nemico. Il punto di vista è quello però dello storico romano che tenta di calare sé stesso nella mentalità barbarica. 



Congiura di Giulio Civile, Rembrandt, 1661

La storia di Roma è disseminata di tentativi di ribellione e di sganciamento dall’orbita imperiale[1], avvenuti in nome del ritorno all’antica libertà perduta, arma ideologica utilizzata spesso anche in termini retorici. Giulio Civile vittorioso sulle legioni è salutato come “campione di libertà” in Gallia e Germania (Historiae, IV 17). Nelle parole dello stesso  Civile: “Si piegassero, se volevano, al servaggio, la Siria, l'Asia e l'Oriente intero, incallito alla soggezione dei tiranni; eran vivi ancora in Gallia individui nati avanti l'imposizione dei tributi” (Historiae, IV, 17, 8; trad. F. Mascialino). Arminio al fratello Flavo arruolato trai romani rammenta “il valore sacro della patria, l’avita libertà, gli dei della nazione germanica…” (Annales, II, 10), ma poi lo stesso Arminio è vittima dello “spirito di libertà del suo popolo”, cadendo per tradimento dei suoi congiunti (Annales, II, 88). I Cherusci, ancora dopo la morte di Arminio, ridotti a stato cliente, si riuniscono a concione “per sostenere che l’antica libertà della Germania era finita e che prendeva il sopravvento la potenza romana” (Annales, XI, 16). Il britanno Carataco, prima dello scontro decisivo coi Romani, “giurava che quel giorno e quella battaglia valevano come l’inizio o della riconquistata libertà o di una schiavitù eterna”, salvo poi ridimensionare inconsapevolmente il suo patriottismo dopo la sconfitta, quando, una volta deportato a Roma, dinnanzi alla tribuna imperiale ammette: “Ho avuto cavalli, uomini, armi, ricchezze: c’è da stupirsi se ho opposto resistenza per non perderli?” (Annales, XII, 34 e 37). La rivolta di Aristonico contro Roma, proclamatosi Eumene III e successore dello zio Attalo al regno di Pergamo, si appoggiò sui ceti popolari (comprese larghe masse di schiavi) e sulle città dell’interno più arretrate (i romani stringevano infatti sempre forti legami con le élite provinciali) per il solo fatto che non aveva riscosso successo trai ceti elevati e i grossi centri costieri. Petilio Ceriale (Historiae, IV, 73) nel discorso ai Treviri e ai Lingoni, pur ammettendo che i Germani “mettono avanti il discorso della libertà ed altre belle parole”, afferma che “non ci fu mai nessuno che, desideroso di ridurre gli altri in schiavitù e di imporre il proprio dominio, non abbia abusato di questi termini” (trad. F. Dessì).

Tacito sembra temere i Germani ben più dei Parti per la loro orgogliosa difesa delle libertà avite,[2] anche se negli Annales, quando riferisce della questione armena e delle voci che giungevano dell’attivismo militare del regno Partico, appare ugualmente preoccupato.[3] L’epistula Mithridatis[4], contenuta nel quarto libro frammentario delle Historiae di Sallustio e, nella ricostruzione forse non del tutto fantasiosa dello storico, indirizzata da un Mitridate VI alle corde al sovrano dell’Impero Partico Arsace, appare un documento interessante per valutare la percezione che, dalla prospettiva romana, i popoli stranieri avevano dell’allora rampante imperialismo repubblicano[5]. Sallustio lo interpreta come movente di conflitti manovrati dalla oligarchie, sfruttati da queste per accumulare profitti.[6] Quella che però emerge dall’epistula Mithridatis è una condanna moralistica dell’imperialismo e stessa interpretazione se ne dà nel Bellum Iugurthinum (81). Iniziato con le guerre romano-cartaginesi, proseguito con la guerra alla Macedonia del re Filippo, al seleucide Antioco, poi al figlio di Filippo Perseo, dopodiché all’antico fedele condottiero numida Giugurta[7] e poi ancora con le acquisizioni (indebite a parere di Sallustio-Mitridate) dei regni di Pergamo e Bitinia, fino alla sottomissione di Creta e dell’Egitto, esso ha portato potere, come proclama un appassionato Catilina, a “pochi potenti”, ed “è a loro che re e tetrarchi pagano i loro tributi, popoli e nazioni pagano l’imposta”. Infatti una “è la ragione per cui i Romani fan guerra contro tutti, popolazioni e stati – repubbliche o regni -: l’insaziabile brama di dominio e di ricchezze”.[8] La lettera di Mitridate esalta proprio quest’aspetto, la polemica diretta da Sallustio contro gli oligarchi e le élite che fanno le guerre a spese del popolo romano per arricchire sé stesse. Mitridate si sofferma in particolare sulle guerre condotte in Oriente (“ridotto sotto la loro proprietà”), ed echi del regime di “rapina” (termine che ricorre spesso) instaurato dai Romani nelle province della regione si ritrovano in tutta l’Epistula.


I richiami alla libertà perduta, conculcata dal regime oppressivo romano, risuonano in discorsi famosi, come quelli di Critognanto[9], che incita a soccorrere Alesia, di Calgaco, prima della battaglia di monte Graupio[10], e di Giulio Civile capeggiatore della rivolta dei Batavi[11], ricostruiti da Tacito e Cesare. Il progetto di Civile andava ben oltre la mera rivolta a fini di bottino contro il potere romano. Nella mente del batavo c’era un progetto politico preciso: creare una unione amministrativa tra le province germaniche, assieme ad alcuni popoli oltre la frontiera, e le Gallie, rappresentate dal treviro Giulio Classico e dal lingone Giulio Sabino (si notino i nomi romani a indicare che possedevano regolare cittadinanza). Fu un esperimento secessionista, ma che si fondava su basi ben meno solide di quelle su cui Postumo, nel III sec., costituirà un vero Imperium Galliarum, poi abbattuto da Aureliano. Il progetto di Civile (unire la Germania e le Gallie) era del tutto contrario al modello strategico e geopolitico di riferimento coniato già da Cesare (De Bello Gallico, I, 31) e poi concretizzatosi a partire dalla disfatta di Varo (quando i confini imperiali furono segnati sul Reno anziché sull’Elba, fiume di cui al tempo di Tacito non rimarrà che il solo ricordo, cfr. Germania, 41, 2): contrapporre le Gallie civilizzate sotto la protezione di Roma a una Germania barbarica e arretrata. Per di più i romani legittimavano il loro dominio sulla Gallia (come abbiamo visto nel discorso di Ceriale, vd. Historiae, IV, 73, 5) giustificandolo con la richiesta d’aiuto rivolta dalle tribù galle a Cesare, ponendo sempre la necessità di evitare che “un altro Ariovisto” passasse il Reno.

Non mancano numerosi riferimenti alla corruzione esercitata dall’influsso del modo di vita dell’Urbe sulla sanità del costume barbaro.[12] Riferimenti evidenti alla lettera di Mitridate si colgono nel discorso di Calgaco, nel quale i romani sono dipinti come “rapinatori del mondo” e “avidi se il nemico è ricco, smaniosi di dominio se è povero”.[13] Quello che chiamano “sotto falso nome” impero si è costruito grazie a furti, massacri e rapine, e là dove “dicono di aver portato la pace”, piuttosto “hanno fatto deserto”.[14] Quando Calgaco fa riferimento al peso delle leve, delle imposte e degli insulti[15] la mente corre alle parole di Civile, allorché durante un banchetto notturno in un bosco sacro, nel quale cerca di tirare a sé nella rivolta i capi tribù, si dà ad “enumerare le ingiustizie, le rapine e gli altri mali della schiavitù”, condannando il presente di servaggio e l’arbitrio di prefetti e centurioni “sazi di preda e di sangue”, mentre il vero potere romano è assente e “non si vede l’ombra di un legato” (quando legatum cum imperio venire?).[16] Critognato, il cui discorso si distingue per singularem ac nefariam crudelitatem nelle parole di Cesare, invita a non condannare la Gallia per “stolta temerarietà” (stultitia ac temeritate)[17], e implora i connazionali acciocché non scambino la resa per “l’onta suprema della schiavitù” (turpidissimam servitutem deditionis nomine appellant),[18] così come ivi sprona più volte i connazionali perché evitino che l’intera Gallia venga condannata al giogo eterno della servitù. L’arverno pone davanti la condizione del resto della Gallia: “ridotta a provincia, perso il suo diritto e le sue leggi, prostrata sotto le scuri dei fasci”, essa “geme in perpetua servitù”.[19]






[1] La missione storica del popolo romano è “regere imperio populos… paci imponere mores” (Aeneis, VI, 851-52); la divinità afferma che “Imperium sine fine dedi” (Ib., 279), una fine intesa sia in termini storici che geografici.
[2] Cfr. Germania, 37, dove Tacito si chiede: “Che altro infatti, fuori della strage di Crasso, compensata dalla perdita di Pacoro, ci potrebbe contrapporre l'Oriente, piegato sotto i piedi di un Ventidio?”. Ancora in forma di quesito retorico in Annales, II, 2: “Dove era mai finita la gloria di chi aveva trucidato Crasso e scacciato Antonio, se un servo di Cesare, coi segni della schiavitù subita per tanti anni, veniva adesso a comandare sui Parti?”.
[3] Cfr. Annales, XIII, 6, dove ci si chiede come il diciassettenne Nerone “potesse sobbarcarsi un carico tanto gravoso e allontanare il pericolo”. Mastellone Iovane (1989), pp. 145-163.
[4] Sallustio, Historiae, IV, 69 M.
[5] È cosa nota che l’imperialismo, privo di una forma istituzionale concentrata attorno a un imperatore (in assenza di principato), si affermi già durante la fase della tarda Res Publica.
[6] Ciò emerge nel discorso di Catilina (De Catilinae coniuratione, 20, 2-17), dove però non si contesta l’imperialismo in sé, ma la mancata redistribuzione delle ricchezze che deriva dalla sua azione di conquista, e nell’Epistula (Historiae, IV, 5).
[7] Giugurta, colui per il cui valore i Romani “ci sono diventati amicissimi” diceva Micipsa (Bellum Iugurthinum, X, 2) in punto di morte, è uno dei casi di ex fedeli militari al servizio di Roma, poi passati a combatterla. Si pensi anche alle figure di Giulio Vindice, di Arminio, di Giulio Civile e di Tacfarina, tutti un tempo militanti nelle truppe ausiliarie dell’impero.
[8] De Catilinae coniuratione, ivi.
[9] De Bello Gallico, VII, 77
[10] Agricola, 30-32
[11] Historiae, IV, 17 e 32.
[12] Cfr. Annales II, 2, sulla degenerazione del principe Vonone, ormai ridotto in lettiga più che appassionato alle cacce, come era nella tradizione partica; ib., VI, 32, sulla “assuefazione alla vita di Roma” di Fraate; ancora ib., XI, 16, in merito al re Italico, destinato dai Romani al popolo dei Catti, su cui c’era da esser sospettosi perché allevato a Roma e quindi “infettato dall’educazione ricevuta”; Historiae, IV, 64, 5, laddove nel discorso agli abitanti di Colonia Agrippina si fa invito a questi ultimi affinché riprendano in considerazione “le tradizioni e il modo di vivere dei vostri padri”. Numerosi altri furono gli esempi di rampolli principeschi e sovrani cresciuti (o invecchiati, come Maroboduo) a Roma da bambini e poi rispediti a governare le province d’origine.  Questa assimilazione delle élite rientra in un processo di acculturazione che ebbe un’importanza chiaramente programmatica presso i romani.
[13] Agricola, 30, 6
[14] Agricola, 30, 7, cfr. Sallustio, Historiae, 17 e 20, quando dice che lì dove il nemico offre un bottino più ricco (spolia maxuma), si rivolgono le mire di conquista.
[15] Agricola, 31, 1-3
[16] Historiae, IV, 14.
[17] De Bello Gallico, VII, 77, 9
[18] Ib., VII, 77, 3
[19] Ib., VII, 77, 16

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