giovedì 23 aprile 2020

Asimmetrie economiche e discrasie democratiche del progetto europeo

Tiziano, Ratto d'Europa, 1560



Asimmetrie tecnico-economiche e discrasie democratiche del progetto europeo
Una panoramica di taglio empirico sulle antinomie del progetto europeo

Di Domenico Caldaralo*


Introduzione

     In questo articolo si intendono affrontare alcuni problemi specifici della gestione della cosiddetta governance europea, a partire della recessione del 2008, cui fece seguito la crisi dei debiti sovrani sopravvenuta in tutto il continente nel 2011. Si tenterà di attuare una disamina empirica della crisi della struttura europea a partire dall’analisi delle asimmetrie dell’euro, manifestatesi nel 2011 quando la bolla dell’indebitamento del settore privato dei paesi periferici europei raggiunse un punto critico, comprovando la presenza di un forte deficit di solidarietà e collaborazione in Europa, ed evidenziando allo stesso tempo l’estrema impreparazione dell’Unione europea di fronte a squilibri esogeni al proprio sistema[1]. L’assenza di meccanismi di protezione comunitaria, con riferimento al sostegno ai debiti pubblici, come a quello delle misure sociali (dovuta ad un’impronta marcatamente liberista del progetto europeo che appare storicamente un tratto genomico, implicito già nell’adozione del Piano Marshall) è emersa in maniera plateale solo con la crisi finanziaria degli ultimi anni[2]. Tale insufficienza dell’Unione ha aggravato la crisi finanziaria e ha contribuito ad allargarla all’economia reale, finendo per trasformare una crisi inizialmente limitata al solo settore bancario, in crisi del tessuto economico[3].

Crisi del neofunzionalismo post-Maastricht

In seguito agli sconquassi finanziari dell’estate del 2011 durante i quali il rialzo repentino del differenziale dei titoli di stato italiani (noto come spread) provocò un brusco innalzamento del debito pubblico —  nel cui calderone si sono riversati i debiti del settore finanziario privato, cui si è sommata l’attuazione di rigide politiche di austerity per opera del governo presieduto da Mario Monti (subentrato a Silvio Berlusconi, già sulla via di quel percorso di rigore) — si è assistito a una progressiva perdita della sovranità economica dei paesi europei, non solo dell’Italia, senza che tale sottrazione di ambiti di competenza statali (come la politica di bilancio, sostanzialmente avocata all’Unione) fosse compensata da contrappesi solidaristici europei, come una vera politica fiscale e sociale comune o una reale condivisione dei rischi sul lato dei debiti pubblici. Pare sussistere, al fondo della questione europea, il problema della mancata convergenza tra perseguimento dell’unità giuridico-politica da un lato, e della coesione sociale dall’altro. Tale dicotomia ha già messo in discussione alcuni fondamentali e irrinunciabili valori europei, tra cui lo Stato di diritto fondato sulla tutela dei diritti sociali fondamentali (incarnato dagli artt. 2 e 3 della Cost. italiana). La prassi funzionalista, che ha visto concentrata l’Europa nel corso della sua storia, non è riuscita a garantire l’opportuno benessere sociale. All’origine dei tali squilibri pare esservi la stessa logica funzionalistica, che se lascia inalterate alcune prerogative cardine degli stati (esteri, difesa), ne assume altre (bilanci e politica fiscale), senza attuare adeguate compensazioni (in termini soprattutto di politiche assistenziali) e senza fornire risposte complessive e generali a livello comunitario.
Due questioni importanti affiorano dal discorso sul deficit democratico e solidale europeo e dalle considerazioni sui limiti del neofunzionalismo. Innanzitutto, la riduzione dello spazio di manovra nazionale nella sfera europea, con il corollario dello svuotamento del campo democratico sovrano, e il ruolo del giuridico nell’attuale costruzione europea. Il processo di integrazione ha ruotato da sempre attorno alla dialettica nazionalismo-europeismo: contro chi si è pronunciato per la rinuncia all’indissolubilità del potere sovrano (implicita nell’adesione europeista), c’è stato chi ha opposto il contraltare della difesa della sovranità nazionale (si pensi all’esempio di De Gaulle su tutti). Se perciò è vero che l’abbandono della sovranità nazionale auspicata nell’ambito degli stati europei, comporta anche l’abbandono della democrazia politica[4], secondo un consolidato filone di pensiero filosofico-politico che affonda le radici nella dottrina della sovranità popolare e che ha trovato consacrazione nel compimento del processo di democratizzazione degli Stati costituzionali moderni, almeno fintanto che una nuova soggettività democratica continentale non prenda forma al posto di quella nazionale, si può dire allora che al venir meno del ruolo del politico come detentore della sovranità corrisponda il venir meno del ruolo del giuridico e della cultura giuridica.  Queste ultime, non più imperniate su una soggettività politica sovrana, rischiano di essere ridotte a svolgere un ruolo prettamente formale e declaratorio, funzionale alla permanenza di una determinata struttura economica fondata su precisi rapporti di produzione, apparendo inoltre improntate a recepire una volontà politica esterna — quella che promana dalla governance europea — che non è più riducibile a un sostrato politico-decisionale popolare[5].
La sovranità politica risulta, quindi, interrelata alla democrazia, di cui le costituzioni nazionali sono espressione e baluardo concreto[6]. Se l’impianto democratico su cui si regge la sovranità viene indebolito, esso risulta privato, inoltre, anche della componente del welfare state.  Il diritto quindi, deprivato della componente democratico-sociale integrata e compenetrata dal principio della sovranità nazionale (e non ultimo dello stato sociale), finisce per rivelarsi prettamente regolatorio e ridotto a pura tecnica e formalità giuridica, anziché considerarsi prodotto e diretta emanazione della società (“ubi societas, ibi ius”). Su tale fattore sociale all’origine del diritto ha, come noto, incentrato la propria teoria giuridica Santi Romano.
L’Europa finisce così per riproporre un volto che sembrava orma scomparso dalla scena storica: quella società a cui guardava Tocqueville, così come in tutto il pensiero liberale, in cui l’ideale dell’uguaglianza formale conviveva col persistente radicamento di una aristocrazia politica (una società politica elitaria), arroccata nella difesa della limitatezza del suffragio elettorale. La democrazia, intesa come realizzazione integrale del suffragio universale, ai tempi del pensatore francese era ritenuta un ideale pericoloso, una pratica eversiva delle “libere istituzioni”[7]. Si spera di non veder riprodotta, se dovesse persistere un approccio meramente tecnicistico e contabile alle grandi questioni comunitarie, come avvenuto in occasione della crisi dei debiti sovrani europei e della triste vicenda greca, una visione della democrazia quale quella toquevilliana che sembrava sorpassata dalla storia.
Pare doveroso mettere in rilievo che la difesa dell’interesse nazionale e il sentimento patriottico appaiono tratti ineliminabili ed essenziali sul piano della difesa della democrazia economica (vale a dire quel punto d’incontro tra liberaldemocrazia e socialdemocrazia, frutto di una sorta di compromesso tra capitale e lavoro, già presente nel modello di Weimar e poi applicato nelle democrazie liberali europee nate dopo il secondo conflitto mondiale[8]). Quest’ultimo modello ha senso se è in grado di dispiegare i propri effetti a riparo da turbolenze finanziarie (attacchi speculativi, flussi liberi di capitale) e se vi è un ruolo regolativo dello stato a protezione dell’interesse collettivo [9].
La crisi finanziaria del 2011 ha di fatto sancito la fine della logica progressiva e incrementale del funzionalismo, su cui si era retta storicamente l’integrazione. L’istituzionalizzazione del conflitto capitale-lavoro implicita nel progetto costituzionale dei paesi usciti dall’esperienza bellica (una sorta di punto di incontro tra liberismo e socialismo), il quale appare realizzazione concreta di quella che si è definita come democrazia economica, che implicava un patto sociale tra capitalismo e democrazia, è stata di fatto accantonata, se non abrogata (tramite vincoli giuridici di condizionalità degli aiuti finanziari), in favore di una sua silente sterilizzazione: ogni conflitto di idee o di classe, ogni proposta politica si scontra con la supposta neutralità di un ordine tecnocratico neoliberale oggettivo e insindacabile, che trasforma e riduce ogni contraddizione di classe, appartenente alla sfera sociale, in questione di carattere contabile e monetario, tramite un riduzionismo che appare ideologico, prima ancora che tecnico o motivato da reali giustificazioni economiche[10].
La Costituzione era nata con il preciso scopo di garantire il rispetto dei diritti sociali e il bilanciamento dei poteri, ma il peso conseguito oggi dalle politiche di sorveglianza sul debito pubblico e sul deficit dello Stato appaiono del tutto incompatibili (e prevalenti) rispetto alla Costituzione. L’Europa inoltre è divenuta, anziché “coassiale”, cioè con un centro e una direzione comuni, sempre più asimmetrica e sbilanciata: i paesi europei sono interpretati come soggetti morali, al di là delle loro interne differenziazioni di classe, venendo suddivisi tra “virtuosi” (creditori) e “dissoluti” (debitori); vi è un’Europa centrale (la “core Europe”) e un’Europa periferica (dei cosiddetti “PIIGS”), per le quali valgono regole e trattamenti differenti[11]. Tale asimmetria nella struttura istituzionale (ed economica) appare il frutto di rapporti di forza sbilanciati nell’assetto europeo, di cui la moneta unica risulta essere una delle maggiori cause, se non la principale[12]. Il progetto di unione monetaria, peraltro, che doveva servire ad avvicinare in origine gli Stati europei, ha finito per ledere il patto sociale europeo occidentale e creare una divergenza crescente tra paesi[13].


Le asimmetrie della valuta comune e la questione tedesca

La valuta comune, quale strumento di carattere ordoliberale diretto a ridurre in un contesto di economia competitiva pura diseconomie e svantaggi indotti dal ricorso alla leva monetaria tra paesi nelle intenzioni dei suoi ideatori (anche se la presenza di strutture fiscali non condivise finisce per mantenere inalterato il quadro di squilibri e non configura alcun assetto di mercato omogeneo), ha neutralizzato per via tecnica il conflitto distributivo, essendosi quest’ultimo risolto a favore del capitalismo[14]. Con la crisi economica e finanziaria prodottasi nell’ultimo decennio abbiamo assistito alla tramutazione di una crisi di debito privato in crisi di debito pubblico; quelle che erano passività economiche del settore privato si sono tramutate in passività dei bilanci statali[15]. Se da un lato si è realizzata una socializzazione delle perdite, dall’altra vi è stata una privatizzazione dei profitti—dinamica tipica e ricorrente della governance neoliberista. L’euro ha indotto deflazione salariale e ha determinato, tramite la politica economica dell’austerity, un forte indebolimento del welfare state—fattori che hanno contribuito a produrre la disattivazione delle Costituzioni social-liberali europee, risultato delle conquiste politiche post-belliche.
Direttamente connessa alla questione dell’euro appare anche la questione tedesca, che assume una funzione centrale nella ricostruzione della disamina della crisi europea. La Germania costituisce oggi il paese egemone del continente e al tempo stesso rappresenta, come la storia del resto insegna, l’epicentro di continui squilibri, specie in contrapposizione con il rivale francese, all’interno del contesto paneuropeo e mitteleuropeo in particolare. È noto che l’accelerazione del processo di adozione della moneta unica sia avvenuta a seguito della riunificazione tedesca e che quest’ultima si sia realizzata nel contesto dell’edificazione dell’Unione Economica e Monetaria. Il secondo processo ha direttamente condizionato il primo. Difatti, «[s]e la prospettiva dell’UEM era destinata a cambiare radicalmente la CEE, questo mutamento doveva farsi conformemente ai principi ispiratori della politica economica tedesca, avviando l’unione monetaria lungo le tradizionali linee della disciplina economica finalizzata a garantire la stabilità dei prezzi. L’unione politica doveva servire ad assicurare il rispetto di questi principi, e soltanto a condizione di ottenere questa garanzia si poteva prefigurare l’abbandono da parte tedesca del marco»[16].
La creazione della moneta comune, di cui è stata beneficiaria in particolar modo la Germania in termini di crescita economica reale, dal momento che essa ha potuto sfruttare un euro svalutato rispetto alla propria precedente valuta, ha comportato un’ulteriore riduzione degli spazi di sovranità (in termini in primo luogo di gestione della leva monetaria), benché vada sottolineato che  è stato il capitale esportatore tedesco ad avere conseguito i maggiori vantaggi in termini di competitività e di maggiori profitti, a tutto detrimento della classe lavoratrice tedesca. Il progetto europeo incentrato sul monetarismo e sul modello neoliberale portato avanti da Berlino ha prodotto anziché una Germania europea, com’era nelle intenzioni dei padri fondatori, un’Europa tedesca, che assomiglia sempre più a un soggetto amministrativo puramente tecnocratico, nel quale lo spazio politico come spazio civile è divenuto sempre più evanescente e in cui la democrazia è stata compressa in nome di politiche dettate da necessità di bilancio[17]. Quell’”Europa tedesca” che Thomas Mann aveva, nel 1953, invitato gli studenti di Amburgo ai quali si rivolgeva a dimenticare, affinché costruissero finalmente una completa integrazione tedesca nel continente[18]. Appariva plausibile che qualora fossero prevalse nuovamente pressioni nazionalistiche in seno ad una Germania già troppe volte spinta a voler conseguire un peso egemonico nel continente europeo, la via a un’”Europa tedesca” poteva nuovamente aprirsi.
L’euro, punto di svolta del processo di integrazione in senso funzionalistico, appare quindi ben più di un progetto di convergenza delle economie europee. Benché giudicato irrazionale da economisti della scuola marginalista come Milton Friedman e von Hayek, i quali ne avevano chiaramente messa in rilievo l’insensatezza in termini economici[19], è stato concepito come il caposaldo dell’integrazione di Maastricht[20]. L’obiettivo di tale progetto era quello di indurre un ulteriore slancio verso l’integrazione, facendo della moneta comune il primo passo verso l’unificazione politica, prospettiva che tuttavia sembra essere stata abbandonata dalla coppia franco-tedesca[21].  Ad oggi, diversamente da quanto era stato previsto, va facendosi strada un modello diverso fondato su un’Europa “a più velocità”, che riscuote simpatie anche nei paesi fondatori del progetto europeo e in particolare nel “direttorio” franco-tedesco, che ha dimostrato di essere il vero propulsore delle decisioni europee. Tale modello di un’unione asimmetrica è indotto dalla stessa presenza, all’interno dell’Unione, di paesi che fanno parte dell’UEM, per la quale si applicano determinate disposizioni (in particolare in materia di squilibri macroeconomici) e altri che ne sono fuori, per i quali non si applicano gli stessi vincoli.
La struttura stessa dell’edificio comunitario, articolata nel doppio livello statuale e interstatuale, non può esercitare compiutamente   quella sovranità in grado di far fronte ai problemi comuni europei, tanto in materia economica, quanto internazionale e sociale, perché la necessaria avocazione, realizzatasi solo parzialmente per via di una limita competenza lasciata all’Unione in materia di bilancio (tramutatasi nei cosiddetti “vincoli”), alla statualità europea della politica economica e fiscale ad oggi non si è concretizzata, così come si è ben lontani da una condivisione dei rischi sul fronte del debito pubblico e della creazione di titoli di debito europei che possano affrancare gli stati dalla sudditanza ai “mercati”.


Conclusioni

Se la moneta comune ha generato vantaggi indubbi per la Germania e i suoi satelliti (ad esempio in termini di surplus commerciale), non ha però creato benefici cospicui per i paesi periferici, al netto della riduzione dei tassi di interesse sul debito, contribuendo anzi a un allargamento del divario intra-europeo.  Per funzionare in maniera ottimale essa dovrebbe comportare trasferimenti dalle economie più forti a quelle più deboli, ma tale meccanismo di trasferimento non è stato mai attuato[22]. Ragioni storico-politiche legate alla questione tedesca, nonché dinamiche che ineriscono alla politica interna e alle opinioni pubbliche dei singoli paesi, Germania in primis, impediscono ad oggi di perseguire una compiuta integrazione economica tramite la creazione di una politica fiscale comune e debiti pubblici condivisi. Il motivo dell’impasse europea, dovuto all’incapacità di giungere a una svolta nell’integrazione e di addivenire al “super-Stato”, è da ricercare non tanto in una riluttanza dei paesi meridionali a cedere sovranità – i quali invero si sono mostrati piuttosto solleciti in questo–, quanto nel rifiuto da parte delle classi dirigenti dei paesi settentrionali di realizzare una mutualizzazione dei rischi, tramite l’incorporazione dei debiti dei paesi periferici (e in particolare mediterranei)[23].




*Domenico Caldaralo è laureato in Storia delle istituzioni politiche presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”.


(Sul medesimo tema rimando a un altro articolo presente su questo sito: https://kleosofia.blogspot.com/2020/04/la-riunificazione-tedesca-e-la-nascita.html)


Note



[1] E. Brancaccio et al., Un’altra Europa è necessaria, «Micromega», 2 (2019), p. 82.

2] Ivi, p. 41.

[3] Va rammentato che in occasione dell’inizio della recessione del 2008 l’Italia aveva dato prova di maggiore solidità sul piano della sostenibilità bancaria rispetto ad altri paesi del Nord Europa, tanto da subire gli effetti della recessione in misura minore rispetto a paesi considerati oggi “virtuosi”.

[4] Sul tema del rapporto tra sovranità e democrazia si veda B. De Giovanni, Elogio della sovranità politica, Editoriale Scientifica, Napoli 2015.

[5] Sul ruolo del giuridico come fattore fondante del sistema economico nella cultura ordoliberale e neoliberale si veda M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2012, p. 136.

[6] C. Galli, Apologia della sovranità, in «Limes», 2 (2019), pp. 160-161. Sul concetto di sovranità di veda sempre di C. Galli, Sovranità, Il Mulino, Bologna 2019.

[7] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 102 segg. Si veda anche sulla storia del suffragio universale D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo: trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino 1993 e dello stesso autore Rivoluzione d’ottobre e democrazia nel mondo, La scuola di Pitagora, Napoli 2015. Sul rapporto invece di Tocqueville con la rivoluzione del 1848 D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 322.

[8] C. Galli, Carl Schmitt: politica ed economia nella crisi di Weimar, «Filosofia politica», 1 (2019), p. 50

[9] In un intervento alla Camera dei deputati in occasione della ratifica del trattato sul Consiglio d’Europa (1949) il deputato socialista Lelio Basso chiarì la differenza tra internazionalismo e cosmopolitismo e suggerì come le classi borghesi tornassero in quel tempo al cosmopolitismo (inteso come abbattimento delle frontiere nazionali), dopo aver esaltato il nazionalismo sotto il fascismo, al fine di meglio contrastare le conquiste dei lavoratori ottenute sul piano nazionale quale esito della lotta antifascista. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, I legisl., Discussioni, seduta del 13 luglio 1949, p. 10299. Sullo stesso tema si legga l’intervento di Giuseppe Berti in occasione della ratifica parlamentare dei trattati di Roma, cfr. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, legisl. II, Discussioni, seduta antimeridiana del 30 luglio 1957, pp. 34735-34746.

[10] Per un’introduzione storica al neoliberismo si veda D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il saggiatore, Milano 2007. Sulle conseguenze del capitalismo neoliberista invece E. Luttwak, La dittatura del capitalismo, Mondadori, Milano 1999, pp. 113-151. Si veda per un quadro generale il saggio di W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 40-67 dove si postula la possibilità di una concreta implosione del patto sociale che era stato alla base della democrazia capitalistica. Sempre Streeck (p. 44) afferma che: «A partire dagli anni settanta iniziò a disgregarsi ciò che gli studiosi inglesi definiscono come il postwar settlement del capitalismo democratico: un patto sociale generato dalla situazione postbellica che investe i fondamenti dell’impresa in funzione della prosecuzione del capitalismo in una forma rinnovata».

[11] W. Streeck, op. cit., p. 113. Cfr. S. Cesaratto, Chi non rispetta le regole? Italia e Germania le doppie morali dell’euro, Imprimatur, Milano 2018.

[12] D. Moro, Come l’euro alimenta la divergenza tra paesi europei, Laboratorio21, 21 giugno 2019, consultabile all’indirizzo http://www.laboratorio-21.it/come-leuro-alimenta-la-divergenza-tra-i-paesi-europei/?fbclid=IwAR3J1lHZxKNSHMmbjEfLbaDVg8XavPFiT9jldtSf-fa7Q0lIau0W66uQ318


[13] W. Streeck, op. cit., pp. 201-204. Sulla riforma dell’euro proposta da Macron, che comporterebbe la creazione di un fondo monetario europeo primo embrione di un futuro “Tesoro” europeo e sulle analogie di funzionamento tra FMI e UE, nonché sulla crisi dell’euro quale fattore di peggioramento della divergenza tra paesi europei (divisi tra “Europa nucleo” e “periferia”) cfr. H. Kundnani, L'unione Europea è la brutta copia del fondo monetario, «Limes», 1 (2018), pp. 263-67.

[14] W. Streeck, op. cit., p. 112 afferma a tal proposito che, come risultato della destrutturazione dello stato da “fiscale” in “debitore” (cfr. ivi, pp. 94-97), si delinea in gran parte del mondo e in particolare in Europa una nuova e pericolosa forma politica, definita dal sociologo tedesco come “diplomazia finanziaria intergovernativa”, in conseguenza della quale «l’assegnazione di compiti di controllo e di regolamentazione fiscale a un organismo di governance internazionale che presieda ai singoli governi nazionali rischia di risolvere per un lungo periodo di tempo […] il conflitto tra capitalismo e democrazia a favore del capitalismo, realizzando una vera e propria espropriazione dei mezzi di produzione dalle mani della politica dei popoli nazionali […]». Sempre Streeck (ivi, p. 114) afferma che «la politica internazionale del debito si presenta come una forma di collaborazione tra governi nazionali a tutela di eventuali perdite subite dagli investitori finanziari, con l’obiettivo di mantenere complessivamente bassi gli aumenti dei tassi di interesse dei prestiti pubblici [il famoso “spread”, n.d.r.] e di garantirsi il più possibile dal rischio di dover risarcire le “proprie” banche nazionali per le perdite subite [...]».

[15] A. Bagnai, Il tramonto dell’euro, Imprimatur, Reggio Emilia 2012, pp. 156-161. Sullo stesso argomento, e in particolare sul tema di una uscita “da sinistra”, vedasi D. Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, Reggio Emilia 2018.

[16] B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda ai giorni nostri, Il Mulino, Bologna 2005, p. 170.

[17] Cfr. U. Beck, Europa tedesca, Laterza, Roma-Bari 2013.

[18] T. Garton Ash, Allein kriegen sie es nicht hin. In die Führung Europas hat sich Deutschland nicht gedrängt, es ist auch schlecht darauf vorbereitet, in “Der Spiegel”, n.7, 2012, pp. 24-25 ( https://www.spiegel.de/spiegel/print/d-83977208.html )

[19] Da un lato Von Hayek aveva sostenuto già nel 1976 che fosse preferibile un sistema di libero scambio tra monete, piuttosto che l’adozione di una valuta unica frutto di una monopolizzazione dell’emissione monetaria, su cui si veda una recente traduzione del saggio dello stesso von Hayek, La denazionalizzazione della moneta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018; dall’altro Friedman, intervistato nel 2000 da un giornalista sulla possibilità di funzionamento dell’euro, aveva risposto affermando: «I think it’s highly unlikely that it’s going to be a great success. It would be very desirable and I would like to see it a success from a policy point of view, but as an economist, I think there are real problems, arising in a small way now when you see the difference between Ireland and Italy» («Penso che sia altamente improbabile che avrà un grande successo. Sarebbe molto desiderabile e mi piacerebbe che avesse successo dal punto di vista politico, ma come economista, penso che ci siano problemi reali, che sorgono in modo semplice non appena si osserva la differenza tra Irlanda e Italia»), L. Jonung, E. Drea, The euro: It can't happen, It's a bad idea, It won't last. US economists on the EMU, 1989-2002, «Economic Journal Watch», 7 (2010), num. 1, p. 29.

[20] F. Losurdo, L’Unione europea e il declino dell’ordine neoliberale, in “Federalismi.it”, n. 6, 2018, p. 15, vd. n. 51.

[21] L. Caracciolo, Euro No. Non morire per Maastricht, Laterza, Roma-Bari, p. 19. Il recente trattato di Aquisgrana siglato tra Francia e Germania pare evidenziare la tendenza, indotta dall’integrazione funzionalistica, ad un ritorno dei protagonismi nazionali. Tra i due Stati è stato concordato un rafforzamento della cooperazione bilaterale multilivello, dal piano militare a quello politico-economico.

[22] Sulla crisi europea e sulla mancata leadership tedesca si veda V. Castronovo, La sindrome tedesca. Europa 1989-2014, Laterza, Roma-Bari 2014.

[23] A proposito dell’accettabilità popolare delle unioni economiche continentali, lo stesso Hayek, nume tutelare del neoliberismo austro-americano, si chiedeva: «È verosimile che un contadino francese sia disposto a pagare di più il fertilizzante per aiutare l’industria britannica? L’operaio svedese sarà pronto a pagare di più le arance per sostenere il coltivatore californiano? O ancora l’impiegato della City di Londra sarà disposto a pagare di più le proprie scarpe o la propria bicicletta per aiutare l’operaio belga o americano?», F. von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, «New Commonwealth Quarterly», 5 (1939), num. 2, pp. 131–49, citato in F. Losurdo, op. cit., p. 2.




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