giovedì 23 aprile 2020

La riflessione sulla sicurezza geopolitica nei Federalist Papers


Alexander Hamilton


La riflessione sulla sicurezza geopolitica nei Federalist Papers di Alexander Hamilton


1.       Introduzione

Nel 1787 Alexander Hamilton era uno dei tre delegati scelti per rappresentare lo Stato di New York nella Convezione di Filadelfia che doveva decidere il varo della nuova Costituzione degli Stati Uniti.  Gli Stati americani erano giunti al progetto di una nuova struttura federale a fronte dell’inadeguatezza del vecchio assetto maturato a seguito della dichiarazione d’indipendenza (approvata dal secondo Congresso continentale il 4 luglio 1776), il cui ordinamento, iscritto negli Articoli della Confederazione, era stato strutturato in modo da costituire non più di un’alleanza perpetua di Stati o una lega difensiva e offensiva che lasciava ai singoli vertici statuali tutti i mezzi di governo. L’unico organo deliberante, il Congresso, composto da più delegati per ogni Stato, impediva l’esercizio di una volontà unitaria, dovendo esso decretare ogni volta a maggioranza dei delegati dei singoli Stati, ai quali corrispondeva comunque un voto.[1]
Il nuovo ordinamento comportò il passaggio dalla Confederazione allo Stato federale, in cui coesistevano due ordinamenti giuridici, quello dello Stato federale e quello degli Stati membri, cui veniva garantita, solo in alcuni ambiti, piena sovranità.[2] La nuova Costituzione federale venne approvata dalla Convenzione il 17 settembre 1787, ma a quel punto doveva subire il vaglio dei singoli Stati che dovevano approvarla al fine di renderla esecutiva.
Alexander Hamilton si adoperò per difendere il testo costituzionale affinché fosse approvato dallo Stato di New York, la cui autorità, rappresentata dal governatore George Clinton, appariva seccamente ostile ad ogni accrescimento del potere del governo federale. La difesa di Hamilton di un potere accentratore si scontrava contro le differenze di coloro che vi scorgevano il pericolo di una deriva tirannica e difendevano, secondo lui scioccamente, l’assetto costituzionale uscito dagli Articoli della Confederazione entrati in vigore nel 1781, che assegnavano invece al potere federale un ruolo puramente nominale. Paventava Hamilton sul New York Packet del novembre 1787 che «respingere questa Costituzione potrebbe, con ogni probabilità, significare la fine dell’Unione».[3]


2.      La teoria della sicurezza geopolitica nella riflessione di Hamilton

Nell’ottavo articolo del Federalist dal titolo Le conseguenze della guerra civile, Hamilton dedica un’importante riflessione al tema della disunione interstatale quale fattore determinante nell’inimicizia trai paesi e quale elemento scatenante della guerra tra di essi. Egli teorizza in questo articolo il principio della sicurezza geopolitica degli Stati, interpretata come chiave della condotta nazionale nelle relazioni interstatali. «La sicurezza dal pericolo esterno», enuncia l’autore, «è la più potente direttrice della condotta delle nazioni».[4] E si spinge oltre affermando che «it has from long observation of the progress of society become a sort of axiom in politics, that vicinity, or nearness of situation, constitutes nations natural enemies».[5]
Più Stati concorrenti e vicini dal punto di vista geografico sarebbero secondo il politico americano inevitabilmente portati allo scontro e ad accrescere i rischi di guerra. Tale teoria rientra nella più ampia dottrina della sicurezza repubblicana («republican security theory»), ma si distingue da questa per la maggiore enfasi posta sulla sicurezza dai pericoli esterni[6]. La teorizzazione di Hamilton appare divergente rispetto alle teorie geopolitiche classiche dell’heartland mackinderiano e del rimland di Nicholas Spykman, secondo le quali il cuore del confronto geopolitico verte attorno al controllo della massa eurasiatica. Secondo il geopolitico inglese Mackinder, padre della teoria dell’ heartland, quest’ultimo dipenderebbe dalla capacità di dominio dell’”area perno” collocata approssimativamente nel nucleo del continente eurasiatico, mentre a parere di Spykman dall’importanza del rimland, ovvero di una vasta fascia esterna all’Asia centrale che va dalle coste atlantiche europee e dall’Europa occidentale fino all’Estremo oriente.[7]
La teoria della sicurezza geopolitica presuppone un collegamento causale tra posizione geografica, spesa militare e libertà repubblicana: quest’ultima, ovvero la libertà e l’indipendenza di un paese, dipenderebbero in maniera determinate dalla condizione di isolamento geografico, o comunque di assenza di pericoli dovuti alla condizione geografica, nonché dalla scarsità di un costoso apparato militare, teso a difendere la società dalle minacce esterne. [8] Rispetto alle teorie dell’” area perno”, la teoria di Hamilton si caratterizza, nel panorama dottrinario geopolitico americano, per una vocazione isolazionista, diametralmente opposta a quella che, rompendo l’isolazionismo auspicato dalla dottrina Monroe[9], vorrebbe un coinvolgimento degli Stati Uniti nel gioco delle potenze mondiali (secondo la formula che sarà poi quella wilsoniano-rooseveltiana), o a quella dell’heartland che vorrebbe addirittura una proiezione eurasiatica della potenza americana.
La teoria di Hamilton andrebbe inquadrata secondo tre elementi cardine:  la libertà repubblicana, il potere militare e la posizione geografica di uno Stato.  A parere del suo formulatore, in assenza di sicurezza geopolitica, ovvero di una favorevole posizione geografica (terzo elemento), il potere militare (secondo elemento) diventerebbe preminente mettendo in pericolo la libertà repubblicana (primo elemento) e condurrebbe alla comparsa dei fenomeni tipici del Vecchio continente, vale a dire quelli della presenza di un esercito permanente sintomo di insicurezza politica, di un potere centrale soverchiante in grado di portare all’assolutismo, tutti inestricabilmente connessi a un condizionamento di tipo geografico.
Ma procediamo con ordine. Senza sicurezza geopolitica a diventare minacciosa sarebbe prima di tutto la presenza di eserciti potenzialmente pericolosi per la libertà interna, i quali potrebbero accrescere la sfiducia tra i diversi Stati e alimentare i rischi di guerra: i piccoli Stati in particolar modo farebbero naturalmente appello ad eserciti stabili per porsi sullo stesso piano dei più potenti vicini, osserva Hamilton. [10] L’insicurezza politica e il rischio di guerra porterebbero a esecutivi potenti che potrebbero restringere le libertà individuali, accelerando una trasformazione in senso monarchico dell’ordinamento politico.[11] La sicurezza esterna è, secondo la formulazione del padre fondatore americano, essenziale per lo sviluppo della sicurezza interna e del governo della legge. Tale sicurezza può essere garantita, nel caso americano preso da lui sotto esame, solo attraverso il perseguimento del progetto di una grande Federazione retta da un governo unitario.[12]
Tutta la riflessione di Hamilton nel Federalist è volta a mettere in guardia contro i rischi della dissoluzione della confederazione nordamericana derivanti dalla formazione di numerosi eserciti permanenti all’interno singoli Stati. Una frammentazione degli Stati americani, simile a quella presente sul suolo europeo, sarebbe incompatibile con l’ideale della repubblica cittadina dedita agli affari e ai commerci.[13] Un potere centrale oppressivo, quale normale effetto della percezione di una minaccia esterna incombente, specie nei piccoli Stati, porterebbe all’instaurazione della tirannide che ha «rovinato il Vecchio mondo».[14]
Stando alla teoria hamiltoniana quindi, la limitazione del potere, la tutela delle libertà individuali e l’instaurazione stessa dello stato di diritto, sarebbero possibili solo in paesi di tipo insulare (come Gran Bretagna e gli USA), o comunque messi al riparo dalla geografia dalle incursioni e dalle minacce di paesi concorrenti.[15] Le potenze continentali europee, invece, sottoposte dalla geografia a un perenne rischio di invasione e costrette per necessità alla politica dell’equilibrio di potenza, hanno al contrario conosciuto una spirale di militarizzazione, burocratizzazione e centralizzazione eccessive che ha posto in pericolo l’ordinamento costituzionale liberale e impedito di preservare le libertà individuali, portando al dispotismo.[16]
Sotto l’aspetto invece meramente geografico Hamilton enuncia il principio per cui un paese che sia raramente esposto alle invasioni, sarebbe retto da governi che non hanno buoni pretesti per mantenere attivi eserciti numerosi; avrebbe un potere civile che permane in pieno vigore; i suoi cittadini sarebbero disabituati a richiedere la protezione dei militari o sarebbero meno inclini a cedere alle loro usurpazioni.[17] In definitiva uno Stato ricadente in queste condizioni, come gli USA ovvero la stessa Gran Bretagna, avrebbe un popolo non sottoposto alla subordinazione dei militari e pronto a resistere a un potere dal quale si supponga possa derivare un pregiudizio alle proprie prerogative di libertà. 
Se la Gran Bretagna fosse situata sul continente, si troverebbe nella situazione di doversi dotare di un potere militare coestensivo di quello presente presso le altre potenze europee e ad avere governi con caratteristiche tendenzialmente assolute o in cui a prevalere è la volontà «di un individuo».[18]  Le conseguenze di una frammentazione dell’Unione tra i singoli governi sarebbero quelle di far precipitare gli Stati Uniti in una contesa tra baronie feudali o in una vera e propria anarchia feudale.[19]
Qualche saggio più avanti Hamilton, tuttavia, riflettendo sulla necessità di strutturare il potere esecutivo collegialmente o monocraticamente, rigetta la tesi di coloro che scorgono in un esecutivo forte e affidato ad un’unica carica i rischi di una deriva tirannica. Se la suprema carica statale osserva l’autore del Federalist   «fosse affidata a più di una persona, ciò varrebbe a paralizzare o a frustrare le più importanti misure di governo nelle situazioni più critiche di emergenza del paese».[20]
È da considerare in questo caso che, al di là della consapevolezza di Hamilton e degli altri padri fondatori che gli Stati Uniti fossero favoriti dal punto di vista geografico e messi al riparo dalle invasioni esterne, nel momento in cui essi scrivono la sicurezza della Confederazione non era ancora conseguita del tutto. Il senso di accerchiamento era suscitato dalla minaccia di spagnoli, nativi americani e inglesi che circondavano di fatto il territorio degli Stati americani. I possedimenti britannici, spagnoli e indiani si estendevano dal Maine alla Georgia, accerchiando l’Unione e tale pericolo non appariva neppure isolato singoli Stati, ma coinvolgeva l’intera Unione.[21]
La «necessità di mantenere alla nostra frontiera occidentale dei piccoli avamposti armati», al fine di difendere il paese «dalle incursioni e dalle predonerie degli indiani» scrive Hamilton    rende necessario che nella Costituzione non possano essere posti limiti alla facoltà discrezionale del potere legislativo di decidere in merito alla necessità di forze armate nazionali, le quali, benché possano configurarsi come «un esercito armato in tempo di pace», al tempo stesso però sarebbero l’unico strumento per una difesa stabile del paese. [22]  Una tale forza avrebbe escluso inoltre il ricorso alle leve temporanee della milizia, altamente onerose sia in termini economici che strettamente pratici.
Ma v’è un’altra ragione secondo Hamilton che porta a preferire presidi stabili ad occidente. Egli si chiede infatti: «Chi può mai pensare che sarebbe saggio lasciare queste posizioni nelle condizioni di poter essere occupate in qualsiasi momento dall’una o dall’altra delle due potenze vicine?».[23] La necessità di difesa, poi, si estende anche al «nostro fianco Atlantico», dove è necessario «non appena possibile» costruire una marina adeguata al fine di salvaguardare i commerci. [24]
A dispetto di queste considerazioni volte a rimarcare la pericolosità della presenza di presidi europei su suolo americano,  Hamilton afferma in uno dei primi saggi che l’Europa, nonostante tutto, si trova a debita distanza dagli Stati Uniti, e ciò garantisce una discreta sicurezza in termini geopolitici alla neonata compagine statunitense. Le colonie europee nell’emisfero occidentale, deboli di presenza militare, non sono in grado di costituire «elemento di effettiva preoccupazione» all’influenza statunitense.[25]
Nella rivendicazione di un isolamento degli Stati Uniti rispetto all’Europa si può leggere la tesi hamiltoniana della necessità di non coinvolgimento negli affari europei, antesignana della dottrina Monroe, la quale si ritrova qui ancora in forme embrionali. Hamilton sostiene a questo proposito che «istituzioni militari permanenti ed imponenti non saranno in questo caso indispensabili per assicurare la nostra tranquillità», ma avverte che, qualora gli Stati Uniti dovessero dividersi «in due o tre confederazioni», gli stessi verrebbero a trovarsi nella situazione di perenne conflittualità delle potenze continentali europee. [26] Preservare l’unione tra gli Stati americani consentirà «di godere per secoli di una posizione di privilegio analoga a quella di un’isola». [27]



3.      Conclusione

Si è tentato di decifrare la teoria hamiltoniana attraverso il punto di vista della libertà repubblicana, della collocazione geografica e della presenza militare. Tra questi elementi paiono esistere connessioni causali; se uno di essi appare carente rispetto ai restanti, si creano squilibri nella struttura politica e istituzionale di uno Stato. Laddove la geografia espone a dei rischi di invasione un paese, un apparato militare eccessivo risultante da una tale condizione di insicurezza mette in pericolo la libertà repubblicana. Laddove invece la libertà politica è preservata, ciò accade perché un mancato sovradimensionamento militare mette al riparo dalla costituzione di ingenti apparati bellici in tempo di pace. In definitiva, secondo la teoria hamiltoniana, la libertà di uno Stato è deterministicamente legata alla geografia e alla messa al riparo dai pericoli di invasione esterna.
La geografia e la geopolitica ricoprono un ruolo importante anche nella storia della rivoluzione americana, avendo in parte determinato il conseguimento dell’indipendenza delle tredici colonie e successivamente contribuito a consolidare la compagine statale americana. Se all’inizio della loro storia gli Stati Uniti hanno dovuto fare i conti con il problema dell’accerchiamento da parte delle potenze rivali (si fa riferimento ai presidi coloniali spagnoli e inglesi e a quelli indiani), in seguito, il rafforzamento della Confederazione e l’estromissione degli inglesi hanno condotto ad una presenza stabile e duratura degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale.  Da questa posizione essi hanno potuto condurre nel secolo successivo la loro politica di ascesa nazionale e poi imperiale, dapprima su scala continentale e in seguito globale.







[1] La Confederazione mancava peraltro di organi esecutivi, giudiziari, di un Tesoro e del potere di imporre tasse.
[2] Alexander Hamilton, John Jay, James Madison, Il federalista, Raccolta di saggi scritti in difesa della Costituzione degli Stati Uniti d’America approvata il 17 settembre 1787 dalla Convenzione federale, trad. italiana di Bianca Maria Tedeschini Lalli, Nistri-Lischi, Pisa 1955, p. xlvii.
[3]A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il federalista cit., p. 49.
[4] Ivi, p. 44.
[5] «[…] Il fatto che la vicinanza territoriale rende le nazioni dei nemici naturali, è divenuto, dopo una lunga considerazione di quel che è stato il corso della storia, una specie di assioma politico». Versione inglese tratta da A. Hamilton, The Federalist. A commentary on the Constitution of the United States, G. P. Putnam’s sons, New York, London, 1923, p. 34.
[6] Per un approccio ampio alla teoria della sicurezza repubblicana vista in connessione con la teoria kantiana della pace democratica si veda Daniel Deudney, Publius before Kant: Federal-Republican Security and Democratic Peace, in “European Journal of International Relations”, Vol. 10(3), 2004,  pp. 319–323.
[7] Luca Muscarà, Gli Stati Uniti e la geopolitica, in «C’era una volta Obama», Limes n. 1, 2010, p. 124. Sulla teoria dell’heartland si veda H. J. Mackinder, The Geographical Pivot of History, in «The Geographical Journal», vol. 23, n. 4. (Apr.1904), pp. 421-437. Sulla teoria del rimland si veda l’opera di Nicholas Spykman, The Geography of the Peace, Harcourt, Brace and Company, New York 1944.
[8] L. Muscarà, Gli Stati Uniti e la geopolitica cit., p. 128.
[9] Con questo nome vengono indicati alcuni principi di politica estera, enunciati dal presidente Monroe nel 1823, in base ai quali si affermava che gli USA non avrebbero tollerato per l’avvenire alcun tentativo delle potenze europee di fondare colonie nel continente americano. Col passare del tempo, giungendo all’ultimo scorcio del XIX secolo, tale direttrice politica si tramutò in una presa di controllo effettiva sull’intero emisfero occidentale da parte degli Stati Uniti.
[10] A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il federalista cit., p. 45. Il riferimento qui è all’esperienza del Regno di Prussia e alla costruzione di un ingente apparato militare ivi insediato. Sul tema della “bilancia europea”, sviluppatasi a partire dai secoli  XVI e XVII come prevenzione dal rischio del ristabilirsi in Europa dell’unità imperiale, si veda M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2012, p. 55, passim. Una simile argomentazione volta a ravvisare nella collocazione ravvicinata di stati di piccola estensione territoriale una tendenza costante alla guerra si ritrova in Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, RCS Quotidiani, Milano 2010, p. 21.  
[11] A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il federalista cit., p. 45.
[12] Ivi, p. 51.
[13] Ivi, pp. 46-47.
[14] Ivi, p. 45.
[15] Ivi, pp. 44-48. Cfr. Domenico Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 278.
[16] L. Muscarà, Gli Stati Uniti e la geopolitica cit., pp. 128-129.
[17] A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il federalista cit., p. 46.
[18] Ivi, pp. 47-48.
[19] Ivi, pp. 109-110.
[20] Ivi, p. 481.
[21] Ivi, p. 162.
[22] Ivi, pp. 160-161.
[23] Ivi, p. 161. Il riferimento è in questo caso alla Spagna e alla Gran Bretagna, le due potenze coloniali allora ancora fortemente radicate su suolo americano. La Gran Bretagna manteneva infatti presidi nei territori del Nord-Ovest, mentre la Spagna controllava la penisola a sud del nuovo stato americano (la Florida) e la Louisiana occidentale (quindi tutta l’area del corso del Mississippi).
[24] Ibidem. Cfr. ivi, pp.  68-71.
[25] Ivi, p. 48.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem. Cfr. ivi, p. 83.

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