Alexander Hamilton |
La
riflessione sulla sicurezza geopolitica nei Federalist
Papers di Alexander Hamilton
1.
Introduzione
Nel 1787 Alexander Hamilton era uno dei
tre delegati scelti per rappresentare lo Stato di New York nella Convezione di
Filadelfia che doveva decidere il varo della nuova Costituzione degli Stati
Uniti. Gli Stati americani erano giunti
al progetto di una nuova struttura federale a fronte dell’inadeguatezza del
vecchio assetto maturato a seguito della dichiarazione d’indipendenza
(approvata dal secondo Congresso continentale il 4 luglio 1776), il cui
ordinamento, iscritto negli Articoli della Confederazione, era stato
strutturato in modo da costituire non più di un’alleanza perpetua di Stati o
una lega difensiva e offensiva che lasciava ai singoli vertici statuali tutti i
mezzi di governo. L’unico organo deliberante, il Congresso, composto da più
delegati per ogni Stato, impediva l’esercizio di una volontà unitaria, dovendo
esso decretare ogni volta a maggioranza dei delegati dei singoli Stati, ai
quali corrispondeva comunque un voto.[1]
Il nuovo
ordinamento comportò il passaggio dalla Confederazione allo Stato federale, in
cui coesistevano due ordinamenti giuridici, quello dello Stato federale e
quello degli Stati membri, cui veniva garantita, solo in alcuni ambiti, piena
sovranità.[2] La nuova Costituzione
federale venne approvata dalla Convenzione il 17 settembre 1787, ma a quel
punto doveva subire il vaglio dei singoli Stati che dovevano approvarla al fine
di renderla esecutiva.
Alexander Hamilton
si adoperò per difendere il testo costituzionale affinché fosse approvato dallo
Stato di New York, la cui autorità, rappresentata dal governatore George
Clinton, appariva seccamente ostile ad ogni accrescimento del potere del
governo federale. La difesa di Hamilton di un potere accentratore si scontrava
contro le differenze di coloro che vi scorgevano il pericolo di una deriva
tirannica e difendevano, secondo lui scioccamente, l’assetto costituzionale
uscito dagli Articoli della Confederazione entrati in vigore nel 1781, che
assegnavano invece al potere federale un ruolo puramente nominale. Paventava
Hamilton sul New York Packet del
novembre 1787 che «respingere questa Costituzione potrebbe, con ogni
probabilità, significare la fine dell’Unione».[3]
2.
La teoria della sicurezza geopolitica nella riflessione
di Hamilton
Nell’ottavo articolo del Federalist
dal titolo Le conseguenze della guerra
civile, Hamilton dedica
un’importante riflessione al tema della disunione interstatale quale fattore
determinante nell’inimicizia trai paesi e quale elemento scatenante della
guerra tra di essi. Egli teorizza in questo articolo il principio
della sicurezza geopolitica degli Stati, interpretata come chiave della
condotta nazionale nelle relazioni interstatali. «La sicurezza dal pericolo
esterno», enuncia l’autore, «è la più potente direttrice della condotta delle
nazioni».[4] E si spinge oltre affermando che «it has from long observation of the
progress of society become a sort of axiom in politics, that vicinity, or
nearness of situation, constitutes nations natural enemies».[5]
Più Stati
concorrenti e vicini dal punto di vista geografico sarebbero secondo il
politico americano inevitabilmente portati allo scontro e ad accrescere i
rischi di guerra. Tale teoria rientra nella più ampia dottrina della sicurezza
repubblicana («republican security theory»), ma si distingue da questa per la
maggiore enfasi posta sulla sicurezza dai pericoli esterni[6]. La teorizzazione di
Hamilton appare divergente rispetto alle teorie geopolitiche classiche dell’heartland mackinderiano e del rimland di Nicholas Spykman, secondo le
quali il cuore del confronto geopolitico verte attorno al controllo della massa
eurasiatica. Secondo il geopolitico inglese Mackinder, padre della teoria dell’ heartland, quest’ultimo dipenderebbe
dalla capacità di dominio dell’”area perno” collocata approssimativamente nel
nucleo del continente eurasiatico, mentre a parere di Spykman dall’importanza
del rimland, ovvero di una vasta
fascia esterna all’Asia centrale che va dalle coste atlantiche europee e
dall’Europa occidentale fino all’Estremo oriente.[7]
La teoria della
sicurezza geopolitica presuppone un collegamento causale tra posizione
geografica, spesa militare e libertà repubblicana: quest’ultima, ovvero la
libertà e l’indipendenza di un paese, dipenderebbero in maniera determinate
dalla condizione di isolamento geografico, o comunque di assenza di pericoli
dovuti alla condizione geografica, nonché dalla scarsità di un costoso apparato
militare, teso a difendere la società dalle minacce esterne. [8] Rispetto alle teorie
dell’” area perno”, la teoria di Hamilton si caratterizza, nel panorama
dottrinario geopolitico americano, per una vocazione isolazionista,
diametralmente opposta a quella che, rompendo l’isolazionismo auspicato dalla
dottrina Monroe[9],
vorrebbe un coinvolgimento degli Stati Uniti nel gioco delle potenze mondiali
(secondo la formula che sarà poi quella wilsoniano-rooseveltiana), o a quella
dell’heartland che vorrebbe
addirittura una proiezione eurasiatica della potenza americana.
La teoria di
Hamilton andrebbe inquadrata secondo tre elementi cardine: la libertà repubblicana, il potere militare e la
posizione geografica di uno Stato. A
parere del suo formulatore, in assenza di sicurezza geopolitica, ovvero di una
favorevole posizione geografica (terzo elemento), il potere militare (secondo
elemento) diventerebbe preminente mettendo in pericolo la libertà repubblicana
(primo elemento) e condurrebbe alla comparsa dei fenomeni tipici del Vecchio
continente, vale a dire quelli della presenza di un esercito permanente sintomo
di insicurezza politica, di un potere centrale soverchiante in grado di portare
all’assolutismo, tutti inestricabilmente connessi a un condizionamento di tipo
geografico.
Ma procediamo con
ordine. Senza sicurezza geopolitica a diventare minacciosa sarebbe prima di
tutto la presenza di eserciti potenzialmente pericolosi per la libertà interna,
i quali potrebbero accrescere la sfiducia tra i diversi Stati e alimentare i
rischi di guerra: i piccoli Stati in particolar modo farebbero naturalmente
appello ad eserciti stabili per porsi sullo stesso piano dei più potenti
vicini, osserva Hamilton. [10] L’insicurezza politica e
il rischio di guerra porterebbero a esecutivi potenti che potrebbero
restringere le libertà individuali, accelerando una trasformazione in senso
monarchico dell’ordinamento politico.[11] La sicurezza esterna è,
secondo la formulazione del padre fondatore americano, essenziale per lo
sviluppo della sicurezza interna e del governo della legge. Tale sicurezza può
essere garantita, nel caso americano preso da lui sotto esame, solo attraverso
il perseguimento del progetto di una grande Federazione retta da un governo
unitario.[12]
Tutta la
riflessione di Hamilton nel Federalist
è volta a mettere in guardia contro i rischi della dissoluzione della
confederazione nordamericana derivanti dalla formazione di numerosi eserciti
permanenti all’interno singoli Stati. Una frammentazione degli Stati americani,
simile a quella presente sul suolo europeo, sarebbe incompatibile con l’ideale
della repubblica cittadina dedita agli affari e ai commerci.[13] Un potere centrale
oppressivo, quale normale effetto della percezione di una minaccia esterna incombente,
specie nei piccoli Stati, porterebbe all’instaurazione della tirannide che ha
«rovinato il Vecchio mondo».[14]
Stando alla teoria
hamiltoniana quindi, la limitazione del potere, la tutela delle libertà
individuali e l’instaurazione stessa dello stato di diritto, sarebbero
possibili solo in paesi di tipo insulare (come Gran Bretagna e gli USA), o
comunque messi al riparo dalla geografia dalle incursioni e dalle minacce di
paesi concorrenti.[15] Le potenze continentali
europee, invece, sottoposte dalla geografia a un perenne rischio di invasione e
costrette per necessità alla politica dell’equilibrio
di potenza, hanno al contrario conosciuto una spirale di
militarizzazione, burocratizzazione e centralizzazione eccessive che ha posto
in pericolo l’ordinamento costituzionale liberale e impedito di preservare le
libertà individuali, portando al dispotismo.[16]
Sotto l’aspetto invece
meramente geografico Hamilton enuncia il principio per cui un paese che sia raramente
esposto alle invasioni, sarebbe retto da governi che non hanno buoni pretesti
per mantenere attivi eserciti numerosi; avrebbe un potere civile che permane in
pieno vigore; i suoi cittadini sarebbero disabituati a richiedere la protezione
dei militari o sarebbero meno inclini a cedere alle loro usurpazioni.[17] In definitiva uno Stato
ricadente in queste condizioni, come gli USA ovvero la stessa Gran Bretagna,
avrebbe un popolo non sottoposto alla subordinazione dei militari e pronto a
resistere a un potere dal quale si supponga possa derivare un pregiudizio alle
proprie prerogative di libertà.
Se la Gran
Bretagna fosse situata sul continente, si troverebbe nella situazione di doversi
dotare di un potere militare coestensivo di quello presente presso le altre
potenze europee e ad avere governi con caratteristiche tendenzialmente assolute
o in cui a prevalere è la volontà «di un individuo».[18] Le conseguenze di una frammentazione dell’Unione
tra i singoli governi sarebbero quelle di far precipitare gli Stati Uniti in
una contesa tra baronie feudali o in una vera e propria anarchia feudale.[19]
Qualche saggio più
avanti Hamilton, tuttavia, riflettendo sulla necessità di strutturare il potere
esecutivo collegialmente o monocraticamente, rigetta la tesi di coloro che
scorgono in un esecutivo forte e affidato ad un’unica carica i rischi di una
deriva tirannica. Se la suprema carica statale – osserva l’autore
del Federalist – «fosse affidata a
più di una persona, ciò varrebbe a paralizzare o a frustrare le più importanti
misure di governo nelle situazioni più critiche di emergenza del paese».[20]
È da considerare
in questo caso che, al di là della consapevolezza di Hamilton e degli altri
padri fondatori che gli Stati Uniti fossero favoriti dal punto di vista
geografico e messi al riparo dalle invasioni esterne, nel momento in cui essi
scrivono la sicurezza della Confederazione non era ancora conseguita del tutto.
Il senso di accerchiamento era suscitato dalla minaccia di spagnoli, nativi
americani e inglesi che circondavano di fatto il territorio degli Stati
americani. I possedimenti britannici, spagnoli e indiani si estendevano dal
Maine alla Georgia, accerchiando l’Unione e tale pericolo non appariva neppure isolato
singoli Stati, ma coinvolgeva l’intera Unione.[21]
La «necessità di
mantenere alla nostra frontiera occidentale dei piccoli avamposti armati», al
fine di difendere il paese «dalle incursioni e dalle predonerie degli indiani» – scrive Hamilton – rende
necessario che nella Costituzione non possano essere posti limiti alla facoltà
discrezionale del potere legislativo di decidere in merito alla necessità di
forze armate nazionali, le quali, benché possano configurarsi come «un esercito
armato in tempo di pace», al tempo stesso però sarebbero l’unico strumento per
una difesa stabile del paese. [22] Una tale forza avrebbe escluso inoltre il
ricorso alle leve temporanee della milizia, altamente onerose sia in termini
economici che strettamente pratici.
Ma v’è un’altra
ragione secondo Hamilton che porta a preferire presidi stabili ad occidente.
Egli si chiede infatti: «Chi può mai pensare che sarebbe saggio lasciare queste
posizioni nelle condizioni di poter essere occupate in qualsiasi momento
dall’una o dall’altra delle due potenze vicine?».[23] La necessità di difesa,
poi, si estende anche al «nostro fianco Atlantico», dove è necessario «non
appena possibile» costruire una marina adeguata al fine di salvaguardare i
commerci. [24]
A dispetto di
queste considerazioni volte a rimarcare la pericolosità della presenza di
presidi europei su suolo americano, Hamilton afferma in uno dei primi saggi che
l’Europa, nonostante tutto, si trova a debita distanza dagli Stati Uniti, e ciò
garantisce una discreta sicurezza in termini geopolitici alla neonata compagine
statunitense. Le colonie europee nell’emisfero occidentale, deboli di presenza
militare, non sono in grado di costituire «elemento di effettiva preoccupazione» all’influenza statunitense.[25]
Nella
rivendicazione di un isolamento degli Stati Uniti rispetto all’Europa si può
leggere la tesi hamiltoniana della necessità di non coinvolgimento negli affari
europei, antesignana della dottrina Monroe, la quale si ritrova qui ancora in
forme embrionali. Hamilton sostiene a questo proposito che «istituzioni
militari permanenti ed imponenti non
saranno in questo caso indispensabili per assicurare la nostra tranquillità»,
ma avverte che, qualora gli Stati Uniti dovessero dividersi «in due o tre
confederazioni», gli stessi
verrebbero a trovarsi nella situazione di perenne conflittualità delle potenze
continentali europee. [26]
Preservare l’unione tra gli Stati americani consentirà «di godere per secoli di
una posizione di privilegio analoga a quella di un’isola». [27]
3.
Conclusione
Si è tentato di decifrare la teoria
hamiltoniana attraverso il punto di vista della libertà repubblicana, della
collocazione geografica e della presenza militare. Tra questi elementi paiono
esistere connessioni causali; se uno di essi appare carente rispetto ai
restanti, si creano squilibri nella struttura politica e istituzionale di uno
Stato. Laddove la geografia espone a dei rischi di invasione un paese, un
apparato militare eccessivo risultante da una tale condizione di insicurezza
mette in pericolo la libertà repubblicana. Laddove invece la libertà politica è
preservata, ciò accade perché un mancato sovradimensionamento militare mette al
riparo dalla costituzione di ingenti apparati bellici in tempo di pace. In
definitiva, secondo la teoria hamiltoniana, la libertà di uno Stato è
deterministicamente legata alla geografia e alla messa al riparo dai pericoli
di invasione esterna.
La geografia e la
geopolitica ricoprono un ruolo importante anche nella storia della rivoluzione
americana, avendo in parte determinato il conseguimento dell’indipendenza delle
tredici colonie e successivamente contribuito a consolidare la compagine
statale americana. Se all’inizio della loro storia gli Stati Uniti hanno dovuto
fare i conti con il problema dell’accerchiamento da parte delle potenze rivali
(si fa riferimento ai presidi coloniali spagnoli e inglesi e a quelli indiani),
in seguito, il rafforzamento della Confederazione e l’estromissione degli
inglesi hanno condotto ad una presenza stabile e duratura degli Stati Uniti
nell’emisfero occidentale. Da questa
posizione essi hanno potuto condurre nel secolo successivo la loro politica di
ascesa nazionale e poi imperiale, dapprima su scala continentale e in seguito
globale.
[1] La Confederazione
mancava peraltro di organi esecutivi, giudiziari, di un Tesoro e del potere di
imporre tasse.
[2] Alexander
Hamilton, John Jay, James Madison, Il
federalista, Raccolta di saggi scritti in difesa della Costituzione degli Stati
Uniti d’America approvata il 17 settembre 1787 dalla Convenzione federale,
trad. italiana di Bianca Maria Tedeschini Lalli, Nistri-Lischi, Pisa 1955, p.
xlvii.
[3]A. Hamilton, J.
Jay, J. Madison, Il federalista cit., p. 49.
[4] Ivi, p. 44.
[5] «[…]
Il fatto che la vicinanza territoriale rende le nazioni dei nemici naturali, è
divenuto, dopo una lunga considerazione di quel che è stato il corso della
storia, una specie di assioma politico». Versione inglese tratta da A. Hamilton, The
Federalist. A commentary on the Constitution of the United States, G. P.
Putnam’s sons, New York, London, 1923, p. 34.
[6] Per un approccio
ampio alla teoria della sicurezza repubblicana vista in connessione con la
teoria kantiana della pace democratica si veda Daniel Deudney, Publius
before Kant: Federal-Republican Security and Democratic Peace, in “European Journal of International Relations”, Vol. 10(3),
2004, pp. 319–323.
[7] Luca Muscarà, Gli Stati Uniti e la geopolitica, in
«C’era una volta Obama», Limes n. 1, 2010, p. 124. Sulla teoria dell’heartland
si veda H. J. Mackinder, The Geographical Pivot of History, in «The
Geographical Journal», vol. 23, n. 4. (Apr.1904),
pp. 421-437. Sulla teoria del rimland si veda l’opera di Nicholas
Spykman, The Geography
of the Peace,
Harcourt, Brace and Company, New York 1944.
[8] L. Muscarà, Gli Stati Uniti e la geopolitica cit., p. 128.
[9] Con questo nome
vengono indicati alcuni principi di politica estera, enunciati dal presidente Monroe
nel 1823, in base ai quali si affermava che gli USA non avrebbero tollerato per
l’avvenire alcun tentativo delle potenze europee di fondare colonie nel
continente americano. Col passare del tempo, giungendo all’ultimo scorcio del
XIX secolo, tale direttrice politica si tramutò in una presa di controllo
effettiva sull’intero emisfero occidentale da parte degli Stati Uniti.
[10] A. Hamilton, J.
Jay, J. Madison, Il federalista cit., p. 45. Il riferimento qui è
all’esperienza del Regno di Prussia e alla costruzione di un ingente apparato
militare ivi insediato. Sul tema della “bilancia europea”, sviluppatasi a
partire dai secoli XVI e XVII come
prevenzione dal rischio del ristabilirsi in Europa dell’unità imperiale, si
veda M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979),
Feltrinelli, Milano 2012, p. 55, passim. Una simile argomentazione volta
a ravvisare nella collocazione ravvicinata di stati di piccola estensione
territoriale una tendenza costante alla guerra si ritrova in Benjamin Constant,
La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, RCS Quotidiani,
Milano 2010, p. 21.
[11] A. Hamilton, J.
Jay, J. Madison, Il federalista cit., p. 45.
[12] Ivi, p. 51.
[13] Ivi, pp. 46-47.
[14] Ivi, p. 45.
[15] Ivi, pp.
44-48. Cfr. Domenico Losurdo, Il
revisionismo storico. Problemi e miti,
Laterza, Roma-Bari 2015, p. 278.
[16] L. Muscarà, Gli Stati Uniti e la geopolitica cit., pp. 128-129.
[17] A. Hamilton, J.
Jay, J. Madison, Il federalista cit., p. 46.
[18] Ivi, pp. 47-48.
[19] Ivi, pp. 109-110.
[20] Ivi, p. 481.
[21] Ivi, p. 162.
[22] Ivi, pp. 160-161.
[23] Ivi, p. 161. Il
riferimento è in questo caso alla Spagna e alla Gran Bretagna, le due potenze
coloniali allora ancora fortemente radicate su suolo americano. La Gran
Bretagna manteneva infatti presidi nei territori del Nord-Ovest, mentre la
Spagna controllava la penisola a sud del nuovo stato americano (la Florida) e
la Louisiana occidentale (quindi tutta l’area del corso del Mississippi).
[24] Ibidem. Cfr. ivi,
pp. 68-71.
[25] Ivi, p. 48.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem. Cfr. ivi, p. 83.
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